NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 31 gennaio 2013

San Valentino: amori in Casa Savoia, mostra al castello di Racconigi




In occasione del 14 febbraio 2013 verranno allestiti una serie di dipinti, attualmente nei depositi del castello - e mai esposti al pubblico- che raffigurano coppie di personaggi di Casa Savoia.
A differenza dell'iconografia ufficiale, che vede in genere rappresentato il singolo personaggio, in questo caso nella stessa opera pittorica vengono raffigurate appunto le coppie. 
La mostra proseguirà fino al 31 marzo 2013.     
Redattore Paola Cremilli

Data Inizio:14 febbraio 2013 
Data Fine: 14 febbraio 2013 
Costo del biglietto: Un biglietto per due visitatori; Per informazioni 0172.84005 
Prenotazione: Facoltativa; Telefono prenotazioni: 0172.84005 
Luogo: Racconigi, Real Castello di Racconigi 
Orario: 9.00 – 19.00 
Telefono: 0172.84005 

Racconigi, Real Castello di Racconigi 
Città: Racconigi 
Indirizzo: Piazza Carlo Alberto 
Provincia: (CN) 
Regione: Piemonte 
Telefono: 0172.84005 

http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_2114622598.html

Il Partito Nazionale Monarchico - Sommario




1.     Il 13 giugno
5.     Le prima battaglie
9.     Il 2 giugno 1954 

Il Partito Nazionale Monarchico - XX parte


UNA ONESTA COMPAGNIA


Nel nostro schieramento politico esiste tra il Centro e la Sinistra una occulta sottaciuta affinità elettiva, che deriva non solo dal comune cordone ombelicale ciellenistico riaffiorante ad ogni traguardo pratico, ma che ha radici storiche e psicologiche più lontane.
«Il nemico del mio nemico è mio amico»: gli uomini che non perdonarono mai alla nuova Italia il 20 Settembre guardarono con segreta soddisfazione alle correnti che sullo scorcio del secolo passato compenetrarono di spirito classista i ceti del lavoro manuale prima che questi fossero compenetrati di spirito nazionale. Ogni indebolimento della Nazione era una rivincita per chi ne aveva subito obtorto collo l'avvento, e le più profonde diversità concettuali non potevano cancellare la convergenza dei rancori contro una realtà storica nella quale gli uni vedevano una usurpazione, gli altri, prigionieri del loro materialismo, una coalizione di interessi borghesi. Nel 1946 la liquidazione della Monarchia derivò da due volontà eterogenee ma convergenti nel proposito di disossare lo Stato risorgimentale.
Conseguentemente e per nostra sventura il senso patrio fu sempre in Italia una ragione ideale limitata alla Destra politica e chiunque fra noi si dimostrò animato da quell'ideale, venne immediatamente dagli avversari d'ogni risma classificato uomo di Destra.
Per trovare la spiegazione delle nostre vicissitudini bisogna osservare il comportamento degli uni e degli altri nelle ore cruciali della nostra storia, e al riguardo la seconda guerra mondiale non rivelò nulla che


non avessimo già veduto, almeno in embrione, nella guerra 1915-18. Anche allora i seguaci della Sinistra (salvo la frazione di Mussolini e di Corridoni convertitasi alla Nazione) puntavano sulla sconfitta. Ideologicamente l'Italia rappresentava allora la libertà e la democrazia, ma ciò non impediva che essi fossero gli zelanti alleati del nemico.
Ora essi accettano il nostro intervento nella prima guerra mondiale unicamente per contrapporlo all'intervento nella seconda, non più aggressivo e non meno inevitabile, e nei loro manifesti hanno l'improntitudine di accostare la Resistenza a Vittorio Veneto, a cui giungemmo malgrado loro e contro di loro. Ora negli stessi manifesti vantano gli scioperi del marzo '43 come affermazione della Resistenza e preludio alla capitolazione del settembre: ma noi ricordiamo gli scioperi e i tumulti dell'agosto '17 che furono seguiti nell'ottobre dalla rotta di Caporetto.

Essi vantarono allora Caporetto che chiamarono «sciopero militare»; e loro fu il grido in Parlamento: «Non più un inverno in trincea!»
Non c'era ancora la radio. Se in quei giorni i pacifisti d'allora avessero avuto a Vienna un microfono col quale martellare quotidianamente gli Italiani con la geniale formula del perdere per vincere - cioè perdere dinanzi al nemico straniero per vincere all'interno gli avversari politici - forse ce l'avrebbero fatta anche allora. Gli sviscerati tra il '40 e il '45 dell'Inghilterra liberale erano tra il '15 e il '18 sviscerati della Germania autoritaria: e come durante la seconda guerra mondiale, così durante la prima essi consumavano nell'impunità la loro opera disgregatrice.

Inesplicabili esplosioni di polveriere e incendi di depositi avvenivano qua e là; volantini di propaganda disfattista giungevano fin nelle trincee ad ora ad ora; cercando perché alcune partite delle nostre granate non scoppiavano si scopriva che le spolette erano state sabotate nelle fabbriche (anche i campioni del silurificio di Baia ebbero i loro predecessori): svariati effetti di cause non difficili a identificarsi.
Nel marzo 1917 la Russia rivoluzionaria usciva dalla guerra abbandonando gli alleati, e nell'agosto alcuni portatori del verbo sovietico sbarcavano a Roma trionfalmente accolti dai nostri socialisti, i quali li accompagnarono a passeggio per la penisola in visita ai nostri centri industriali affinché le masse operaie si beassero della loro vista. Pochi giorni dopo il segretario del Partito, Costantino Lazzari, invitava con una circolare i sindaci socialisti a dimettersi tutti insieme per creare difficoltà al Governo e disordini nel paese, e la denuncia di qualche ingenuo onest'uomo procurò al Lazzari un processo con relativa assoluzione perché «il fatto non costituisce reato». In effetti il nostro codice penale contempla innumerevoli reati ma non quello di attentare alla vita e all'onore della Nazione.
Quando, dopo il rovescio militare nell'autunno, il patriarca del socialismo Filippo Turati dichiarò, bontà sua: «anche per noi la patria è al Grappa e al Piave» (al Grappa e al Piave allora, ma non qualche mese prima al Col di Lana e all'Isonzo!) egli fu severamente deplorato dalla Direzione del Partito. Fatti da ricordare perché lumeggiano la credibilità delle proclamazioni di «patriottismo» da parte degli uomini di Sinistra e la sincerità delle loro preoccupazioni come difensori dell'indipendenza nazionale che sarebbe vulnerata dalla presenza di basi della NATO nel nostro territorio.

I futuri D'Onofrio avevano tra il '15 e il '18 i loro antecessori nei Misiano, gli uni e gli altri regolarmente eletti al Parlamento, ed era ed è la schiatta che dopo Adua gridò alla Camera e nelle piazze Viva Menelik!, che nel '12 sparse gemiti e lacrime di compianto sui poveri beduini dei Gebel, che nel'36 aveva sulle labbra pronto a prorompere il grido Viva Tafari!, che nel '43 ebbe la propria ora solare quando poté scoppiare nel grido Viva Stalin! Viva Churchill! Viva Roosevelt!

