NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 31 gennaio 2013

Il Partito Nazionale Monarchico - XX parte


UNA ONESTA COMPAGNIA


Nel nostro schieramento politico esiste tra il Centro e la Sinistra una occulta sottaciuta affinità elettiva, che deriva non solo dal comune cordone ombelicale ciellenistico riaffiorante ad ogni traguardo pratico, ma che ha radici storiche e psicologiche più lontane.
«Il nemico del mio nemico è mio amico»: gli uomini che non perdonarono mai alla nuova Italia il 20 Settembre guardarono con segreta soddisfazione alle correnti che sullo scorcio del secolo passato compenetrarono di spirito classista i ceti del lavoro manuale prima che questi fossero compenetrati di spirito nazionale. Ogni indebolimento della Nazione era una rivincita per chi ne aveva subito obtorto collo l'avvento, e le più profonde diversità concettuali non potevano cancellare la convergenza dei rancori contro una realtà storica nella quale gli uni vedevano una usurpazione, gli altri, prigionieri del loro materialismo, una coalizione di interessi borghesi. Nel 1946 la liquidazione della Monarchia derivò da due volontà eterogenee ma convergenti nel proposito di disossare lo Stato risorgimentale.
Conseguentemente e per nostra sventura il senso patrio fu sempre in Italia una ragione ideale limitata alla Destra politica e chiunque fra noi si dimostrò animato da quell'ideale, venne immediatamente dagli avversari d'ogni risma classificato uomo di Destra.
Per trovare la spiegazione delle nostre vicissitudini bisogna osservare il comportamento degli uni e degli altri nelle ore cruciali della nostra storia, e al riguardo la seconda guerra mondiale non rivelò nulla che


non avessimo già veduto, almeno in embrione, nella guerra 1915-18. Anche allora i seguaci della Sinistra (salvo la frazione di Mussolini e di Corridoni convertitasi alla Nazione) puntavano sulla sconfitta. Ideologicamente l'Italia rappresentava allora la libertà e la democrazia, ma ciò non impediva che essi fossero gli zelanti alleati del nemico.
Ora essi accettano il nostro intervento nella prima guerra mondiale unicamente per contrapporlo all'intervento nella seconda, non più aggressivo e non meno inevitabile, e nei loro manifesti hanno l'improntitudine di accostare la Resistenza a Vittorio Veneto, a cui giungemmo malgrado loro e contro di loro. Ora negli stessi manifesti vantano gli scioperi del marzo '43 come affermazione della Resistenza e preludio alla capitolazione del settembre: ma noi ricordiamo gli scioperi e i tumulti dell'agosto '17 che furono seguiti nell'ottobre dalla rotta di Caporetto.

Essi vantarono allora Caporetto che chiamarono «sciopero militare»; e loro fu il grido in Parlamento: «Non più un inverno in trincea!»
Non c'era ancora la radio. Se in quei giorni i pacifisti d'allora avessero avuto a Vienna un microfono col quale martellare quotidianamente gli Italiani con la geniale formula del perdere per vincere - cioè perdere dinanzi al nemico straniero per vincere all'interno gli avversari politici - forse ce l'avrebbero fatta anche allora. Gli sviscerati tra il '40 e il '45 dell'Inghilterra liberale erano tra il '15 e il '18 sviscerati della Germania autoritaria: e come durante la seconda guerra mondiale, così durante la prima essi consumavano nell'impunità la loro opera disgregatrice.

