NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 27 aprile 2023

Capitolo XXXVIII La vita del fiume

 


 di Emilio Del Bel Belluz

 

Le giornate trascorrevano tranquille come le acque del fiume che scorrevano placide. Elena si stava avvicinando al parto, mancavano solo poche settimane. In casa era sempre presente Genoveffa che non la lasciava mai sola. Elena era diventata però più taciturna, parlava solo lo stretto necessario, si vedeva che era preoccupata per il parto; anche se di figli ne aveva già avuti tre e tutto era andato nei migliori dei modi. La stagione dell’estate era tra le più proficue per la pesca e le acque del fiume erano di un verde cristallino perché da molto non pioveva. Una tarda mattina era venuta a vedermi, assieme a Serena, mentre rientravamo con la barca. Nei loro volti c’era la curiosità di appurare la quantità del pesce pescato.  Quel giorno poi eravamo stati molto fortunati, la calma del fiume in certi punti ci aveva permesso di catturare alcune trote, che si muovevano nel secchio grande. I nostri volti erano felici come se avessimo catturato una balena. Osservai il volto di Elena i cui lineamenti si erano addolciti e pensavo al grande momento che ci attendeva. Quella nascita l’avrei festeggiata alla grande, un figlio è una cosa davvero meravigliosa e straordinaria che ti cambia la vita. Elena aveva espresso il desiderio di ritornare a casa per mangiare tutti assieme. Quel giorno con Serena avevano preparato un piatto speciale: un arrosto di carne con patate. Questa notizia ci fece accelerare il passo di ritorno. Il sole scaldava i tetti delle case e le nostre teste; sentimmo il bisogno di ripararci in casa. In cucina Genoveffa aveva preparato la tavola, arricchendola con dei fiori rossi, appena raccolti. Il profumo del cibo s’era espanso dappertutto. Quando fummo seduti a tavola, vennero portati i piatti con la carne e le patate che furono salutati con una felicità che si poteva toccare con le mani. Volli anche stappare una bottiglia che mi aveva dato un contadino in cambio di un pesce.  Non avevamo ancora finito di pranzare che Elena aveva chiesto il permesso di ritirarsi in camera, si sentiva stanca. La accompagnai e le chiesi se stava male. Mi rispose che stavo più in ansia di lei e che non c’era per il momento nulla di cui preoccuparsi, era semplicemente stanca.  Quella mattina si era accorta che dolcemente le avevo fatto una carezza prima di andarmene a pesca che era stata molto gradita ed avrebbe voluto che mi soffermassi ancora con lei. Si era anche accorta che ero stato nella cameretta dei bambini e che li avevo baciati. Questo le aveva fatto pensare a suo padre che prima di partire per il fronte aveva voluto salutare dolcemente tutte le persone della famiglia. Elena aveva nel cuore la paura che questo potesse accadere ancora.  Mi sedetti accanto al letto e le presi la mano per rassicurarla, come facevo tante volte. Le augurai di riposarsi serenamente.  Nel frattempo, i miei amici avevano finito di pranzare e li avevo congedati. Successivamente dovetti interrompere la conversazione con Genoveffa perché era arrivato un uomo del paese portandoci una terribile notizia: suo figlio si era buttato nel fiume e non riuscivano a trovarlo. Le acque del fiume avevano portato il suo corpo lontano e l’uomo era disperato. Era il suo unico figlio. Alla mattina aveva lasciato un biglietto sul tavolo in cui spiegava il motivo del suo gesto. Al ritorno della guerra la sua mente non era più la stessa, gli incubi ricorrenti notturni non lo lasciavano riposare e durante il giorno non aveva più un momento di tranquillità; rimuginava continuamente le terrificanti scene belliche.  L’uomo mi chiese di aiutarlo nelle ricerche, desiderava partecipare attivamente.  Vittorio notò nel padre i suoi occhi stanchi e il viso stravolto dal dolore. Genoveffa ci diede del caffè e della grappa da portare con noi; le ricerche sarebbero continuate a lungo. Il padre prima di andarsene, chiese a Genoveffa di avvertire sua moglie che era partito con me. La donna attendeva notizie completamente in preda alla disperazione. Salimmo sulla mia barca e solcammo un tratto del fiume fino a raggiungere il posto dove il figlio aveva abbandonato una giacca. Ivi le acque del fiume creavano dei pericolosi vortici. Al padre avevo raccomandato di non fare dei movimenti bruschi, altrimenti, la barca si sarebbe potuta capovolgere. Gli chiesi solo di prestare attenzione se intravedeva qualcosa che assomigliasse a un corpo. L’uomo che nel cuore aveva la disperazione, scrutava intensamente qualsiasi cosa che galleggiasse. Le ore passavano, il capannello di persone s’era dileguato. Il padre appariva allo sfinimento delle sue forze, era diventato taciturno e impadronito dalla rassegnazione. Decisi che sarei ritornato a casa, non si poteva fare di più di quello che era stato fatto. Il fiume solitamente restituiva i corpi delle persone, ma poteva farlo anche qualche giorno dopo. Il cadavere poteva essersi impigliato nella vegetazione che abitualmente costeggiava le rive del fiume. Succedeva anche a me, quando gettavo le reti per pescare. Il padre accettò che lo conducessi a casa, e con una certa velocità lo riportai vicino alla riva e lo feci scendere. Gli promisi che le mie ricerche sarebbero riprese la mattina dopo, all’alba. Per suo figlio non si poteva fare altro che aspettare; l’uomo mi abbracciò forte e mi mise tra le mani del denaro che rifiutai. Nel salutarlo, gli promisi che l’avrei cercato il giorno dopo, e se avessi avuto notizie mi sarei fatto sentire ancora prima.  Mentre stavo legando la barca all’albero, scorsi un bagliore sull’altra parte della riva, dove non avevamo ancora perlustrato. Avevo l’impressione che qualcuno avesse acceso un fuoco. La stanchezza che mi aveva rapito era tanta, nella barca avevo qualcosa da mettere sotto i denti, e mentre mi approssimavo a farlo, vidi arrivare Ludovico con una borsa. Elena lo aveva mandato a cercarmi, voleva avere notizie perché non si sentiva tranquilla. Infatti, solcare il fiume con la barca con il solo ausilio di una lanterna, non era un’impresa facile. Quello che mi sosteneva era la speranza di trovare il corpo del giovane. Ludovico mi chiese di mangiare qualcosa, e in quel momento compresi che la sua presenza mi stava aiutando. Ludovico mi propose di continuare a cercare assieme a lui, ma prima volle andare da Elena e rassicurarla che mi aveva trovato. Quando giunse a casa, Elena stava parlando con Genoveffa, e le raccontava che non si sentiva tanto bene, anche per la paura che mi succedesse qualcosa. Ludovico nel vederla, le disse che mi aveva trovato e che avremmo continuato le ricerche ancora per qualche ora. Con questo proposito raggiunsi Vittorio che nel frattempo aveva mangiato qualcosa. Volevo raggiungere quel fuoco che si vedeva acceso, non che sperassi di trovare lo scomparso, ma mi sembrava una possibilità che non si poteva scartare.  La lampada illuminava la notte, poche stelle brillavano nel cielo e la luna piena stava sopra di noi. Ludovico era silenzioso, ma io che avevo visto il volto del padre disperato, non potevo dimenticarlo. La corrente del fiume in certi punti era più veloce e la stanchezza nelle braccia si faceva sentire, anche se il pasto frugale mi aveva ridato dell’energia. Dopo una navigazione difficile giungemmo all’altra riva, la barca sembrava conoscesse la strada. Quella luce che avevo visto in lontananza, poteva essere quella di qualche vagabondo che aveva deciso di passarvi la notte. Avvicinandoci, scorgemmo due persone che stavano davanti al fuoco mentre facevano bollire una pentola. Riconobbi che uno dei due era l’uomo che cercavamo. L’altra persona che stava con lui era un frate. Quando ci videro, l’uomo ritenuto scomparso cercò di scappare, ma la persona che era con lui lo afferrò per un braccio e lo fece desistere.  Il frate cercò di pacificare l’uomo che stava con lui e si mise a sedere vicino al fuoco, invitandoci anche noi a fare altrettanto. Il frate disse che aveva visto l’uomo nel fiume che stava annegando e si era buttato in acqua e lo aveva portato a riva. Dopo averlo salvato, aveva in tutti i modi cercato di rasserenarlo e gli garantì che lo avrebbe accompagnato da suo padre. Il poveretto balbettò qualche parola, disse che voleva porre termine alla sua vita che era diventata insopportabile. Quando fu recuperato dal fiume, comprese che il buon Dio gli aveva mandato qualcuno a salvarlo e doveva ringraziarlo. Il frate si trovava in quella zona perché stava restaurando un capitello posizionato nel bosco vicino. Si era avvicinato al fiume per prendere dell’acqua da bere. Quel giorno aveva iniziato il lavoro, ma non avendolo finito, aveva deciso di passare la notte vicino al capitello. Quando aveva visto che il giovane stava annegando si era gettato nel fiume per salvarlo. Il frate disse che forse il peggio era stato superato e che, molto verosimilmente, la vita del giovane sarebbe ricominciata. Il frate lo abbracciò calorosamente, lo benedì e gli donò un’immagine di padre Leopoldo. Vittorio mise la mano in tasca e donò del denaro al frate, chiedendogli di pregare per Elena che era in attesa di un bambino. Il frate mi abbracciò, mi disse che sarebbe andato tutto bene, e perciò non dovevo temere nulla.  Il giovane aveva timore di presentarsi ai suoi e, pertanto, lo condussi nella mia casa.  Ludovico andò ad avvertire i genitori che il loro figliolo era stato ritrovato sano e salvo.