E’ la schiatta che non s'innalzò mai al concetto educatore del sacrificio presente accolto per il vantaggio delle generazioni future e che irride al «posto al sole» dei nazionalisti giudicando sufficiente per i nostri lavoratori esuberanti in patria un posto all'ombra nelle miniere del Belgio; la schiatta che ha sempre avversato il superamento del nostro dramma biologico attraverso l'espansionismo esterno invocando contro di esso l'alternativa del cannibalismo interno.
D'altronde, valga il vero: è troppo vantaggioso da noi durante le guerre parteggiare per il nemico, perché molta gente non ceda alla tentazione. Infatti, in caso di sconfitta si diventa la classe di governo; in caso di vittoria non occorre molta abilità a mimetizzarsi all'ultim'ora e si sa in anticipo che nell'euforia del successo nessuno s'indugerà sulla passata condotta di questo o di quello: senza contare che, anche vittoriosa, una guerra lascia strascichi dolorosi, per cui averla sabotata diverrà presto un merito.
Superfluo dire che costoro contrastano in qualunque caso lo sforzo bellico della Nazione per umanitarismo, perché hanno orrore del sangue e al contrario dei barbari nazionalisti sanno che non esiste al mondo bene più grande della pace.
Ora la differenza tra codesti campioni del pacifismo e quanti siamo Italiani non per anagrafe ma per una qualità dell'anima, risiede nel fatto che più di loro noi conosciamo l'atrocità della guerra e avversiamo la violenza in ogni sua espressione, ma anche conosciamo le irrecusabili vie della storia e allorché l'ora lo esige siamo presenti nelle prime schiere e senza odio esercitiamo la violenza esponendoci ad essa, mentre i pacifisti si imboscano quali protestatari ideologici e per motivi di umanitarismo custodiscono la propria incolumità, salvo a diguazzare nel sangue quando la violenza possa esercitarsi sui fratelli inermi.
E anche allora i freni alle ruote del carro italiano, che noi soldati tiravamo con tutte le nostre forze, non erano applicati solo dalla opposizione di Sinistra, che sempre fu e rimane oggi contro la Patria nei fatti se non nelle parole; altri freni più o meno dissimulati si trovavano in altri settori del nostro mondo politico.
Nel 1917 il gen. Cadorna sopprimeva il Corriere del Friuli (quotidiano di Udine il cui direttore era destinato a piú alto seggio) che alle spalle del nostro schieramento era fòmite di un disfattismo d'altra ispirazione. Socialisti e clericali erano nemici irriducibili, i settimanali L'Asino e Il Mulo si combattevano senza esclusione di colpi e in essi gli Italiani potevano apprendere la quintessenza della volgarità; esisteva nondimeno un punto in cui le due parti convergevano. In comune esse bramavano un ruzzolone dell'Italia, nel quale i primi vedevano un successo della loro fazione, i secondi la prova che il Risorgimento era stato una colpa e un errore; e gli uni e gli altri facevano insieme un bel numero.
Tale inimicizia rossa e nera contro il medesimo oggetto aveva infiltrazioni e capillarità negli stessi ranghi delle Forze Armate, e non nei gradi più bassi.
Molti di noi, allora giovani ufficiali subalterni di comune pensiero e spirito, ricordiamo conversazioni casuali con nostri autorevoli superiori, le quali ci lasciavano disorientati e perplessi. Avevamo l'impressione che guardassero dall'alto e da lontano alla nostra manifesta volontà di vincere la guerra, giudicandola pericolosa protervia patriottarda; ci fissavano in un modo curioso come se pensassero che ogni diffidenza era legittima con tipi come noi pronti a dissentire dalla nostra tradizionale e necessaria modestia di popolo che tende quietamente la mano nei crocicchi dei continenti.
Pronunziavano la parola Germania con una specie di mistica venerazione, come se di quel paese sapessero per via riservata un mondo di cose inaccessibili alla nostra giovanile ignoranza e incoscienza. « E’ piú temibile una Germania vinta che una Germania vincitrice » era l'aforisma oscuramente minaccioso non mai omesso in quelle conversazioni, onde la sottaciuta illazione che il vero bene dell'Italia fosse da cercare nella sconfitta.

Antichi equivoci sorgenti da interferenza tra religione e politica non sono stati dissipati neppure dalla Conciliazione e travagliano la Chiesa nel suo stesso seno.

Nel riguardi della Nazione il clero italiano ha due anime opposte; tra i sacerdoti si trovano patrioti ferventi e si trovano odiatori implacabili della Patria.

Avemmo un Padre Reginaldo Giuliani, e nell'aprile del '45 dopo l'esodo dei tedeschi si videro nelle schiere partigiane scendenti in città preti col fazzoletto rosso al collo. In quegli stessi giorni Padre Pio si faceva volontariamente incarcerare per sovvenire con la sua presenza e con la parola della Fede le folle di soldati e di detenuti politici.

Ora abbiamo un Italiano come Don Antonietti, creatore della Casa degli Orfani di Ponteselva, già Cappellano Militare pluridecorato, e abbiamo Don Minisola, parroco di Aidone, che in una intervista concessa all'Unità si dichiara solidale coi comunisti sul terreno pratico e anche sul terreno spirituale. Evidentemente il massacro di ottomila sacerdoti e suore nella Spagna rossa, le condizioni della Chiesa nei paesi di sudditanza sovietica, le cattedrali russe trasformate in «musei antireligiosi» ove il bersaglio preferito di bestiali ingiurie è la persona del Pontefice, queste e altrettali prodezze del comunismo occidentale sono bazzecole per Don Minisola, ed egli non cura di farsi ragguagliare su quello orientale da Monsignor Ferroni, reduce dalla Cina.

Stabilito che codeste aberrazioni non possono toccare la nostra fede di cattolici credenti e praticanti, pensiamo che sia vano sperare una chiarificazione dall'alto: la scomunica inflitta al comunisti non impedisce e non impedirà a taluni ministri del culto di amoreggiare con essi in nome di un miope vacuo umanitarismo, e il clero conserverà le due anime che sono poi le due opposte anime della Nazione e dell'anti-Nazione.

Per il consolidamento della prima è da auspicare che nella grande massa dei cattolici i quali furono e sono in guerra e in pace buoni italiani, s'accresca la schiera di coloro che riesaminano i motivi della loro osservanza politica, che si scrollano di dosso la pigrizia del conformismo e si guardano intorno per scoprire da quale parte e con quali ideali meglio si tutelano a un tempo le ragioni della Fede e della Patria.
Essi riscontreranno nel Partito Nazionale Monarchico devozione profonda verso la Chiesa nella distinzione del sacro dal profano, spirito sinceramente democratico e quindi antidemagogico, amore della libertà come diritto e dovere dei cittadini a esercitare un controllo responsabile sul proprio governo, sollecitudine di giustizia sociale congiunta al culto dei valori tradizionali che ispirarono ai nostri padri la prontezza al sacrificio per il pubblico bene: contrassegni tutti che offrono ai cattolici la sicurezza d'una onesta compagnia.

martedì 29 gennaio 2013

Il Partito Nazionale Monarchico - XIX parte



ARGINE CONTRO LA SOVVERSIONE


Da parte bolscevica il grande e sconcertante avvenimento del 1956 fu il famoso «rapporto » di Kruscev al XX Congresso, con la negazione del culto della personalità, la deplorazione dei metodi staliniani, l'annunzio di un « nuovo corso » della politica russa, l'ammissione delle « vie nazionali al socialismo » e con le altre conseguenze che vanno sotto il nome di destalinizzazione.

Più che legittimo fu allora il sospetto che tutto ciò dovesse interpretarsi come manovra volta ad addormentare l'Occidente nell'illusione distensiva, nella rassicurante visione d'una Russia sinceramente disposta alla coesistenza pacifica, sospetto divenuto certezza da quando Kruscev stesso, con eclettismo non nuovo in campo sovietico, cominciò a far macchina indietro non solo nei fatti, come si vide in Ungheria e nel Medio Oriente, ma anche nella teoria. Egli infatti in un discorso pronunziato al ricevimento di fine d'anno a Mosca e successivamente in altre occasioni riabilitò parzialmente il vecchio dittatore e si dichiarò- fiero di essere staliniano, dimostrando ad abundantiam come la destalinizzazione fosse una manovra tattica legata a determinate contingenze.

In realtà, era evidente che le accuse mosse a Stalin, legittime in una società governata da principii di legalità civile, erano sulla bocca dei suoi successori ciò che di più vacuo e inconsistente si potesse immaginare, sia riguardo alla autodefinizione dell'uomo sia riguardo alla sua azione di governo.