Inesplicabili esplosioni di polveriere e incendi di depositi avvenivano qua e là; volantini di propaganda disfattista giungevano fin nelle trincee ad ora ad ora; cercando perché alcune partite delle nostre granate non scoppiavano si scopriva che le spolette erano state sabotate nelle fabbriche (anche i campioni del silurificio di Baia ebbero i loro predecessori): svariati effetti di cause non difficili a identificarsi.
Nel marzo 1917 la Russia rivoluzionaria usciva dalla guerra abbandonando gli alleati, e nell'agosto alcuni portatori del verbo sovietico sbarcavano a Roma trionfalmente accolti dai nostri socialisti, i quali li accompagnarono a passeggio per la penisola in visita ai nostri centri industriali affinché le masse operaie si beassero della loro vista. Pochi giorni dopo il segretario del Partito, Costantino Lazzari, invitava con una circolare i sindaci socialisti a dimettersi tutti insieme per creare difficoltà al Governo e disordini nel paese, e la denuncia di qualche ingenuo onest'uomo procurò al Lazzari un processo con relativa assoluzione perché «il fatto non costituisce reato». In effetti il nostro codice penale contempla innumerevoli reati ma non quello di attentare alla vita e all'onore della Nazione.
Quando, dopo il rovescio militare nell'autunno, il patriarca del socialismo Filippo Turati dichiarò, bontà sua: «anche per noi la patria è al Grappa e al Piave» (al Grappa e al Piave allora, ma non qualche mese prima al Col di Lana e all'Isonzo!) egli fu severamente deplorato dalla Direzione del Partito. Fatti da ricordare perché lumeggiano la credibilità delle proclamazioni di «patriottismo» da parte degli uomini di Sinistra e la sincerità delle loro preoccupazioni come difensori dell'indipendenza nazionale che sarebbe vulnerata dalla presenza di basi della NATO nel nostro territorio.

I futuri D'Onofrio avevano tra il '15 e il '18 i loro antecessori nei Misiano, gli uni e gli altri regolarmente eletti al Parlamento, ed era ed è la schiatta che dopo Adua gridò alla Camera e nelle piazze Viva Menelik!, che nel '12 sparse gemiti e lacrime di compianto sui poveri beduini dei Gebel, che nel'36 aveva sulle labbra pronto a prorompere il grido Viva Tafari!, che nel '43 ebbe la propria ora solare quando poté scoppiare nel grido Viva Stalin! Viva Churchill! Viva Roosevelt!

E’ la schiatta che non s'innalzò mai al concetto educatore del sacrificio presente accolto per il vantaggio delle generazioni future e che irride al «posto al sole» dei nazionalisti giudicando sufficiente per i nostri lavoratori esuberanti in patria un posto all'ombra nelle miniere del Belgio; la schiatta che ha sempre avversato il superamento del nostro dramma biologico attraverso l'espansionismo esterno invocando contro di esso l'alternativa del cannibalismo interno.
D'altronde, valga il vero: è troppo vantaggioso da noi durante le guerre parteggiare per il nemico, perché molta gente non ceda alla tentazione. Infatti, in caso di sconfitta si diventa la classe di governo; in caso di vittoria non occorre molta abilità a mimetizzarsi all'ultim'ora e si sa in anticipo che nell'euforia del successo nessuno s'indugerà sulla passata condotta di questo o di quello: senza contare che, anche vittoriosa, una guerra lascia strascichi dolorosi, per cui averla sabotata diverrà presto un merito.
Superfluo dire che costoro contrastano in qualunque caso lo sforzo bellico della Nazione per umanitarismo, perché hanno orrore del sangue e al contrario dei barbari nazionalisti sanno che non esiste al mondo bene più grande della pace.
Ora la differenza tra codesti campioni del pacifismo e quanti siamo Italiani non per anagrafe ma per una qualità dell'anima, risiede nel fatto che più di loro noi conosciamo l'atrocità della guerra e avversiamo la violenza in ogni sua espressione, ma anche conosciamo le irrecusabili vie della storia e allorché l'ora lo esige siamo presenti nelle prime schiere e senza odio esercitiamo la violenza esponendoci ad essa, mentre i pacifisti si imboscano quali protestatari ideologici e per motivi di umanitarismo custodiscono la propria incolumità, salvo a diguazzare nel sangue quando la violenza possa esercitarsi sui fratelli inermi.
E anche allora i freni alle ruote del carro italiano, che noi soldati tiravamo con tutte le nostre forze, non erano applicati solo dalla opposizione di Sinistra, che sempre fu e rimane oggi contro la Patria nei fatti se non nelle parole; altri freni più o meno dissimulati si trovavano in altri settori del nostro mondo politico.
Nel 1917 il gen. Cadorna sopprimeva il Corriere del Friuli (quotidiano di Udine il cui direttore era destinato a piú alto seggio) che alle spalle del nostro schieramento era fòmite di un disfattismo d'altra ispirazione. Socialisti e clericali erano nemici irriducibili, i settimanali L'Asino e Il Mulo si combattevano senza esclusione di colpi e in essi gli Italiani potevano apprendere la quintessenza della volgarità; esisteva nondimeno un punto in cui le due parti convergevano. In comune esse bramavano un ruzzolone dell'Italia, nel quale i primi vedevano un successo della loro fazione, i secondi la prova che il Risorgimento era stato una colpa e un errore; e gli uni e gli altri facevano insieme un bel numero.
Tale inimicizia rossa e nera contro il medesimo oggetto aveva infiltrazioni e capillarità negli stessi ranghi delle Forze Armate, e non nei gradi più bassi.
Molti di noi, allora giovani ufficiali subalterni di comune pensiero e spirito, ricordiamo conversazioni casuali con nostri autorevoli superiori, le quali ci lasciavano disorientati e perplessi. Avevamo l'impressione che guardassero dall'alto e da lontano alla nostra manifesta volontà di vincere la guerra, giudicandola pericolosa protervia patriottarda; ci fissavano in un modo curioso come se pensassero che ogni diffidenza era legittima con tipi come noi pronti a dissentire dalla nostra tradizionale e necessaria modestia di popolo che tende quietamente la mano nei crocicchi dei continenti.
Pronunziavano la parola Germania con una specie di mistica venerazione, come se di quel paese sapessero per via riservata un mondo di cose inaccessibili alla nostra giovanile ignoranza e incoscienza. « E’ piú temibile una Germania vinta che una Germania vincitrice » era l'aforisma oscuramente minaccioso non mai omesso in quelle conversazioni, onde la sottaciuta illazione che il vero bene dell'Italia fosse da cercare nella sconfitta.