martedì 25 aprile 2023

Il 25 aprile, festa della liberazione e dell’unità nazionale: lo spirito originario


Segnaliamo questo significativo articolo comparso sul sito 
www.corrierepl.it




di Francesco Magisano

Curiosità e memoria. Umberto II di Savoia.

Lo si dimentica sistematicamente, ma fu Umberto II di Savoia a proclamare il 25 Aprile come giorno di festa nazionale:
Il 25 aprile del 1946 Re Umberto II, ancora Principe e Luogotenente del Regno d’Italia, in accordo col Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi emanò un decreto luogotenenziale che annunciava: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale”.

[...]

www.corrierepl.it

25 aprile, Unione monarchica: "Festa istituita da Umberto II"

 "Senza gli ufficiali del Regio Esercito, la Resistenza non avrebbe avuto luogo"




"Della festa del 25 aprile si sono impossessati un po' tutti, fino a farla sembrare una cosa della Repubblica. Pochi sanno che invece la dobbiamo a Umberto di Savoia, futuro Re Umberto II, che la istituì con decreto luogotenenziale il 22 aprile 1946". 

A ricordarlo, alla vigilia della festa della Liberazione, è il presidente dell'Unione Monarchica Italiana (Umi), Alessandro Sacchi, che parlando con l'Adnkronos auspica che il 25 aprile "diventi la festa di tutti, perché le feste nazionali debbono unire, ma quando qualcuno se ne impossessa, diventano divisive".