In un paese e in un momento in cui non esistono grandi personalità è facile negare il culto della personalità: è come negare gli alberi d'alto fusto in una landa ove in un dato periodo non crescono che arbusti e cespugli. Non appena in quel paese si riveli una figura politica d'eccezione, il culto della personalità vi si ristabilisce, ed è singolare in proposito il fatto che contro i comunisti nostrani, docili agli ordini destalinizzatori di Mosca, fummo allora proprio noi, uomini di Destra avversari irriducibili del comunismo, a difendere le dimensioni storiche del morto tiranno, dato che anche la tirannide è parte della storia.

E quanto ai metodi, un minimo d'intelligenza (lei fatti bastava e basta a capire che quelli impiegati da Stalin sono inseparabili dalla prassi del bolscevismo; a capire cioè che il comunismo o è staliniano o non e comunismo.

La cosiddetta dittatura del proletariato è dittatura d'un uomo o d'un gruppo d'uomini, e la «direzione collettiva» non cambia l'essenza d'un sistema che non può non essere dispotico, poliziesco, spietato. Il comunismo, radicalmente erroneo nelle sue premesse teoretiche del materialismo marxistico, sul terreno pratico non può sussistere se non con la violenza; è come un corpo umano costretto in una posizione sforzata, il quale viene mantenuto immobile con una ingessatura che lo avvolge tutto quanto: il corpo soffre atrocemente ma non esiste altro mezzo per tenerlo fermo; sostituire il gesso con un bendaggio non serve, perché il corpo riprenderebbe una posizione naturale, e allora tanto vale abolire anche il bendaggio e lasciarlo muoversi naturalmente.

L'ormai defunto «nuovo corso» annunziato da Kruscev al Congresso, ovvero la «destalinizzazione» del comunismo, sarebbe stato la sostituzione dei bendaggio all'ingessatura.

Se democrazia significa legittimità della opposizione politica, pluralità di partiti e principio elettorale sinceramente applicato, il comunismo è costituzionalmente antidemocratico e, pena il suicidio, non può fare alla democrazia la minima concessione. Una caldaia che non sia a tenuta perfetta non funziona piú.

E come in politica cosi in economia tertium non datur.
Se lo Stato assume totalitariamente la gestione della economia, da un lato sterilizza una quantità di potenziali energie economiche e crea l'elefantiasi burocratica, l'inarrestabile spreco, l'indigenza, il lavoro coatto, e dall'altro lato compie le grandi «realizzazioni» che i varii «compagni» additano all'ammirazione dei propri gregari; e profondendo nelle ricerche e negli esperimenti scientifici mezzi illimitati arriva anche a precedere l'America nella creazione e nel lancio delle «lune rosse» ruotanti intorno al nostro pianeta. Anche le Piramidi di Gizeh furono grandi «realizzazioni», rese possibili dall'estenuante fatica di intere generazioni di schiavi. Di diverso vi e che gli schiavi d'allora avevano almeno nei loro patimenti il conforto di una fede trascendentale, mentre agli odierni schiavi anche quel sollievo è stato tolto.

In economia il «nuovo corso» è impossibile senza demolire l'intera costruzione. Ammettere oggi la libertà dei piccoli operatori economici attraverso la piccola proprietà agricola e artigiana, significa ammettere domani i medi e posdomani i grandi operatori economici.

La libertà implica l'agonismo, la selezione, l'evoluzione, e quindi la disparità dei guadagni e delle fortune. La libertà economica, indispensabile fonda mento della libertà civile, determina un relativo benessere generale con l'attivazione di tutte le energie esistenti, ma è incompatibile con le pianificazioni integrali, con l'industrializzazione intensiva e con la mastodontica produzione russa degli armamenti.
Al tempo suo Lenin - che era nella specie umana ciò che sono nella zoologia i grandi felini, cosa che non esclude l'ingegno - attuò la rivoluzione comunistica nel più completo oblio delle leggi economiche e a chi gli diceva ch'egli andava contro la realtà rispondeva: «tanto peggio per la realtà». Nondimeno, quando vide abbattersi sul paese il flagello della fame, si ricredette e non esitò ad accantonare i piani d'industrializzazione per adottare la N E P, la nuova politica economica, che era semplicemente una controrivoluzione economica, in quanto ripristinava la proprietà privata, la libera iniziativa, i liberi mercati.

La Russia respirò e gradualmente la produzione dei beni di consumo prese ad adeguarsi al bisogno. Ma alcuni anni più tardi il successore Stalin vide che, con la NEP, dell'edificio comunista rimaneva solo la facciata e che industrializzazione ed armamenti venivano rimandati alle calende greche, onde abolì la NEP, inasprì la dittatura, introdusse la pianificazione totale e il lavoro schiavista, stroncò con le esecuzioni capitali o la deportazione in Siberia ogni ombra di critica e ogni conato di resistenza, lasciò morir di fame milioni di culaki, ma compì, con la direzione tecnica di ingegneri dell'Occidente, l'industrializzazione ed ebbe gli armamenti.

Il tutto fu sopportato dai russi, atavicamente assuefatti a misere condizioni di vita e per i quali l'onnipotenza dello Stato e l'onnipresenza della polizia è la sola esperienza politica che abbiano fatto. Col suo prestigio personale, con l'antico patriottismo del popolo e con la produzione propria largamente integrata dalle armi gli equipaggiamenti i viveri ricevuti dall'America, egli poté superare la prova della seconda guerra mondiale.

La vittoria gli diede il dominio dei paesi « satelliti». Il comunismo venne per la prima volta introdotto presso popoli abituati a civili condizioni di vita, alla libertà politica, a un relativo benessere economico, e presto anche quanti in quel paesi avevano accolto lietamente la trasformazione si accorsero che l'abolizione del cosiddetto «sfruttamento capitalistico» non aveva portato loro il paradiso bensì l'inferno in terra.

Ma coi governi Quisling, istituiti dal russi e sostenuti dalle loro divisioni corazzate, il tentativo di scrollarsi il giogo dal collo esigeva un coraggio rasentante la follia, quale dimostrarono nell'autunno del '56 gli Ungheresi.

L'infelice esito della guerra, dalla quale soltanto il bolscevismo usci avvantaggiato, diede alla Russia diritto di cittadinanza nell'ONU come a un paese civile tra paesi civili, le conferì un ruolo diplomatico e un posto eminente nei consessi internazionali come se essa e i popoli liberi parlassero un medesimo linguaggio; ma ciò non è se non una finzione imposta dalla necessità, poiché la Russia, se fu uno Stato relativamente civile al tempo degli Zar, non lo è più dopo la rivoluzione d'ottobre, come sa chiunque l'abbia veduta con occhi obbiettivi. Per citare un fatto tra mille, quella che i nostri comunisti chiamano l'universale civiltà di domani avente in Mosca il suo luminoso centro d'irradiazione, è la civiltà che trasforma le cattedrali in musei antireligiosi, ove i maestri accompagnano le scolaresche per preservarle dalla contaminazione religiosa; e questo programmatico ateismo di Stato basta da solo a escludere moralmente quel paese dal consorzio dei popoli civili. Manca tra esso e gli altri quella intrinseca omogeneità spirituale che rende possibile la reciproca comprensione e fecondo il dialogo.

L'episodio ungherese ha dimostrato a tutti ciò che molti utili idioti negavano rabbiosamente quando lo sentivano affermare da noi: l'incapacità del comunismo a conquistare spiritualmente un popolo civile. Costoro hanno toccato con mano che se operai e contadini, i quali dovrebbero esserne i beneficiari, se i giovani che a causa dell'età non conobbero nulla di diverso, lo respingono, la condanna del comunismo è totale.

Ciò non toglie che rispetto al popoli i quali, come l'italiano, non lo hanno sperimentato esso conservi ancora forza suggestiva e capacità di proselitismo. Una propaganda che fa leva sulle più basse passioni umane avidità, invidia, odio contro chi ha maggiori agi - e le ricopre con la maschera della «giustizia distributiva», troverà sempre seguaci in un ambiente sociale che ignora il dopo; e se la Russia in una eventuale prova di forza non può contare sui « satelliti », può però contare sulle sue quinte colonne presso i paesi occidentali. Della «crisi» della quinta colonna italiana bisogna rallegrarsi moderatamente, perché è vero che il P.C. viene abbandonato da alcuni iscritti a cui i fatti d'Ungheria hanno aperto gli occhi, ma queste perdite marginali rendono più compatto il nucleo del partito. D'altronde i transfughi affluiscono presso i cugini, e comunismo e socialismo non sono che due diversi stati febbrili della stessa malattia. L'Italia ha ancora da cominciare a guarire dalla scarlattina rossa, e la bianca anemia governativa non è fatta per risanarla.

