UNA ONESTA COMPAGNIA
Nel nostro schieramento politico esiste tra il Centro e la
Sinistra una occulta sottaciuta affinità elettiva, che deriva non solo dal
comune cordone ombelicale ciellenistico riaffiorante ad ogni traguardo pratico,
ma che ha radici storiche e psicologiche più lontane.
«Il nemico del mio nemico è mio amico»: gli uomini che non
perdonarono mai alla nuova Italia il 20 Settembre guardarono con segreta
soddisfazione alle correnti che sullo scorcio del secolo passato compenetrarono
di spirito classista i ceti del lavoro manuale prima che questi fossero
compenetrati di spirito nazionale. Ogni indebolimento della Nazione era una
rivincita per chi ne aveva subito obtorto collo l'avvento, e le più profonde
diversità concettuali non potevano cancellare la convergenza dei rancori contro
una realtà storica nella quale gli uni vedevano una usurpazione, gli altri,
prigionieri del loro materialismo, una coalizione di interessi borghesi. Nel
1946 la liquidazione della Monarchia derivò da due volontà eterogenee ma
convergenti nel proposito di disossare lo Stato risorgimentale.
Conseguentemente e per nostra sventura il senso patrio fu
sempre in Italia una ragione ideale limitata alla Destra politica e chiunque
fra noi si dimostrò animato da quell'ideale, venne immediatamente dagli
avversari d'ogni risma classificato uomo di Destra.
Per trovare la spiegazione delle nostre vicissitudini bisogna
osservare il comportamento degli uni e degli altri nelle ore cruciali della
nostra storia, e al riguardo la seconda guerra mondiale non rivelò nulla che
non avessimo già veduto, almeno in embrione, nella guerra
1915-18. Anche allora i seguaci della Sinistra (salvo la frazione di Mussolini
e di Corridoni convertitasi alla Nazione) puntavano sulla sconfitta.
Ideologicamente l'Italia rappresentava allora la libertà e la democrazia, ma
ciò non impediva che essi fossero gli zelanti alleati del nemico.
Ora essi accettano il nostro intervento nella prima guerra
mondiale unicamente per contrapporlo all'intervento nella seconda, non più
aggressivo e non meno inevitabile, e nei loro manifesti hanno l'improntitudine
di accostare la Resistenza a Vittorio Veneto, a cui giungemmo malgrado loro e
contro di loro. Ora negli stessi manifesti vantano gli scioperi del marzo '43
come affermazione della Resistenza e preludio alla capitolazione del settembre:
ma noi ricordiamo gli scioperi e i tumulti dell'agosto '17 che furono seguiti
nell'ottobre dalla rotta di Caporetto.
Essi vantarono allora Caporetto che chiamarono «sciopero
militare»; e loro fu il grido in Parlamento: «Non più un inverno in trincea!»
Non c'era ancora la radio. Se in quei giorni i pacifisti
d'allora avessero avuto a Vienna un microfono col quale martellare
quotidianamente gli Italiani con la geniale formula del perdere per vincere -
cioè perdere dinanzi al nemico straniero per vincere all'interno gli avversari
politici - forse ce l'avrebbero fatta anche allora. Gli sviscerati tra il '40 e
il '45 dell'Inghilterra liberale erano tra il '15 e il '18 sviscerati della
Germania autoritaria: e come durante la seconda guerra mondiale, così durante
la prima essi consumavano nell'impunità la loro opera disgregatrice.
Inesplicabili esplosioni di polveriere e incendi di depositi
avvenivano qua e là; volantini di propaganda disfattista giungevano fin nelle
trincee ad ora ad ora; cercando perché alcune partite delle nostre granate non
scoppiavano si scopriva che le spolette erano state sabotate nelle fabbriche
(anche i campioni del silurificio di Baia ebbero i loro predecessori): svariati
effetti di cause non difficili a identificarsi.
Nel marzo 1917 la Russia rivoluzionaria usciva dalla guerra
abbandonando gli alleati, e nell'agosto alcuni portatori del verbo sovietico
sbarcavano a Roma trionfalmente accolti dai nostri socialisti, i quali li accompagnarono
a passeggio per la penisola in visita ai nostri centri industriali affinché le
masse operaie si beassero della loro vista. Pochi giorni dopo il segretario del
Partito, Costantino Lazzari, invitava con una circolare i sindaci socialisti a
dimettersi tutti insieme per creare difficoltà al Governo e disordini nel
paese, e la denuncia di qualche ingenuo onest'uomo procurò al Lazzari un
processo con relativa assoluzione perché «il fatto non costituisce reato». In
effetti il nostro codice penale contempla innumerevoli reati ma non quello di
attentare alla vita e all'onore della Nazione.