Sacchi punta il dito contro "un'eccessiva ideologizzazione del 25 aprile, da una parte e dall'altra" e sottolinea che "la Resistenza fu un fenomeno che non ebbe colore", ma soprattutto "senza gli ufficiali del Regio Esercito, che sapevano maneggiare le armi, sarebbe stata molto marginale".

Come Unione monarchica italiana "noi celebriamo la liberazione dell'Italia dal giogo nazifascista", senza partecipare però ai cortei, dove "l'Anpi non ci ha mai invitati". Che poi - aggiunge il presidente - "vorrei sapere quanti partigiani ci sono nell'Anpi, dato che sono morti tutti, è solo un'etichetta". 

Per altro "c'erano anche partigiani monarchici militanti, gente che liberava l'Italia gridando 'Viva il Re', perché la Monarchia era una cosa unificante".

Stesso messaggio che Umi manda oggi: "Celebriamo il 25 aprile, ma superiamo le divisioni", che ormai sono come quelle tra "garibaldini e borbonici, guelfi e ghibellini, orazi e curiazi. Sono passati ormai 80 anni e tre generazioni, celebriamo la liberazione d'Italia dall'occupante straniero, che aveva dei sodali in Italia. Salviamo la buona fede di chi combatteva dall'altra parte e guardiamo avanti. Questo è l'appello che io rivolgo alle forze politiche: condividiamo un percorso unificante e non divisivo".

Per Sacchi anche "parlare di antifascismo nel 2023 è qualcosa che fa sorridere chi ha un minimo di competenze storiche. I fascisti, come i partigiani, non esistono più. Sono vicende collocabili in uno spazio-tempo ormai superato e allora - si chiede - perché mantenere questa tensione, quasi una guerra civile serpeggiante tra fascisti e antifascisti?"

In vista dei prossimi 25 aprile, se ci sarà una manifestazione unitaria, "io - dice il presidente dell'UMI - sarò onorato di ricevere un invito e di andare anche a parlare, soprattutto del ruolo degli ufficiali nel regio esercito, senza i quali la Resistenza non avrebbe avuto luogo".

giovedì 20 aprile 2023

REFERENDUM, QUANDO LA SICILIA VOTÒ PER LA MONARCHIA




Esce in questi giorni l’ultima fatica letteraria di Tommaso RomanoUmberto II e il referendum del 1946 nella Sicilia che votò Monarchia, con la prefazione di Francesco Perfetti, edito dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo. Una ricerca, approfondita e documentata, che affronta i drammatici momenti del controverso passaggio dalla forma monarchica a quella repubblicana dell’Italia, in maniera scientifica e scrupolosa, come l’autore ha fatto in altre opere di carattere storico. Tommaso Romano è, come scrive lo storico di fama internazionale Francesco Perfetti nella sua importante prefazione, “un caso unico nel mondo culturale e cultural-politico italiano, sulla breccia da tanti decenni come intellettuale cultore della tradizione, docente, animatore culturale, editore e autore eclettico capace di passare, con elegante disinvoltura, dal testo narrativo all’aforisma fulminante, dalla scoperta delle memorie della sua terra alle ricerche di storia locale”.

Sicuramente un ritratto tanto lusinghiero quanto veritiero. Va rilevata ancora la sua capacità di analisi, sempre critica e capace di mettere in discussione anche le sue più inveterate convinzioni. Romano ha battuto in molti ambiti, dalla poesia alla storiografia, dalla metafisica alla politica, la strada della ricerca senza limite, ispirata dalla volontà di “intelleggere” gli eventi attraverso documenti osservati e poi inquadrati alla luce della ragione, senza pregiudizi ideologici come solo uno storico autentico sa fare. Il tutto senza mai rinunciare ai propri più radicati e radicali convincimenti sull’uomo, sull’esistenza e sul mondo che troviamo presenti nella sua opera filosofica Il mosaicosmo.

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L'Opinione delle Libertà


mercoledì 19 aprile 2023

“Umberto II e il referendum del 1946” di Tommaso Romano.




Organizzato da BCsicilia, in collaborazione con l’Accademia di Sicilia, nell’ambito dell’iniziativa “30 libri in 30 giorni”, si presenta, giovedì 20 aprile 2023 alle ore 17,00 presso l’Hotel Joli in via Michele Amari (angolo Piazza Florio), il volume di Tommaso Romano “Umberto II e il referendum del 1946 nella Sicilia che votò Monarchia”.

Dialogherà con l’autore Alfonso Lo Cascio, Presidente regionale BCsicilia. Coordina Antonino Sala. A tutti i partecipanti verrà omaggiata una litografia che ritrae S. M. Umberto II di Savoia, per ricordare il 40° anniversario della scomparsa.