Sul piano politico e istituzionale l'unica valida antitesi del comunismo è la Monarchia.

Già nel secolo scorso i teorici del marxismo videro nella soppressione della Monarchia la condizione non sufficiente, ma necessaria, a un successivo avvento del comunismo. La rivoluzione del terzo stato, portatrice del regime repubblicano, era per essi la necessaria introduzione alla rivoluzione del quarto stato, portatrice del regime comunistico; e la repubblica borghese costituiva il ponte di passaggio alla repubblica proletaria.

Giusta intuizione, confermata dall'esperienza storica. Per non giungere su quella riva bisogna restare di qua dal ponte, bisogna restare alla Monarchia, la quale è per assunto la naturale custode dei valori morali e religiosi di un popolo e quindi è organicamente incompatibile con la concezione marxistica che fa della sola economia il destino dell'uomo e considera derivazione o maschera di quella tutto ciò che si chiama vita spirituale.

In questo caso il fatto istituzionale è l'indice d'un clima, d'una mentalità che non ammette usurpazioni della materia sullo spirito.

La Monarchia non disconosce il dato economico ma lo tiene, per usare un'espressione dantesca, «dentro a sua meta»; essa accoglie ogni reale esigenza di giustizia sociale per il fatto stesso che sua mira costante è il bene generale e come una madre guarda con più amore ai figli meno agguerriti contro le difficoltà del vivere; e in quanto libera da ogni spirito di parte e da ogni condizionalità di interessi particolari essa è il supremo centro ordinatore, moderatore ed equilibratore delle forze esistenti in un paese, che tutte convoglia appunto verso il bene generale.

Col principio di una autorità superiore e legittima derivata dall'Alto e riconosciuta dal basso la Monarchia possiede una creatività morale che è sua propria e peculiare, poiché per essa, a differenza degli altri sistemi, la storia non può trovare il suo senso se non nell'etica, e con ragione i comunisti, i quali cercano quel senso' nell'economia, sono i suoi nemici irreducibili.

lunedì 28 gennaio 2013

L'uomo della monarchia


I primi passi nella politica. Poi gli anni Cinquanta. Il Dopoguerra burrascoso della Casa Reale

di Gennaro Malgieri

Ero un ragazzino quando Alfredo Covelli fece irruzione nel mio immaginario politico che stava prendendo forma precocemente.


Assistevo, in compagnia di mio padre, a quelle Tribune politiche che la televisione trasmetteva, ovviamente in bianco e nero, ed una sera si affacciò dal piccolo schermo un signore distinto, dai modi gentili, dall'oratoria pastosa e chiara che con espressioni limpidissime rispondeva a tutte le domande che gli venivano rivolte da giornalisti non sempre altrettanto educati. Qualcuno si faceva beffe della fede monarchica dell'allora segretario del Pdium, apostrofandolo sarcasticamente nel tentativo di metterlo in difficoltà. Ma Covelli accoglieva quasi con soddisfazione le provocazioni perfino volgarotte (niente a che fare comunque con quelle che che oggi ci vengono proposte in tutti i talk show) che avrebbero dovuto imbarazzarlo nelle intenzioni degli interlocutori, rilanciando la palla nel campo avversario con argomentazioni che finivano per smontare gli incauti «provocatori». Mi piaceva quel signore cinquantenne, raffinato nei modi e forbito nell'eloquio, il quale oltre a rivendicare il suo attaccamento alla monarchia sabauda si presentava come un assertore della difesa della legalità democratica sostenendo i valori costituzionali attorno ai quali ricostruire un sentimento patriottico devastato dalla guerra civile. Mio padre, che abitualmente leggeva il Corriere della sera, il Roma, Il Tempo e Il Borghese, più che soddisfare le mie curiosità su quell'uomo politico che mi aveva tanto positivamente impressionato, mi consigliò di cominciare a sfogliare i giornali che portava in casa per saperne di più. Mi diceva, infatti, che a poco o niente sarebbe servito che lui mi parlasse di Covelli se non avessi avuto un minimo di conoscenza della politica nazionale della quale quel signore che mi affascinava era un protagonista di primo piano ed esponente significativo dell' opposizione agli assetti di potere del tempo. Seguii il consiglio e, con l'aiuto di papà, cominciai a decifrare gli arcani della politica italiana, a conoscere quel mondo che poi sarebbe stato mio, a collezionare mentalmente, come le figurine dei calciatori che attaccavo nell'album, i leaders dei partiti e degli esponenti più importanti di quel circolo esclusivo che pure era capace di eccitare gli animi perfino in un paesino come il mio dove la passione politica si dispiegava nei bar, sui marciapiedi, nelle botteghe artigiane. Poi, perlopiù in occasione delle elezioni, arrivavano deputati e senatori e la piazza si affollava, tutti accorrevano, la democrazia viveva tra la gente. Una volta venne anche quel Covelli che mi aveva così colpito. Era di Bonito, in provincia di Avellino; il suo collegio elettorale comprendeva dunque anche il Sannio e Benevento in particolare gli era nel cuore non soltanto perché aveva espresso i primi sindaci monarchico-missini nell'immediato dopoguerra, ma per essere la città dell'onorevole Raffaele De Caro, mitico presidente del Partito liberale italiano, del quale il giovanissimo Covelli era stato collaboratore quando lui era ministro dei Lavori Pubblici. Lo andai a sentire in compagnia di mio padre che, per quanto legato al Movimento Sociale Italiano, lo stimava considerandolo in primo luogo un galantuomo, mettendo in secondo piano la sua pregiudiziale antimonarchica. (...) Devo forse a Covelli, prima che a Giorgio Almirante, la nozione che ha segnato l'avvio del mio noviziato politico, vale a dire il valore della «pacificazione nazionale» fondata sul rispetto delle istituzioni e sulla rivendicazione della storia patria senza mettere nulla tra parentesi. E nelle piazze, nel suo partito,in Parlamento, Covelli non ha mai fatto mancare, anche quando il conflitto si faceva più aspro, il riferimento alla concordia che considerava fondamento dello sviluppo e dell'affermazione della coesione sociale, elemento ineludibile, quindi, per la ricostruzione della trama comunitaria della nazione italiana. In questo senso Covelli ha espresso al meglio una concezione della destra che lui immaginava, fin dalla metà degli Cinquanta, «plurale» ed unita, nel senso che diverse componenti, riconoscendosi in un quadro politico ed istituzionale accettato e condiviso, potessero svolgere una legittima battaglia per costruire un'alternativa al potere centrista che occhieggiava alla sinistra antinazionale. E da uomo di destra, per quanto monarchico, riconosceva nella figura del presidente della Repubblica il riferimento unitario ed ultima istanza di difensore delle istituzioni: «In una assemblea democratica come questa a nessuno può sfuggire la necessità che tutto quello che concerne la vita, la funzione, la condizione del Capo dello Stato (che è il simbolo della Nazione, e perciò al di sopra de partiti) debba essere sottratto al gioco politico e alle manovre dei partiti», disse alla Camera il 27 novembre 1964 nel dibattito sulla procedura seguita per dichiarare l'impedimento del presidente Antonio Segni. Fu uomo delle istituzioni Covelli che rispettò maniacalmente pur avendo votato, insieme con altri sessantuno Costituenti contro la Carta Costituzionale; fu uomo del Parlamento la cui centralità non mancò mai di sostenere e salvaguardare; fu uomo di parte capace di guardare all'interesse nazionale. E fu anche uomo europeo identificandosi, nelle istituzioni internazionali delle quali fece parte, nel processo di integrazione continentale, senza svendere l'identità nazionale. Intervenendo alla Camera sul disegno di legge per l'elezione diretta dei deputati italiani al Parlamento europeo, memore delle sue radici, nel suo ultimo discorso a Montecitorio, il 18 gennaio 1979, Covelli disse: «Non intendiamo frapporre indugi a quello che sarà il primo vero incontro dei popoli europei; un incontro che servirà a far compiere insieme un notevole salto di qualità in virtù del quale, partendo dall'unione doganale, si potranno raggiungere i lidi della piena integrazione politica ed economica, illuminando e rasserenando le coscienze sugli aspetti della evoluzione europeista dei problemi nazionali: evoluzione, si dice con una certa preoccupazione, irreversibile. Certamente non si può più pensare di affrontare e risolvere problemi nazionali senza inquadrarli in una dimensione europea. Questo non significherà annullare le tradizioni nazionali, i valori nazionali, le peculiarità nazionali: significherà soltanto fondere gli apporti dei singoli Stati, amalgamare gli interessi dei singoli Stati, armonizzare nel modo migliore i problemi dei singoli Stati per poter procedere più speditamente alla costruzione dell'Europa, un'Europa dei popoli sintesi della civiltà delle nazioni che la compongono. Un'Europa siffatta, anche se irreversibile, non può, non deve preoccupare nessuno. È l'Europa che noi vogliamo: una Europa che, dissolvendo le residue e pervicaci velleità di egemonia di qualcuno dei suoi membri, possa rappresentare la forza che manca oggi nell'assetto politico del mondo civile». Questo passo mi sembra di estrema attualità, come se Covelli presagisse quel che sarebbe diventata l'unione europea ed avesse voluto esorcizzare i pericoli che rischiano di decomporla. Il tema della sovranità e dell'Europa è sotto i nostri occhi: ci domanderemo a lungo che cosa sarebbe accaduto se europeisti e nazionalisti tanto avveduti avessero avuto la possibilità di guidare e completare il processo di integrazione con la ragionevolezza della politica senza farsi intimidire e condizionare da poteri sovranazionali cui sono state delegate imponenti quote di sovranità fino a ridurre gli Stati nazionali ad appendici di burocrazie senz'anima. (...) Mi sono domandato tante volte in questi anni chi ha memoria di Alfredo Covelli, delle sue battaglie ideali, dei sui coltissimi discorsi politici, della sua oratoria non soltanto parlamentare. Voglio credere che le ragioni che lo spinsero a servire il Paese siano ancora ben presenti ad una minoranza che, nonostante tutto, ha ancora a cuore una certa idea della politica come impegno civile, disinteressato e onesto. La figura di Covelli, rimasta comunque in bianco e nero nella mia mente, giganteggia tra i protagonisti di un passato neppure tanto lontano che dovremmo riscoprire proprio mentre le nuvole si addensano minacciose sulla malandata Repubblica.
http://www.iltempo.it/2013/01/28/1388742-uomo_della_monarchia.shtml

