BENEDETTO CROCE E LA MONARCHIA
Anche gli orecchianti sanno che le opere filosofiche di
Croce, poste all'indice dalla Chiesa perché negatrici della trascendenza,
affermano un immanentismo idealistico: « Non esiste il vero, ma il pensiero che
pensa; non esiste il bene, ma la volontà morale; non il bello, ma l'attività
poetica e artistica, non lo Stato, ma le azioni politiche » (Elementi di
politica); e, seguitando, non esiste il Dio nelle religioni positive, bensì,
negli uomini e nei loro atti, lo Spirito, cioè l'universale umano presente in
ognuno unitamente alle stigmate dell'individuo empirico.
Solo una filosofia dello Spirito rende possibile di
comprendere l'eracliteo flusso del divenire, il mondo in movimento, la Storia,
intendendo questa parola in un significato più ampio di quello tradizionalmente
attribuitole.
La Storia è il teatro d'un perpetuo processo di scomposizione
e di ricomposizione, di parti che si squilibrano e di parti che si
riequilibrano come risultato delle molteplici azioni umane, le quali nelle loro
più alte espressioni hanno un valore oggettivo e sono volte all'universale.
Crocianamente, poiché la vita dello Spirito è la libertà, la
Storia è storia della libertà, e durante il Ventennio a chi un po'
grossolanamente gli domandava se saremmo usciti dalla dittatura, il filosofo rispondeva,
su un piano diverso: «la libertà ha per "è più che l'avvenire, ha per sé
l'eterno », dove non si può non annotare che la libertà morale, indispensabile
alla vita della coscienza, è altra cosa dalla libertà elemento di un'insegna politica,
il quale suole congiungersi e contaminarsi con altri elementi, e sorge in
funzione di determinate circostanze di tempo e di luogo. Un esempio: Mussolini
disse un giorno che un governo il quale non vuole cadere, non cade, e il chiaro
sottinteso delle sue parole era la forza, come si addice a un capo illiberale;
l'on. De Gasperi non faceva appello alla forza, ma in una vigilia elettorale
dichiarò che a un dato momento i voti non si contano soltanto, ma si pesano,
sentenza che contraddicendo all'aritmetica democratica rivela qualche analogia
col perentorio motto mussoliniano. .
Accogliendo peraltro come valido il principio
d'interpretazione della storia adottato dal Croce e da lui posto a fondamento
della sua resistenza al fascismo con l'assumere in concreto la difesa delle
libertà politiche apertamente e ingenuamente negate dal regime, resta che il
liberalismo crociano era legato all'istanza d'un costume civile di serietà e di
saggezza inesistente oggi come allora; e resta che oggi i tardivi apologeti del
grande filosofo intenzionalmente ignorano molti punti del suo pensiero, come la
sua opposizione all'astrattismo utopistico del cosiddetto « spirito democratico
», il suo concetto della politica come potenza, la sua diffidenza verso il
parlamentarismo, la sua negazione dei miti internazionalistici; e dimenticano
il suo aforisma secondo cui « al governanti bisogna sempre parlare di libertà,
al popolo bisogna sempre parlare di autorità ».
Chi frequentò l'uomo e ha confidenza con le sue opere,
specialmente quelle che per l'assunto o per il tempo in cui vennero composte
sono immuni da occasioni polemiche, sa ch'egli viveva nell'aura della Destra
storica, congeniale agli esemplari uomini che sapevano darsi una disciplina
religiosa, nel "clima" d'una civiltà morale che non in modo esclusivo
il fascismo, bensì la temperie degli ultimi decenni in tutti i paesi ha
respinto verso il passato.
Sollecito della libertà egli si adoprò a separare dal
liberismo economico il liberalismo politico, per salvare almeno questo dal
rullo compressore del collettivismo; sennonché l'esperienza storica mostra che
liberalismo e liberismo insieme nascono e muoiono insieme, e non si vede quali
pubbliche e private libertà potrebbero sopravvivere quando tutte le attività
della produzione, della circolazione e della distribuzione fossero regolate da
una centrale unica.
Sul terreno politico occorre d'altronde considerare che
talora un popolo è posto nella necessità di scegliere non tra un bene e un
male, bensì tra due mali il minore; e la deprecabile alternativa dinanzi a cui
noi potremmo trovarci domani, tra un autoritarismo nazionale e umano e un
autoritarismo forestiero e inumano, getterebbe una luce diversa sul nostro
recente passato.
Nessuno conobbe il valore della tradizione come Croce, il
quale affermava che la barbarie è rottura di' tradizioni'. e questo vigoroso
sentimento del passato aveva parte nelle sue convinzioni monarchiche.
Nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, che è il libro suo più
felice e divulgato e dove pieno riconoscimento è reso alla Dinastia sabauda
come fattore risolutivo del Risorgimento e come forza coesiva del paese nel
decenni successivi, nominando gli uomini della Destra caduta nel '76, egli
scrive: « Avevano essi voluto un'Italia che s'inserisse sul tronco di un
passato ancora robusto e verde, epperò erano stati propugnatori della Monarchia
dei Savoia; e i loro successori, e anche di essi gli antichi repubblicani e i
recenti convertiti, lasciarono cadere le vecchie idee di sovranità popolare e
di costituente, e si dichiararono e dimostrarono col fatto fedeli e devoti alla
Monarchia ».
Nell'imminenza del referendum istituzionale, il 22 maggio
1946, egli diramò alla stampa il seguente comunicato: « Leggo in più d'un
giornale che il senatore Croce è un monarchico truccato da agnostico.
Quantunque trucco e agnosticismo siano due parole non del mio vocabolario, sono
costretto ora ad adottarle per dichiarare anzitutto che nel mio comportamento
non c'è trucco di alcuna sorta. Tutti sanno che io sempre affermai il mio
convincimento che all'Italia giovasse mantenere la figura del Monarca come
simbolo di unità nazionale e di stabilità statale ».
Ai molti antifascisti e repubblicani dell'ultima ora,
affannatisi in occasione della sua scomparsa a tessere l'elogio del pensatore
da essi lungamente ignorato se non vituperato, noi monarchici di sempre
sottoponiamo queste parole di Croce, anche se non ne condividiamo interamente
il pensiero e anche se avevamo sperato da lui in quel momento una condotta pia
attiva.
Unità nazionale e stabilità statale. Auguriamoci che i fatti
non mettano alla prova l'una e l'altra mentre manchiamo dell'Istituto e della
Persona che per noi sono molto pia che simboli. Il processo di vanificazione
della Monarchia sino a ridurla a nudo emblema è uno degli errori che hanno
condotto la società alla presente inestricabile crisi.
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