Il libro. Nel diario del marchese Falcone Lucifero sotto la data di martedì 28 maggio 1946 si leggono queste parole scritte a Palermo: «Fin dall‘arrivo in aeroporto si profila una grande accoglienza: reparti schierati in armi, autorità, applausi scroscianti. Così per la strada che conduce fino al Palazzo Reale: la città è tappezzata di manifesti inneggianti al Re. Subito folla sotto i balconi e il Re deve affacciarsi. Il Palazzo Reale è danneggiato dai bombardamenti. […] Poi inizio delle visite cittadine, tra entusiasmo traboccante! Il pomeriggio una manifestazione sotto Palazzo Reale: non so dire quanto saranno: forse 200.000 persone! Anche su, nei saloni una calca indicibile! […]». E’ una testimonianza diretta di quell’entusiasmo con il quale i siciliani accolsero Umberto, da pochissimo divenuto Re dopo il periodo della Luogotenenza, che aveva iniziato una serie di viaggi in tutto il Paese per incontrare gli italiani alla vigilia del referendum istituzionale. Umberto II aveva intrapreso quei viaggi non tanto per motivi connessi alla consultazione referendaria, non intendeva coinvolgere, anche contro la volontà dei suoi consiglieri, l’istituzione che riteneva e voleva al di sopra delle parti, quanto piuttosto per rispettare una tradizione di incontrare gli italiani seguita da tutti i suoi predecessori dopo l’ascesa al trono. L’affetto e la fedeltà dinastica dei siciliani, in particolare, verso il sovrano vennero confermati non soltanto in occasione della sua visita palermitana ma anche in occasione di altre tappe nell’isola.

Proprio alle giornate siciliane di Umberto II nell’imminenza del referendum istituzionale del 1946, ma anche agli avvenimenti precedenti e susseguenti, è dedicato questo lavoro di Tommaso Romano, ricco di materiali inediti ma anche di recuperi di informazioni più o meno volutamente dimenticate. Il saggio attraverso una ricostruzione puntigliosa degli avvenimenti lascia ben comprendere la peculiarità del voto siciliano a favore della Monarchia rispetto a quello di altre zone pure filo monarchiche: una peculiarità certo esaltata dalle accoglienze popolari alla visita di Umberto II che testimoniano dell’affezione verso la Dinastia, ma anche, in qualche misura, legata sia al plurisecolare rapporto dei Savoia con la terra siciliana.

L’autore. Tommaso Romano ha insegnato Filosofia e Scienze Umane nei Licei Statali della sua città ed è stato docente a contratto, per incarico ed invito in Università e Istituti Superiori italiani (Accademia di Belle Arti, Istituto Superiore di Giornalismo, Facoltà di Giurisprudenza di Palermo), tenendo corsi anche all’estero (Belgio a Namur, Inghilterra a Londra, Alexandropulis e Atene in Grecia). Creatore della filosofia del Mosaicosmo, è saggista, poeta, narratore e curatore di testi. Nel 1971 ha fondato e ancora dirige, le Edizioni Thule,  cura la rivista “Spiritualità & Letteratura” e il sito quotidiano online culturelite.com. Ha ricoperto prestigiosi incarichi: Segretario Generale della Fondazione Lauro Chiazzese della Cassa di Risparmio; Vicepresidente della Fondazione Ignazio Buttitta; Presidente dell’ISSPE - Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici; Consigliere della Società Siciliana Storia Patria, Consigliere di Amministrazione della Fondazione Federico II. E’ Presidente Onorario del Museo Etno-Antropologico Mirabile di Marsala; Presidente dell’Accademia di Sicilia e Ispettore Onorario per i Beni Culturali della Regione Siciliana. E’ cittadino onorario di Baucina e Ciminna e Benemerito delle Città di Bisacquino, Burgio e Villafranca Sicula. Fra gli altri riconoscimenti ricevuti da Romano, si ricordano inoltre i premi: Archimede, Vanvitelli, Città di Benevento, Mordini, La Fenice, Mediterraneo, Tito Casini, Giano, Telamone, Epicentro, Cuba Bizantina-Città di Malvagna. Tra le sue pubblicazioni di saggistica vanno ricordate “Finestra sul Cassaro”, “Torre dell‘Ammiraglio. Proposte Tradizionalpopolari nell‘epoca della mondializzazione”, “Oro del Mosaico, dalla Sicilia per fondamenti, pensieri e ritratti”, “Il fare della bellezza”, “Scolpire il vento, Itinerari Metapolitici”, “Tradizione e azione dall’isola del sole”, “Non bruciate le carte”, “Sicilia 1860-1870, una storia da riscrivere”, “Mosaicographia siciliana”, “ Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia”, “Alfredo Fallica ed i convegni a Palermo su Nietzsche 1976-2001”.

Per informazioni: Email segreteria@bcsicilia.it - Tel. 346.8241076.

 

''Umberto II e il referendum del 1946'' di Tommaso Romano - Palermomania.it

C.S. Palermo, iniziativa di BCsicilia “30 libri in 30 giorni”: si presenta il volume “Umberto II e il referendum del 1946” di Tommaso Romano. (agenparl.eu)


martedì 18 aprile 2023

L'Unione Monarchica Italiana a sostegno del candidato Enrico Trantino

 Il nome di Trantino è famoso per noi monarchici.

Lo staff

Enrico Trantino


A parlare è l'avvocato Michele Pivetti Gagliardi, vice presidente nazionale dello storico sodalizio che l'anno prossimo taglierà il traguardo degli 80 anni dalla fondazione e che conta migliaia di iscritti su tutto il territorio nazionale.

L'Unione Monarchica Italiana esprime la piena soddisfazione per la candidatura dell'Avv. Enrico Trantino alla carica di sindaco di Catania". A parlare è l'avvocato Michele Pivetti Gagliardi, vice presidente nazionale dello storico sodalizio che l'anno prossimo taglierà il traguardo degli 80 anni dalla fondazione e che conta migliaia di iscritti su tutto il territorio nazionale.