sabato 26 gennaio 2013

Il partito Nazionale Monarchico - XVIII parte


PATRIOTTISMO SOCIALITÀ MONARCHIA


Religio depopulata si può chiamare oggi in Italia il patriottismo, e ne è prova, tra mille altre, una formula entrata da qualche anno nel linguaggio politico: «patriottismo di partito», che è una contraddizione nel termini, poiché l'attaccamento alla parte non può essere devozione al tutto. Come contenuto logico dire patriottismo di partito è come dire luminosità delle tenebre o trasparenza della nebbia, e la stessa nascita di questa espressione dimostra che il senso del primo termine è in molte coscienze obliterato a vantaggio del secondo. Finché avemmo la Monarchia nessuno si sarebbe sognato di mettere in circolazione una tale insensatezza, perché la stessa esistenza della Persona che era insieme Capo dello Stato e rappresentante della Nazione impediva di confondere la parte col tutto.

Un'altra prova di codesto oblio è la presenza del Presidente della Repubblica, a Parma, alla inaugurazione del monumento al partigiano o uomo di parte, e la sua assenza, a Bergamo, alla inaugurazione del monumento ad Antonio Locatelli, che uomo di parte non fu ma dell'Italia tutta.

Superfluo sarebbe insistere in siffatta casistica e basta ricordare che il piú rilevante uomo politico del dopoguerra dileggiò in un suo discorso le « povere anime patriottiche », per riconoscere fino a qual punto si sia voluto avvilire e vanificare quello che, dopo il senso del divino, è il piú giusto nobile e necessario fra i sentimenti umani.

Si possono rigirare come si voglia quelle parole ma non si può estirparne un'intenzione di spregio, come verso alcunché di vacuo e ventoso, che dalle persone si estende all'oggetto della loro fede.

Lo stesso uomo politico chiamò « monarchisti » i monarchici, i quali a causa della loro fedeltà all'Italia e all'Istituto che la elevò a Nazione sono da comprendere nel numero delle « povere anime patriottiche ». Aberrazioni di un mondo politico avventizio, dal momento che nulla è piú certo e concreto dell'idea di patria, questa unità costante nel tempo e nello spazio da cui procede ogni nostra vita individuale.

Nulla di gratuito e d'illusorio vi è nel sentimento patrio; esso non è il chiodo fisso di alcuni esaltati e l'antifona di alcuni logòmani, è al contrario per l'individuo il presupposto d'una piú alta vita morale, il superamento dell'empirico e miope particolarismo personale o gregario, ed è per i popoli elemento di civiltà e di progresso.

In effetti patriottismo è in un popolo coscienza della propria identità storica, della provenienza e del destino comuni, quindi senso della continuità, culto del passato e impegno del presente verso il futuro, e coesione nazionale e concordia sociale , e nozione degli interessi generali e costanti, ideali e pratici, interni ed esterni del paese.

Patriottismo è portare l'accento su ciò che unisce tutti gli uomini d'una medesima terra e non su ciò che li divide in un atomismo amorfo o li aggruppa in schiere contrastanti, è distinguere il perenne dal transeunte, l'essenziale dal secondario, l'universale dal singolare, è sentire in comune i problemi comuni, realizzare in sé, una migliore condizione per tutti che non può conseguirsi se non attraverso l'armonico sforzo di ciascuno, sapere che la storia, come le isole madreporiche, è fatta di infinitesimi e che le nostre opere e i nostri atti non sono mai esclusivamente privati, ma tutti si riflettono positivamente o negativamente sulla vita del tutto.

Patriottismo è senso di dignità e di responsabilità civile, e fortissimo esso fu presso i popoli che esercitarono un ruolo determinante nel divenire umano.

Vivo fu sempre nei grandi Italiani l'amor di patria, in tutti i nostri grandi, a cominciare dal maggiore di tutti, Dante. Nessuno prima di lui e pochi dopo di lui ebbero altrettanto vigoroso il senso della unità fisica e morale dell'Italia. Dante senti « la carità del natio loco ». In difesa della nostra lingua egli lanciò nel Convivio un'aspra rampogna contro « li malvagi uomini d'Italia che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano », l'esteromania e l'autodenigrazione essendo nostri antichi malanni, e tra i motivi ispiratori di quei « malvagi » pose « la viltà d'animo cioè pusillanimità ».

Non occorre ricordare l'invocazione di Petrarca allo « Spirto gentil » e l'invettiva di Machiavelli contro il « barbaro dominio » degli stranieri bivaccanti sul nostro suolo. Non occorre ricordare Galileo che nell'introduzione ai Dialoghi volle si sapesse, per il presente e per il futuro, che « se altre nazioni hanno navigato di piú, noi non abbiamo speculato di meno ».

« L'ossa fremono amor di patria » dice il Foscolo evocando il sepolcro di Alfieri in Santa Croce, e balzano alla mente Leopardi dell'Ode all'Italia, Carducci dellInno a Roma, Pascoli della Grande Proletaria, D'Annunzio del Canto augurale per la Nazione eletta, della guerra, di Fiume.