Quando, dopo il rovescio militare nell'autunno, il patriarca
del socialismo Filippo Turati dichiarò, bontà sua: «anche per noi la patria è
al Grappa e al Piave» (al Grappa e al Piave allora, ma non qualche mese prima
al Col di Lana e all'Isonzo!) egli fu severamente deplorato dalla Direzione del
Partito. Fatti da ricordare perché lumeggiano la credibilità delle
proclamazioni di «patriottismo» da parte degli uomini di Sinistra e la
sincerità delle loro preoccupazioni come difensori dell'indipendenza nazionale
che sarebbe vulnerata dalla presenza di basi della NATO nel nostro territorio.
I futuri D'Onofrio avevano tra il '15 e il '18 i loro
antecessori nei Misiano, gli uni e gli altri regolarmente eletti al Parlamento,
ed era ed è la schiatta che dopo Adua gridò alla Camera e nelle piazze Viva
Menelik!, che nel '12 sparse gemiti e lacrime di compianto sui poveri beduini
dei Gebel, che nel'36 aveva sulle labbra pronto a prorompere il grido Viva
Tafari!, che nel '43 ebbe la propria ora solare quando poté scoppiare nel grido
Viva Stalin! Viva Churchill! Viva Roosevelt!
E’ la schiatta che non s'innalzò mai al concetto educatore
del sacrificio presente accolto per il vantaggio delle generazioni future e che
irride al «posto al sole» dei nazionalisti giudicando sufficiente per i nostri
lavoratori esuberanti in patria un posto all'ombra nelle miniere del Belgio; la
schiatta che ha sempre avversato il superamento del nostro dramma biologico
attraverso l'espansionismo esterno invocando contro di esso l'alternativa del
cannibalismo interno.
D'altronde, valga il vero: è troppo vantaggioso da noi
durante le guerre parteggiare per il nemico, perché molta gente non ceda alla
tentazione. Infatti, in caso di sconfitta si diventa la classe di governo; in
caso di vittoria non occorre molta abilità a mimetizzarsi all'ultim'ora e si sa
in anticipo che nell'euforia del successo nessuno s'indugerà sulla passata
condotta di questo o di quello: senza contare che, anche vittoriosa, una guerra
lascia strascichi dolorosi, per cui averla sabotata diverrà presto un merito.
Superfluo dire che costoro contrastano in qualunque caso lo
sforzo bellico della Nazione per umanitarismo, perché hanno orrore del sangue e
al contrario dei barbari nazionalisti sanno che non esiste al mondo bene più
grande della pace.
Ora la differenza tra codesti campioni del pacifismo e quanti
siamo Italiani non per anagrafe ma per una qualità dell'anima, risiede nel
fatto che più di loro noi conosciamo l'atrocità della guerra e avversiamo la
violenza in ogni sua espressione, ma anche conosciamo le irrecusabili vie della
storia e allorché l'ora lo esige siamo presenti nelle prime schiere e senza
odio esercitiamo la violenza esponendoci ad essa, mentre i pacifisti si
imboscano quali protestatari ideologici e per motivi di umanitarismo
custodiscono la propria incolumità, salvo a diguazzare nel sangue quando la
violenza possa esercitarsi sui fratelli inermi.
E anche allora i freni alle ruote del carro italiano, che noi
soldati tiravamo con tutte le nostre forze, non erano applicati solo dalla
opposizione di Sinistra, che sempre fu e rimane oggi contro la Patria nei fatti
se non nelle parole; altri freni più o meno dissimulati si trovavano in altri
settori del nostro mondo politico.
Nel 1917 il gen. Cadorna sopprimeva il Corriere del Friuli
(quotidiano di Udine il cui direttore era destinato a piú alto seggio) che alle
spalle del nostro schieramento era fòmite di un disfattismo d'altra
ispirazione. Socialisti e clericali erano nemici irriducibili, i settimanali
L'Asino e Il Mulo si combattevano senza esclusione di colpi e in essi gli
Italiani potevano apprendere la quintessenza della volgarità; esisteva
nondimeno un punto in cui le due parti convergevano. In comune esse bramavano
un ruzzolone dell'Italia, nel quale i primi vedevano un successo della loro
fazione, i secondi la prova che il Risorgimento era stato una colpa e un
errore; e gli uni e gli altri facevano insieme un bel numero.