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L'Unione Monarchica Italiana a sostegno del candidato Enrico Trantino (cataniatoday.it)

domenica 16 aprile 2023

“Fedeli alla Monarchia e devoti alla terra”


Venerdì a Cagliari alla Fondazione di Sardegna Roberto Ibba presenterà il suo libro. L’evento è tra le anteprime del Festival Premio Emilio Lussu

Cagliari. Venerdì 14 aprile, alle 17.30, nella Sala della Fondazione di Sardegna in via San Salvatore da Horta 2, a Cagliari, lo storico Roberto Ibba presenta il libro “Fedeli alla Monarchia e devoti alla terra. La nascita di una classe dirigente in Sardegna”, pubblicato lo scorso anno con Franco Angeli Editore.

Assieme all’autore interverranno Gian Giacomo Ortu, già ordinario di Storia moderna all’Università di Cagliari, e Giampaolo Salice, professore associato di Storia Moderna nello stesso ateneo. L’iniziativa è inserita tra le anteprime della IX edizione del Festival Premio Emilio Lussu. L’ingresso è libero e gratuito.

Il volume indaga sulla nascita della classe dirigente in Sardegna, mettendo in connessione la storia del territorio con la costruzione genealogica e patrimoniale dei principali gruppi familiari nella baronia di Monreale.

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“Fedeli alla Monarchia e devoti alla terra” - SARdies.it

Capitolo XXXVII: Il fiume amico.

 



 di Emilio del Bel Belluz

La malattia di Ludovico finalmente ebbe termine, dopo una settimana di riposo forzato riprendemmo la via del fiume. Eravamo arrivati a primavera inoltrata e le giornate erano sempre più calde e più ricche di ore di luce. Una delle mie passioni era quella di osservare gli alberi e la vegetazione che nascevano spontanei lungo le rive: un vero miracolo della natura. Gli alberi erano delle nuvole di vari colori. Il freddo dell’inverno era un ricordo lontano. Una cosa era certa, dopo tanti anni che lavoravo immerso nella natura, rimanevo sorpreso nel vedere sempre dei nuovi scorci. Il colore del fiume non era mai eguale, dopo piogge abbondanti, le sue acque da limpide diventavano limacciose. Non sarebbe stato facile riproporre su una tela i suoi mille colori. Mi soffermavo tuttora ad ammirarlo a lungo, come lo vedessi per la prima volta e ciò mi rasserenava l’animo. Da bambino il fiume era il mio migliore amico, sempre fedele e presente. Quando avevo un dispiacere, correvo al fiume per confidargli le mie pene; ero convinto che mi potesse ascoltare e che mi desse la forza per superarle. Una volta non lontano da casa mia c’era una casa colonica che era stata abbandonata dai suoi abitanti perché il fiume ogni tanto l’invadeva. Solo una signora anziana non aveva voluto abbandonare la casa, anche se i figli, dopo la morte del padre, s’erano trasferiti in un paese vicino, lasciandola sola. L’anziana donna si chiamava Rosa e da tempo aveva superato gli ottant’ anni. In molti si erano recati da lei per convincerla ad andarsene, ci aveva provato anche il vecchio prete, ma non c’era stato nulla da fare. Quando il curato era andato a casa sua aveva detto che non se ne sarebbe andata che dopo morta. Al vecchio parroco aveva detto che in un giornale aveva letto di una donna che alla morte del marito era rimasta nella sua casa lungo il fiume Mississipi a tener vivo i ricordi della sua famiglia. Il marito era sepolto poco lontano da casa, in una tomba al limitare del bosco. Rosa non aveva mai avuto paura la solitudine perché, a suo dire, quelli che hanno fede non temono niente. La donna aveva mostrato al parroco un posto dove il marito aveva issato una croce in legno, dove ogni giorno, appena sveglia, andava a pregare. Quel luogo era per lei sacro, e mai avrebbe potuto abbandonarlo. Quella croce l’aveva confortata nelle tante avversità. Il parroco l’aveva lasciata alle sue convinzioni, aveva compreso che niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea. La donna nell’accompagnarlo gli chiese il favore di venire a recitare il S. Rosario davanti alla croce, almeno una volta all’anno. Il vecchio curato acconsentì a questa richiesta che fu esaudita fino alla fine della vita di Rosa. Quando la donna morì, il parroco disse che quella croce doveva rimanere dove si trovava, a testimonianza di una grande fede. Ogni anno, in quel luogo, la gente del paese si recava a pregare, e veniva ricordata la donna che aveva resistito al fiume e agli uomini. La casa con il tempo crollò e diventò preda della natura, ma quella croce svettava ancora, a testimonianza che quando si lascia qualcosa di sacro, esso resiste al tempo. In quel luogo molte persone vi avevano portato dei rosari, segno che chiedevano a Dio una grazia. Ripresi la via del fiume, e andai con il mio amico nei pressi della croce che si poteva ammirarla dalla riva. Talvolta vi calavo le reti in quel posto tranquillo e riuscivo a catturare dei pesci piuttosto grandi. Questo lo facevo nei periodi dell’anno in cui avevo più bisogno di guadagnare. Ad ogni pescata dicevo che era merito di quella croce a cui rivolgevo le mie preghiere. Ludovico condivideva quello che dicevo di quel posto, piaceva anche a lui, perché aveva la mia stessa fede. I giorni che seguirono furono lieti, la pesca era stata abbondante e la vita in famiglia era serena. Ludovico appariva il più fortunato di tutti. Stava vivendo il periodo più magico della vita: l’innamoramento. Una mattina mi disse che voleva andare a Treviso a vedere il Duce che veniva a parlare alla popolazione. Avrebbe voluto salutarlo romanamente e sperava di potergli raccontare che la sua gamba l’aveva perduta in guerra e che si sentiva onorato di aver combattuto tra le fila dei carlisti. Quando accennava a queste cose si commuoveva, sui suoi occhi si poteva vedere la sincerità dei suoi ideali. La guerra gli era rimasta dentro, sentiva il cuore battere più forte quando recitava la preghiera del Requeté Carlista. “ La morte del giusto è il principio della vita. La morte sul campo di battaglia è la morte ideale delle grandi anime. Se l’ora della morte si avvicina, resta tranquillo, affidati alla misericordia divina. Non temere nulla, riposa nella Pace di Cristo, come colui che dorme, poiché chi muore in Dio riposa in pace”. Ludovico era felice di recitarmi questa preghiera, l’aveva imparata a memoria nei momenti in cui si trovava sul letto di dolore in Spagna. Gliela aveva fatta conoscere una suora che lo aveva assistito, e gliela aveva scritta su un libro che teneva sempre vicino. In quei momenti, in cui il male lo perseguitava, la fede gli fu di enorme aiuto. Quando uscivamo per andare a pescare, salendo in barca, si faceva il segno della croce, chiedendo l’aiuto del buon Dio.