Antichi equivoci sorgenti da interferenza tra religione e politica non sono stati dissipati neppure dalla Conciliazione e travagliano la Chiesa nel suo stesso seno.

Nel riguardi della Nazione il clero italiano ha due anime opposte; tra i sacerdoti si trovano patrioti ferventi e si trovano odiatori implacabili della Patria.

Avemmo un Padre Reginaldo Giuliani, e nell'aprile del '45 dopo l'esodo dei tedeschi si videro nelle schiere partigiane scendenti in città preti col fazzoletto rosso al collo. In quegli stessi giorni Padre Pio si faceva volontariamente incarcerare per sovvenire con la sua presenza e con la parola della Fede le folle di soldati e di detenuti politici.

Ora abbiamo un Italiano come Don Antonietti, creatore della Casa degli Orfani di Ponteselva, già Cappellano Militare pluridecorato, e abbiamo Don Minisola, parroco di Aidone, che in una intervista concessa all'Unità si dichiara solidale coi comunisti sul terreno pratico e anche sul terreno spirituale. Evidentemente il massacro di ottomila sacerdoti e suore nella Spagna rossa, le condizioni della Chiesa nei paesi di sudditanza sovietica, le cattedrali russe trasformate in «musei antireligiosi» ove il bersaglio preferito di bestiali ingiurie è la persona del Pontefice, queste e altrettali prodezze del comunismo occidentale sono bazzecole per Don Minisola, ed egli non cura di farsi ragguagliare su quello orientale da Monsignor Ferroni, reduce dalla Cina.

Stabilito che codeste aberrazioni non possono toccare la nostra fede di cattolici credenti e praticanti, pensiamo che sia vano sperare una chiarificazione dall'alto: la scomunica inflitta al comunisti non impedisce e non impedirà a taluni ministri del culto di amoreggiare con essi in nome di un miope vacuo umanitarismo, e il clero conserverà le due anime che sono poi le due opposte anime della Nazione e dell'anti-Nazione.

Per il consolidamento della prima è da auspicare che nella grande massa dei cattolici i quali furono e sono in guerra e in pace buoni italiani, s'accresca la schiera di coloro che riesaminano i motivi della loro osservanza politica, che si scrollano di dosso la pigrizia del conformismo e si guardano intorno per scoprire da quale parte e con quali ideali meglio si tutelano a un tempo le ragioni della Fede e della Patria.
Essi riscontreranno nel Partito Nazionale Monarchico devozione profonda verso la Chiesa nella distinzione del sacro dal profano, spirito sinceramente democratico e quindi antidemagogico, amore della libertà come diritto e dovere dei cittadini a esercitare un controllo responsabile sul proprio governo, sollecitudine di giustizia sociale congiunta al culto dei valori tradizionali che ispirarono ai nostri padri la prontezza al sacrificio per il pubblico bene: contrassegni tutti che offrono ai cattolici la sicurezza d'una onesta compagnia.

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