L'ultimo nostro grande scrittore, Papini, nella prefazione a un suo recente libro richiamò « il fortissimo e caldissimo amore che sempre ebbi per la mia terra, per la mia patria ».

Oggi l'Italia non ha più né un grande prosatore ne un grande poeta né un grande artista; e neppure un pensatore, un musicista, uno scienziato, un politico veramente grandi. Ha qua e là uomini di talento ma non ha uomini sommi quali ebbe sino a ieri. Il nostro decadimento che ha una manifestazione nell'assenzadi patriottismo, ha un'altra manifestazione nell'assenza di spiriti eccelsi. L'Italia si è appiattita.

Oggi un capo di Stato straniero dichiara tranquillamente che a suo avviso la piú rilevante personalità italiana è Lollobrigida, e in effetti le colonne del nostro prestigio nazionale sono le Gine e le Sofie, le cui adescanti immagini riempiono i giornali illustrati.

Il patriottismo è uno di quei sentimenti che è difficilissimo contenere nei limiti di una equilibrata chiaroveggenza. Quasi sempre esso pecca per eccesso fuorviando nell'orgoglio o per difetto. annullandosi nell'indifferenza, e se non possono negarsi i mali derivanti dal primo errore, l'esperienza indica come più gravi quelli generati dal secondo.

Esclusa la disinteressata trascendenza della patria, non rimane posto negli animi se non per l'interessata immanenza dell'utile, inteso nella sua accezione piú immediata e sensibile: hic et nunc, qui e subito.

Dove il patriottismo langue e si spegne, gli egoismi individuali e di gruppo tengono incontrastati il campo, e ultima filosofia superstite rimane l'edonismo, fomite di contrasti sempre rinnovantisi e non mai risolti poiché manca una s uperiore ragione in cui le parti avverse possano consentire.

Non meno gravi dei mali interni sono i mali che la deficienza di patriottismo attira su un popolo nei riguardi dell'estero. Prima conseguenza è la disistima degli stranieri, disistima verso il paese nel suo complesso e verso i singoli, della quale fanno esperienza i nostri connazionali viventi all'estero.

In molteplici modi il danno di una tale condizione ricade su tutti e su ciascuno.

Se il senso patrio fosse fra noi più vivo, i nostri pescherecci dell'Adriatico non sarebbero oggetto di pirateria. 1 dirimpettai non ignorerebbero, alle spalle dei singoli italiani, l'esistenza di una Nazione, e sarebbero piú cauti; ma dal momento che l'Italia è un

corpo disossato, le loro acque territoriali giungono sino alle nostre spiagge. In passato noi non pagavamo ad alcuno pedaggi di pesca e nessuno catturava barche italiane; e non era necessario alzare la voce, né minacciare, né compiere manifestazioni di forza. Vero è che allora il governo di Roma non finanziava istituti di « cultura slovena » a Trieste. 1 nostri pescatori dell'Adriatico hanno capito la differenza che passa quando la Nazione è una realtà e quando viene considerata un vano nome. Alcuni di essi, perduta ogni speranza, si sono trasferiti coi propri arnesi sulle coste tírreniche e potranno esercitare l'industria loro sino al giorno in cui la gente della quarta sponda non considererà l'antico Mare Nostrum come propria riserva di pesca, cosa che accadrà ineluttabilmente se l'Italia resterà floscia come una medusa marina.

Le provvidenze prese dal governo a vantaggio dei pescatori trasferitisi equivalgono d'altronde a un tacito avvertimento dato agli altri, ostinati a restare sull'Adriatico, quasi a prevenirli che ciò essi fanno a proprio rischio e pericolo e che nessuna protezione verrà loro accordata. Con tali misure praticamente Roma riconosce che l'Adriatico è un lago jugoslavo, e una attività già fiorente e sempre praticata senza contrasti quando sulla opposta riva si trovava l'Austria è destinata a estinguersi.

Se il patriottismo fosse da noi piú sentito il gruppo allogeno altoatesino non giungerebbe all'insolenza di voler soppressa l'immigrazione in Alto Adige da altre nostre regioni e di voler proibiti i matrimoni misti, come.dicono. E non sarebbe necessaria alcuna forma di repressione perché gli altoatesini di lingua tedesca starebbero quieti apprezzando i benefici derivanti loro dall'essere italiani.

Contrariamente all'opinione della stoltizia apolide, il patriottismo non è causa di attriti e incentivo di guerre, e piuttosto fattore di concordia e garanzia dipace, perché concorre a conferire a tutti la sicurezza del diritto. Il patriottismo è il punto di convergenza delle piú alte virtú civili, è senso della misura, nozione dell'equilibrio tra l'universale e il particolare, volonterosa articolazione di ciascuno nel complesso collettivo, spirito di collaborazione, prontezza a sopportare la propria parte di pesi, coscienza che il mondo non comincia e non finisce con la nostra persona.

Noi manchiamo di patriottismo perché manchiamo di queste virtú e siamo anzi impastati d'egoismo e d'invidia, con gli occhi sempre fissi sul piatto del vicino, pronti a strillare all'« ingiustizia », a rivendicare i nostri « diritti », con la mente piena soltanto di cifre e l'animo di brame.

Cecità nell'ordine morale e nell'ordine pratico, come sempre cieco è l'egoismo, perché ogni colpa morale non può non tradursi ultimamente anche in danno pratico. La categoria della mera utilità è una nave con bussola falsificata, destinata al naufragio. Chi persegue soltanto l'utile presente non lo consegue, quando lo consegue, se non scontandolo con un danno futuro: e il pan-economismo in cui viviamo, dopo aver fatto tabula rasa d'ogni ragione ideale avrà la sua rovinosa palingenesi sul terreno stesso dell'economia.

Per le generazioni che ci precedettero il patriottismo aveva soprattutto come campo d'applicazione la politica estera, le cure della posizione occupata dal proprio paese in una agonistica realtà internazionale; per la nostra generazione esso, conservando quel contenuto, non può disinteressarsi della politica interna e deve compenetrarsi di socialità. L'istituto atto per eccellenza ad assolvere la funzione mediatrice tra patriottismo e socialità è la Monarchia.

L'idea essenziale del secolo passato fu la libertà politica, e ad essa si aggiunge nel nostro secolo l'idea della socialità, il pubblico interessamento alle condizioni dei meno dotati di qualità personali, e quindi

il riconoscimento del diritto e del dovere al lavoro, onde ognuno consegua la libertà dal bisogno, partecipi alla vita del consorzio civile, e nessuno rimanga privo di mezzi, di assistenza, di simpatia umana.

Il problema è di conciliare il diritto al lavoro retribuito con la proprietà privata e la libera iniziativa economica, poiché lo Stato il quale attraverso la soppressione della proprietà assume totalitariamente il governo dell'economia non può che generalizzare l'indigenza nella servitú. La terapia comunista equivale a guarire la malattia ammazzando il paziente: dov'è questione di morte civile se non fisica.

La giustizia sociale non deve intendersi come egualitarismo, che sarebbe insieme ingiusto e innaturale, ma come armonizzazione dei distinti in una sintesi superiore, e la formula integratrice di libertà e giustizia sociale sarà veramente il partus masculus aetatis nostrae, come Francesco Bacone chiamò il suo nuovo metodo di ricerca scientifica.

Mentre l'Oriente bolscevico ha abbracciato l'illusoria soluzione del materialismo storico, l'Occidente è da alcuni decenni impegnato nella ricerca di codesta integrazione che sia valida in campo pratico e in campo spirituale, dato che la pace degli spiriti non e meno importante del tanto idoleggiato « benessere » materiale. La forma monarchica dello Stato, appunto perché trascendente il principio elettorale e posta all'infuori di classi e partiti, è costituzionalmente avversa a ogni sorta di privilegi e interessata al progresso sociale nella concordia civile. La sovranità non è un privilegio ma un servizio reso alla Nazione come suprema garanzia di legalità e di giustizia, e la legalità comprende la libertà come la giustizia comprende la socialità.