lunedì 10 aprile 2023

L'estate di Vittorio Emanuele III

Luglio-Ottobre 1943



 

di Aldo A. Mola 

Vittorio Emanuele III, Re costituzionale...

Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto,28 dicembre 1947), Re d'Italia dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946, svolse ruolo eminente nell'estate del 1943. Sostituì Benito Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, avviò le trattative per ottenere l'armistizio dalle Nazioni Unite e si trasferì con il governo da Roma a Brindisi per guidare la riscossa. In migliaia di opere su quelle vicende, fondamentali non solo per la storia d'Italia, è ricordato quale spettatore o al traino di decisioni altrui. A ottant'anni dagli eventi giova ripercorrere sinteticamente quanto avvenne per dare a ciascuno il suo.

   In premessa va ricordato il sistema dei poteri fondato sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto Re di Sardegna e adottato dal regno d'Italia alla sua proclamazione il 14 marzo 1861. Capo dello Stato, il sovrano aveva il comando delle forze armate, con facoltà di conferirne l'esercizio in caso di guerra. Nominava i ministri, responsabili dell'esecutivo, mentre il legislativo era “collettivamente esercitato dal Re e da due Camere”: il senato, di nomina regia e vitalizia, e quella dei deputati, elettiva.

   Il 30 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare il governo di coalizione costituzionale. Il 31 i ministri giurarono e presero ordinatamente le consegne dai predecessori; l'indomani s’insediarono. Il 17 e il 29 novembre le Camere votarono la fiducia a straripante maggioranza. Per assicurare la stabilità del governo dopo anni di crisi causate dalla “maledetta proporzionale” (definizione di Giolitti), il 18 novembre 1923 il Parlamento approvò la legge che tributò due terzi dei seggi al partito che ottenesse il 25% dei voti. Alle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista incardinata sul Partito nazionale fascista (PNF) ottenne il 66% dei voti e i due terzi dei seggi che le sarebbero spettati anche senza quella riforma. Però i deputati iscritti al PNF (molti solo di recente) risultarono appena 227 su 535. Una minoranza. Gli altri erano “fiancheggiatori”, spesso tiepidi. Tuttavia nel 1925-1927 quella camera, col senato al seguito, varò le leggi cosiddette “fascistissime”: scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione, soppressione dei loro giornali, decadenza dei deputati “assenteisti”, introduzione della pena di morte per attentati contro i Reali, il capo del governo e lo Stato, sostituzione dei consigli comunali e provinciali con podestà e presidi di nomina governativa. A coronamento del regime di partito unico, il 17 maggio 1928 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta da Alfredo Rocco. La compilazione della lista di 400 deputati, da votare o respingere in blocco, spettò al Gran consiglio del fascismo, regolamentato il 9 dicembre 1928 da una legge che, contrariamente a quanto solitamente si afferma, non ebbe alcun potere sulla successione al trono.

   L'11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri sottoscrissero i Patti Lateranensi tra il regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano, che si riconobbero a vicenda, mettendo fine alla “questione romana” aperta nel 1870 con l'annessione di Roma e del Lazio. Alle elezioni del 24 marzo 1929 il PNF ottenne quasi il 99% dei voti, un successo replicato nel 1934 (99,8%). A conclusione della conquista dell'Etiopia, il 9 maggio 1936 fu proclamato l'Impero. Con l'annessione dell'Austria da parte di Adolf Hitler l'Italia confinò con la Germania. Suggestionati dal nazionalsocialismo molti fascisti ritenevano sempre più ingombrante la monarchia. Lo diceva anche il duce, sia pure in privato.

 

...assediato dai fascisti repubblicani.

Nell'aprile 1938 Vittorio Emanuele III subì l'affronto della nomina a primo maresciallo dell'Impero, titolo dal Parlamento conferito a Mussolini. Come Re non ne aveva alcun bisogno. Avverso a ogni forma di “razzismo”, nel dicembre 1938 emanò le leggi razziali perché approvate dalle Camere. A differenza della Costituzione della Repubblica, lo statuto non prevedeva il rinvio delle leggi con parere motivato, né pubbliche riserve. Se, per non firmarle, egli avesse abdicato avrebbe messo suo figlio Umberto di fronte allo stesso bivio. Se anche questi avesse abdicato e nessun principe sabaudo avesse accettato la Corona per non firmare quelle leggi, a norma dello statuto le Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un Reggente (verosimilmente Mussolini), incarica sino al 1955, quando Vittorio Emanuele principe di Napoli avrebbe raggiunto l'età per regnare. Più nessuno avrebbe arginato chi puntava a liquidare la monarchia.