Tale inimicizia rossa e nera contro il medesimo oggetto aveva
infiltrazioni e capillarità negli stessi ranghi delle Forze Armate, e non nei
gradi più bassi.
Molti di noi, allora giovani ufficiali subalterni di comune
pensiero e spirito, ricordiamo conversazioni casuali con nostri autorevoli
superiori, le quali ci lasciavano disorientati e perplessi. Avevamo
l'impressione che guardassero dall'alto e da lontano alla nostra manifesta
volontà di vincere la guerra, giudicandola pericolosa protervia patriottarda;
ci fissavano in un modo curioso come se pensassero che ogni diffidenza era
legittima con tipi come noi pronti a dissentire dalla nostra tradizionale e
necessaria modestia di popolo che tende quietamente la mano nei crocicchi dei
continenti.
Pronunziavano la parola Germania con una specie di mistica
venerazione, come se di quel paese sapessero per via riservata un mondo di cose
inaccessibili alla nostra giovanile ignoranza e incoscienza. « E’ piú temibile
una Germania vinta che una Germania vincitrice » era l'aforisma oscuramente
minaccioso non mai omesso in quelle conversazioni, onde la sottaciuta illazione
che il vero bene dell'Italia fosse da cercare nella sconfitta.
Antichi equivoci sorgenti da interferenza tra religione e
politica non sono stati dissipati neppure dalla Conciliazione e travagliano la
Chiesa nel suo stesso seno.
Nel riguardi della Nazione il clero italiano ha due anime
opposte; tra i sacerdoti si trovano patrioti ferventi e si trovano odiatori
implacabili della Patria.
Avemmo un Padre Reginaldo Giuliani, e nell'aprile del '45
dopo l'esodo dei tedeschi si videro nelle schiere partigiane scendenti in città
preti col fazzoletto rosso al collo. In quegli stessi giorni Padre Pio si
faceva volontariamente incarcerare per sovvenire con la sua presenza e con la
parola della Fede le folle di soldati e di detenuti politici.
Ora abbiamo un Italiano come Don Antonietti, creatore della
Casa degli Orfani di Ponteselva, già Cappellano Militare pluridecorato, e
abbiamo Don Minisola, parroco di Aidone, che in una intervista concessa
all'Unità si dichiara solidale coi comunisti sul terreno pratico e anche sul
terreno spirituale. Evidentemente il massacro di ottomila sacerdoti e suore
nella Spagna rossa, le condizioni della Chiesa nei paesi di sudditanza
sovietica, le cattedrali russe trasformate in «musei antireligiosi» ove il
bersaglio preferito di bestiali ingiurie è la persona del Pontefice, queste e
altrettali prodezze del comunismo occidentale sono bazzecole per Don Minisola,
ed egli non cura di farsi ragguagliare su quello orientale da Monsignor
Ferroni, reduce dalla Cina.
Stabilito che codeste aberrazioni non possono toccare la
nostra fede di cattolici credenti e praticanti, pensiamo che sia vano sperare
una chiarificazione dall'alto: la scomunica inflitta al comunisti non impedisce
e non impedirà a taluni ministri del culto di amoreggiare con essi in nome di
un miope vacuo umanitarismo, e il clero conserverà le due anime che sono poi le
due opposte anime della Nazione e dell'anti-Nazione.
Per il consolidamento della prima è da auspicare che nella
grande massa dei cattolici i quali furono e sono in guerra e in pace buoni
italiani, s'accresca la schiera di coloro che riesaminano i motivi della loro
osservanza politica, che si scrollano di dosso la pigrizia del conformismo e si
guardano intorno per scoprire da quale parte e con quali ideali meglio si
tutelano a un tempo le ragioni della Fede e della Patria.
Essi riscontreranno nel Partito Nazionale Monarchico
devozione profonda verso la Chiesa nella distinzione del sacro dal profano,
spirito sinceramente democratico e quindi antidemagogico, amore della libertà
come diritto e dovere dei cittadini a esercitare un controllo responsabile sul
proprio governo, sollecitudine di giustizia sociale congiunta al culto dei
valori tradizionali che ispirarono ai nostri padri la prontezza al sacrificio
per il pubblico bene: contrassegni tutti che offrono ai cattolici la sicurezza
d'una onesta compagnia.
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