Ciò che la Monarchia respinge sono le involuzioni demagogiche che danno frutti di cenere e tosco per coloro stessi che si pretende di sovvenire; e invero ai suoi occhi l'indigenza e le sofferenze di alcuni strati

della collettività sono mali da sanare e non, come sovente accade agli occhi dei partiti politici, motivi di calcoli elettorali.

Soltanto un'astiosa polemica ha potuto oscurare la verità che ufficio del Re è di servire la Nazione, ossia il popolo nella sua continuità storica, di servire tutti e ciascuno in una relazione che è rapporto di diritto ed è vincolo personale.

Gli stessi fasti e magnificenze di cui la Monarchia si circonda, facile bersaglio del rancore giacobino, sono un aspetto marginale di codesto servizio, trattandosi di spettacoli tonificanti per le moltitudini ma non certo comodi per chi li vive, spettacoli che d'altronde la repubblica si affretta a copiare avvertendone la necessità.

Nel tempo nostro la vocazione sociale della Monarchia è l'ultima espressione della ricettività ch'essa ebbe in ogni tempo nei riguardi dei contenuti storici che incontrò sul suo cammino. La Monarchia in effetti fu feudale quando l'ordinamento territoriale dell'Europa era in feudi; fu assoluta dando vita allo Stato patrimoniale quando sull'atomismo dei Comuni era necessario creare l'unità politica e amministrativa statale; nell'Ottocento essa accolse col costituziona. lismo l'idea del secolo, che era la libertà: nel Novecento la socialità è la. nuova idea ch'essa è chiamata ad assumere facendo salvo il contenuto precedente.

La Monarchia può essere rivoluzionaria senza sovvertimenti e conservatrice senza reazioni, nella sua funzione mediatrice delle età e conciliatrice degli interessi essa è tradizionale in quanto custode dei valori consacrati dai secoli e ancora vitali, e innovatrice in quanto aperta a ogni esigenza di vero progresso.

La forma repubblicana dello Stato, sfornita com'è di esperienza storica e d'intimo equilibrio e legata com'è alle fluttuazioni delle parti, non possiede altrettali titoli e garanzie ad assolvere il ruolo imposto dall'ora al tempo.

mercoledì 23 gennaio 2013

UN’ALTRA ITALIA È POSSIBILE?



Pasqua è ancor lontana, eppure questi sono già giorni di “Passione” per la nostra seconda Repubblica: partita di slancio, vent’anni or sono, col suo carico di promesse (una nuova etica pubblica, un rinnovamento della classe politica, riforme strutturali…), è rimasta praticamente ferma ai nastri di partenza.
Miracolosamente recitano ancora sul palco del teatrino politico italiano personaggi “evergreen”, quali Berlusconi, Fini, Casini, Bersani: se un paziente, caduto in coma nel ’94, si risvegliasse solo oggi, sarebbe assai difficile convincerlo che sono trascorsi invano diciotto anni!
La seconda Repubblica ha offerto solo il peggio di sé. Eppure rimpiangere la prima, come in voga tra i nostalgici, è un’operazione “ai limiti dell’irragionevolezza”: come dimenticare che la prima Repubblica è miseramente crollata travolta da un’ondata di corruzione e monetine? E come nascondere che quel fardello -chiamato debito pubblico- che gli italiani si caricano sulle spalle è stato riempito dalla politica clientelare ed affarista di quei favolosi anni ‘80?!

Nell’anno trascorso, il Capo dello Stato, affidando ad un tecnico il compito di traghettare l’Italia tra le onde burrascose della speculazione finanziaria, ha agito da “curatore fallimentare” della seconda Repubblica, non più fidandosi dei vari “Schettino” della politica nostrana. Ma dove dirigere, adesso, la nave Italia?
Tornare indietro non è più possibile, così come proseguire sulla rotta tracciata dal bipolarismo malato di questi anni. Occorre guardare avanti e far rotta verso una terza Repubblica, completando finalmente quella traversata perigliosa iniziata nel ’94.
In che modo? Seguendo tre direttrici:
◆ in primis, una riforma strutturale dell’assetto istituzionale del Paese (attuando un vero federalismo, abolendo le Province, riparando i guasti di un’affrettata riforma del Titolo V della Costituzione ed introducendo l’elezione diretta del Capo dello Stato);
◆ in secundis, un rinnovamento radicale della classe politica italiana (introducendo il limite di due mandati per ogni carica elettiva ed imponendo ai partiti per legge le primarie);
◆ in tertiis, il ripristino sostanziale di una “democrazia rappresentativa” (restituendo ai cittadini -ancora detentori della sovranità- la facoltà d’incidere sulle scelte della politica, abolendo il Porcellum, rivitalizzando l’istituto referendario con l’abolizione del quorum ed introducendo i referendum propositivi).
Via maestra per conseguire un traguardo così ambizioso sarebbe l’elezione di una nuova Costituente. Sarà mai il nostro Paese pronto ad una simile “prova di maturità”?


UN’ALTRA POLITICA è POSSIBILE?

Il Natale ha portato in dono agli italiani una campagna elettorale: non certo il regalo più ambito (c’è da scommettere che i più avrebbero preferito un meteorite su Montecitorio!). A cinquanta giorni dal voto, il quadro politico appare ancora confuso, indecifrabile: citando indegnamente Zarathustra, da questo “caos” non verrà certo fuori una “stella danzante”, per lo più un’Italia decadente!

Il centrosinistra, ancora una volta, ha cambiato contenitore pur di non cambiar contenuto: dopo i Progressisti, l’Ulivo e l’Unione, è arrivato il turno dell’“Italia Bene Comune”.
Questa coalizione parte favorita ai nastri di partenza, ma la probabile vittoria del Pd non dovrebbe entusiasmare più di tanto un partito che si conferma incapace da un lato di andar oltre quel 30% del suo massimo consenso storico (nonostante il “vuoto politico” lasciato dagli avversari), dall’altro di sciogliere il nodo della propria identità politica (fra i democratici, c’è persino chi si vergogna d’apparire Keynesiano!).
La vittoria del centrosinistra, inoltre, rischia di rivelarsi una “vittoria di Pirro” nel caso in cui non disponesse di una maggioranza assoluta al Senato. In quest’ipotesi, l’unico errore da non commettere sarebbe “porgere l’altra guancia” a Casini, offrendogli un’alleanze di legislatura. La via maestra, piuttosto, sarebbe battezzare un “governo di transizione” con un mandato di scopo: consentire al Parlamento di varare una nuova legge elettorale, con la quale ripresentarsi alle urne entro l’estate 2013.

Nel centrodestra Berlusconi sembra muoversi a ritmo di valzer, alternando passi “avanti” (l’annuncio della sua sesta ridiscesa in campo), poi “indietro” (la disponibilità a cedere il passo prima a Monti, poi ad un altro premier gradito alla Lega), poi ancora “laterali” (l’indicazione del fido Angelino alla successione).
Che il Cavaliere sia tornato dalle vacanze Keniote con idee più confuse che mai lo dimostrano le sue mosse: prima l’avallo delle primarie (con tanto di candidature e raccolta firme), poi la loro cancellazione; prima la sfiducia a Mario Monti, poi l’indicazione dello stesso come federatore dei moderati (in una colazione inclusiva della Lega e con al primo punto del programma l’abolizione dell’Imu!).
A tal punto, o il centrodestra avrà il coraggio di compiere il “regicidio” oppure rischia di lasciarsi trascinare inesorabilmente a fondo dal suo stesso fondatore!