   Dal 1939, tramite Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, il sovrano tastò la disponibilità di gerarchi (a cominciare da Galeazzo Ciano, insignito dell'Ordine della SS. Annunziata dopo l'annessione dell'Albania) a un “cambio di rotta” per evitare che l'Italia finisse succuba della Germania. Tutti si defilarono. In assenza di interlocutori, non gli rimase che avallare il governo Mussolini all'apogeo del consenso, dal “patto di Acciaio” alla neutralità (settembre 1939) e all'intervento in guerra del 10 giugno 1940, deliberato anche per propiziare la resa della Francia e scongiurare l'irruzione dei tedeschi irrompessero nel  “Midi”, come avvenne nel novembre 1942.

 

L'iniziativa del Re: revocare Mussolini...

Dall'inizio del 1943, fallita l'aggressione alla Grecia nell'ottobre 1940, perduta l'intera Africa Orientale nel 1941, dopo la ritirata dalla Libia e dal fronte del Don nell'Unione sovietica (1942), la sconfitta dell'Italia era ormai ineluttabile. Il cosiddetto patto Roma-Berlino-Tokyo non funzionava affatto per la perdurante pace tra il Giappone e l'Unione sovietica. In assenza di iniziative di Mussolini per un armistizio separato, Vittorio Emanuele III mirò a salvare l'Italia dalla debellatio e dalla sua spartizione tra i vincitori, ventilata dalla Gran Bretagna. Si valse dell'unica leva sicura: alcuni generali e i carabinieri, capaci di operare secondo i due canoni necessari: segretezza ed efficienza. L'urgenza dell'azione fu dettata dallo sbarco degli anglo-americani in Marocco e Algeria (novembre 1942), dal loro ormai indiscutibile dominio sul Mediterraneo, dalla forzata resa dell'ultimo bastione dell'esercito in Tunisia, agli ordini del maresciallo Giovanni Messe (maggio 1943), dalla “fronda” insorgente all'interno dei gerarchi dopo il vasto rimpasto di ministri attuato da Mussolini in marzo, fonte di diffusi malumori ai vertici del regime e senza speciale vantaggio per il “fascismo”, e, infine, dall'assalto anglo-americano alla Sicilia (10 luglio), completo di atti criminosi contro la popolazione civile.

   A Dino Grandi, decorato del Collare della SS. Annunziata, il Re confidò di aver bisogno di un voto del Gran consiglio del fascismo, come fosse una “terza Camera”. Il bombardamento di Roma in coincidenza con il fallimento dell'ennesimo incontro Mussolini-Hitler (19 luglio) impose l'accelerazione. Quando lesse l'ordine del giorno Dino Grandi-Luigi Federzoni-Giuseppe Bottai, pervenutogli tramite Cesare Maria De Vecchi (mentre il massone Domenico Maiocco lo fece avere a Ivanoe Bonomi, capofila degli antifascisti), il Re constatò che i gerarchi si limitavano a chiedere al duce di deporre il comando della guerra senza però rimuoverlo da capo del governo né intaccare il regime.

   Mentre i partiti antifascisti e i più rappresentativi esponenti del pre-fascismo erano ancora pressoché irrilevanti nel Paese e agli occhi dei nemici, Vittorio Emanuele III passò all'azione. In un colloquio di venti minuti a Villa Savoia, poco dopo le 17 del 25 luglio 1943, comunicò al duce la revoca da capo del governo. “Fermato” (non “arrestato”) e sorvegliato in una caserma di carabinieri, Mussolini si dichiarò disponibile a collaborare. La somma dei decreti in pochi giorni emanati da Badoglio e i Verbali del governo (pubblicati a cura di Aldo G. Ricci) indicano la lunga preparazione sottesa al “cambio” e sfatano la leggendaria incertezza del sovrano tra Badoglio e il maresciallo Enrico Caviglia, lontano dalle leve del potere e privo dei necessari riservatissimi contatti internazionali. Lo stesso vale per le misure adottate dal capo di stato maggiore dell'Esercito, Mario Roatta, per reprimere manifestazioni che dall’esultanza potevano volgere in insorgenza sia di sovversivi sia di fautori del “duce”, come narrò anche il partigiano monarchico Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1960). Gli anglo-americani (e non solo essi) constatarono che il governo controllava l'ordine pubblico e smantellava il regime. Aveva dunque i requisiti per eseguire le condizioni che da sin dal Memorandum di Quebec (18 agosto 1943) gli anglo-americani avevano prospettato per concedere all'Italia di uscire dalla guerra. Non tutte le decisioni di Badoglio risultarono lungimiranti. In particolare, lo scioglimento completo della Camera dei fasci e delle corporazioni, dalla quale sarebbe bastato escludere i soli fascisti, inceppò il regime bicamerale e sovraespose il re.

 

...e ottenere di arrendersi per salvare lo Stato

  Il 12 agosto il generale Giuseppe Castellano  partì da Roma alla volta di Lisbona per contattare l'Alto comando anglo-americano e avviare e trattative armistiziali. Vi giunse il 16 previo incontro a Madrid con l'ambasciatore britannico Samuel Hoare, che dal 1917 era stato alcuni anni tenente colonnello nel servizio segreto militare inglese a Roma.