La Lega, schiacciata dalla vergogna di dover giustificare i diamanti di Belsito, gli investimenti in Tanzania del partito e le “miracolose” lauree albanesi del Trota, ha oggi una sola priorità: non più entrare a Palazzo Chigi, quanto superare la fatidica soglia di sbarramento al Parlamento. Probabilmente Maroni e Tosi, i “barbari sognanti” del nord-est, riusciranno nell’impresa di rianimare un movimento indipendentista e legalitario scopertosi centralista e ladrone. Il dubbio è se il tempo sia oramai troppo stretto da qui alle prossime elezioni…

Il centro “naviga a vista”, sperando solo in capitan Monti, finalmente decisosi a prendere in mano il timone dei moderati. Anche se la nave del Pdl sembra guidata da capitan Schettino e quella del Pd non mostra segnali di ostilità, in acqua vi sono altre presenze ingombrati: i pirati grillini ed i rivoluzionari di Ingroia. Se non si ricostituisse l’asse Pdl-Lega, al Pd si aprirebbe lo spiraglio giusto per vincere anche in Lombardia e Piemonte, con tanto di “adieu” alle ambizioni centriste di porsi come ago della bilancia in un futuro Parlamento balcanizzato! Per la prima volta, così, Casini rischierebbe d’aver fatto i conti senza l’oste: il grande centro potrebbe rivelarsi solo un grande fiasco!

A Sinistra del centrosinistra si è affacciata una nuova formazione politica: “Rivoluzione Civile”, la lista guidata da Ingroia, sostenuta dai sindaci De Magistris ed Orlando. Le chance di successo (ovvero di superare la soglia di sbarramento) di questo nuovo soggetto politico dipenderanno da un solo fattore: la capacità di aprirsi alla società civile ed imporre ai partiti che lo sostengono (Idv, Prci, Pdci e Verdi) un profondo rinnovamento.
I primi segnali sono incoraggianti (i partiti hanno rinunciato al loro simbolo ed i loro segretari al ruolo di capolista). Vedremo se alle belle parole seguiranno fatti concreti: se si tratterà di tracciare un nuovo percorso per una Sinistra finalmente progressista e di governo oppure di un cartello elettorale: l’ennesimo “maquillage politico”!
Che dire? Se son rose… saran rosse!

In questo marasma, l’unica certezza è l’ingresso di una folta schiera di “grillini” nel prossimo Parlamento. Il Movimento Cinque Stelle è sbalorditivamente cresciuto puntando tutto sulla protesta: sullo smascheramento dell’ipocrisia di chi siede in Parlamento e sulla denuncia degli odiosi privilegi di un’intera classe politica. Ma le famose “Cinque Stelle” (acqua pubblica, mobilità sostenibile, sviluppo, connettività ed ambiente) non saranno certo sufficienti per una proposta seria di governo del Paese.
Tanti gli interrogativi irrisolti:
◆ quali posizioni assumerà il Movimento sulle più disparate questioni di politica nazionale fin ora non discusse? Chi detterà la linea? Grillo o qualche organismo collegiale rappresentativo della base?
◆ Il ruolo dei parlamentari grillini sarà quello di meri “portavoce” del Capo, il cui massimo grado d’autonomia sarà apporre un “Mi piace” ai suo post? Quale ruolo si ritaglierà Grillo? Quello di “padre nobile” del Movimento o di “padre padrone” dell’ennesimo partito personale?
A molte di queste domande credo nemmeno Grillo possa ancora dar risposta…


UN ALTRO MONTI (BIS)? NON E’ POSSIBILE!

In qualsiasi democrazia, chiunque miri alla più alta carica di governo può percorrere una sola strada: candidarsi alle elezioni ed ottenere “un voto in più” del proprio avversario. Non è concepibile, dopo la breve parentesi del governo tecnico, immaginare “un’altra eccezione” a questa basilare regola democratica! Mario Monti ha tutto il diritto di ambire alla premiership, ad una condizione: dimostrare di disporre di un’ampia legittimazione popolare. Fino a prova contraria, difatti, la sovranità appartiene ancora al popolo!

Senza voler apparire “portatore di sventura”, per una volta l’Economista della Bocconi potrebbe aver fatto male i conti: la sua scelta di “salire in politica” potrebbe rivelarsi un inaspettato boomerang!
Fino a pochi giorni fa, Mario Monti si presentava al Paese come un “deus ex machina”: un salvatore della Patria, capace di far uscire l’Italia da una situazione apparentemente senza più via d’uscita. Di contro, l’unica via d’uscita dalla sua esperienza di governo portava dritto al Quirinale (in qualità di successore di Napolitano) o di nuovo a Palazzo Chigi (in qualità di premier “super partes” indicato dai partiti) o in Europa (magari in veste di successore del presidente Barroso).
Una volta che il Professore si è tirato in mezzo all’agone politico, il quadro è profondamente cambiato: alle prossime elezioni, la coalizione Monti rischia di porsi come terzo, forse quarto polo del Paese (dato Bersani per favorito, Berlusconi e Grillo hanno le carte in regola per ambire a prendere un voto in più di Fini e Casini!).
A tal punto, a che titolo Mario Monti potrebbe contendere il posto a Bersani, ragionevolmente leader del primo partito d’Italia, per di più legittimato dalle primarie?
Se “è tanto più facile ricambiare un’offesa che un beneficio” (P.C.Tacito), perché mai il Cavaliere, dopo aver ricevuto il gran rifiuto dal Senatore, dovrebbe appoggiare una sua corsa al Quirinale? Se “non c’è vendetta più bella di quella che gli altri infliggono al tuo nemico” (C. Pavese), perché mai Berlusconi, dopo esser stato ridicolizzato dall’ironia british del Professore, non dovrebbe preferire al suo posto persino la Finocchiaro al Colle?


UN ALTRO PAESE, P SEMPLICEMENTE “NORMALE”, è POSSIBILE?

Nel 2008, in piena campagna elettorale, Walter Veltroni pronunciò queste parole: “L’Italia è un Paese migliore della destra che lo governa”. In tutta onestà, come credere al mito degli “Italiani brava gente” o alla favola per cui il Paese reale sia fatto di tutt’altra pasta rispetto a chi lo governa?
Se gente come Raffaele Lombardo, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti ed i vari Scilipoti di turno e De Gregorio d’Italia hanno assunto ruoli di responsabilità pubblica è perché non pochi italiani hanno riposto in loro la loro fiducia!
Si dirà che il Porcellum ha estromesso gli elettori della facoltà di scelta dei candidati. Ma nel Lazio, dove alle elezioni regionali sono previste le preferenze, Fiorito -meglio noto come “er Batman”- non è forse risultato il consigliere più votato?
Alle parlamentarie del Pd gli elettori non hanno forse candidato a furor di popolo anche personaggi condannati o indagati, quali Genovese, Crisafulli e Papania in Sicilia?
L’ex assessore regionale Zambetti pare aver “comprato” 4.000 preferenze dalla ‘ndrangheta per assicurarsi l’ingresso al Pirellone. Ma, dietro ad ogni voto comprato, non vi è forse un elettore “venduto”?
Totò Cuffaro, all’epoca già condannato in primo grado per favoreggiamento mafioso, è stato candidato dall’Udc al Senato. Gli elettori siciliani non l’hanno forse premiato con un consenso plebiscitario? Qualcuno ha interpretato la massiccia astensione dell’elettorato siciliano alle ultime regionali come la prova del disgusto nei confronti di un certo modo di fare politica. Ma non è più probabile che molti, essendo consapevoli di non poter più ottenere “nulla in cambio” dalla politica di questi tempi, abbiano preferito risparmiare il proprio voto, aspettando “nuovi acquirenti”?!
Il “vaccino del berlusconismo” -per citare Montanelli- è stato iniettato ripetutamente agli italiani, pur producendo pesanti “effetti collaterali” (colossali conflitti d’interessi, ripetute leggi “ad personam” -dal decreto “salva ladri” del ’94 alla legge sul legittimo impedimento del 2010-, soppressione delle voci dell’informazione sgradite al potere -ricordate l’editto bulgaro?-, cancellazione della facoltà degli elettori di scegliere i parlamentari -si veda il “Porcellum”-, abuso del ricorso alla fiducia ed alla decretazione d’urgenza…). Eppure gli elettori non hanno forse atteso la “sesta” ridiscesa in campo del Cavaliere prima di iniziare a provare qualche “intimo prurito”?!
Come poter credere, allora, che gli italiani siano davvero migliori della “Casta” che li governa?

Gaspare Sera
Blog “Panta Rei