   Contro i calcoli del governo italiano, d'intesa con l'Unione sovietica gli anglo-americani avevano approntato da tempo lo strumento immodificabile di resa dell'Italia “senza condizioni”. Esso fu consegnato in forma sintetica al generale Castellano e nel testo “lungo” al generale Giacomo Zanussi che, ignaro della missione del collega, a sua volta raggiunse Lisbona il 25. Al rientro di Castellano a Roma, dopo rapida valutazione l'“armistizio breve” obtorto collo fu accettato. Al termine di febbrili consultazioni Castellano lo sottoscrisse il 3 settembre a Cassibile (Siracusa). Preludio alle ulteriori durissime condizioni (sottoscritte da Badoglio il 29 settembre sulla nave inglese “Nelson”, ancorata a Malta), lo strumento di resa riconosceva il “governo del re” e quindi lo Stato incardinato sulla Corona. Il generale Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, si riservò la data della pubblicazione. A Roma perdurò la convinzione che sarebbe stato proclamato il 12 (in una lettera privata Badoglio accennò addirittura al 16). Esso invece fu imposto da Algeri l'8 settembre, quando il governo era ancora impreparato ad affrontare la prevedibile reazione della Germania. Dopo vivace discussione, presenti le cariche militari supreme e il maggiore Luigi Marchesi, il Re concluse: “Adesso sappiamo” (Angelo Squarti Perla, Le menzogne di chi scrive la storia, ed. Gambini, 2023). In poche ore, di concerto con Vittorio Emanuele III, il Re Badoglio provvide al necessario per mettere al sicuro la famiglia reale, il governo, il comandante supremo Vittorio Ambrosio e i capi di stato maggiore delle tre Armi.

    Il Re rifiutò la proposta di riparare su una nave degli Alleati (“territorio” dei vincitori). In assenza di alternative praticabili (raggiungere la Sardegna via nave in partenza da Civitavecchia), fu allestito il trasferimento in auto da Roma verso Pescara, via per Tivoli-Avezzano. Sulle 5 di mattino del 9 settembre la vettura del Re partì per prima con lo stendardo del Capo dello Stato. Le altre (con Badoglio, il principe ereditario Umberto, la Regina e il loro seguito) si accodarono alla spicciolata. Tutto fu tranne una “fuga”. Un fuggiasco non percorre strade ordinarie né innalza le sue insegne. Il governo conferì il comando di Roma (“città libera” dall'agosto, essa comprendeva lo Stato della Città del Vaticano) al generale Giorgio Calvi di Bergolo, genero del sovrano, poi autorizzato a stipulare la resa ai tedeschi soverchianti. Nel pomeriggio del 9 il Re presenziò all'aeroporto di Pescara al consulto tra Badoglio e i vertici militari per concertare la meta, fissata nella Puglia, non ancora raggiunta dagli anglo-americani ed ove erano in corso duri combattimenti di reparti italiani contro i germanici, costretti dall'eroico generale Nicola Bellomo a ritirarsi da Bari. Verso le 23 dal molo di Pescara la famiglia reale si imbarcò sulla corvetta “Baionetta”, giunta da Ortona con Badoglio già a bordo. Scortata dall'incrociatore “Scipione Africano”, essa proseguì verso un porto sicuro, durante la navigazione individuato in Brindisi.

   All'arrivo Vittorio Emanuele III lanciò un appello agli italiani. Il governo si insediò, sia pure in condizioni molto precarie. Gli Alti Comandi trasmisero direttive non sempre recepite né rilanciate dai destinatari, in via di dissolvimento.

 

Il Re trasmise i poteri ma serbò la Corona

Conclusa l'occupazione della Sicilia e intrapresa quella della Calabria, allo sbarco nella piana di Salerno gli anglo-americani furono tenacemente fronteggiati dai germanici. Con una spericolata operazione il 12 settembre il maggiore delle SS Otto Skorzeny prelevò Mussolini dall'Albergo Imperatore sul Gran Sasso e lo trasferì in Germania, cespite dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana. Dopo il “suicidio” del Maresciallo Ugo Cavallero, suo ospite a Frascati, il maresciallo tedesco Kesselring ottenne da Rodolfo Graziani di porsi a capo di un esercito repubblicano mentre non solo nel Mezzogiorno reparti fedeli al giuramento al Re si battevano contro gli occupanti.

   Gli anglo-americani tennero una condotta ambigua nei confronti di Vittorio Emanuele III. Da un canto ne avevano bisogno perché era il perno dello Stato (diplomazia, forze armate...) e garantiva l'esecuzione delle condizioni di resa. Dall'altro, anche dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia contro la Germania (13 ottobre), ostacolarono la riorganizzazione del regio esercito, intrapreso tra grandi difficoltà e giunto nondimeno ad assumere veste di Raggruppamento Motorizzato, fulcro dei futuro Corpo Italiano di Liberazione e di sei Gruppi di combattimento. Il colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo assunse il comando del Fronte militare clandestino. Arrestato e seviziato nella prigione di via Tasso, fu ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come altri militari, antifascisti, ebrei, massoni e detenuti comuni. Il Re e il principe Umberto passarono ripetutamente in rassegna reparti dell'Esercito, riorganizzato da Giovanni Messe, rilasciato dagli inglesi su sollecitazione di Vittorio Emanuele III che lo aveva avuto aiutante di campo. Al di là di fanti, marinai e avieri, dei carabinieri e della pubblica sicurezza, circa 400.000 militari italiani concorsero alla guerra di liberazione.

   Ottenuto il riconoscimento dell'Italia quale “cobelligerante” e consolidate le relazioni internazionali anche con l'Unione sovietica, il governo Badoglio non ebbe la collaborazione del Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dall'agosto 1943 e presieduto da Ivanoe Bonomi. Gli alleati, soprattutto gli statunitensi, ventilarono l'abdicazione immediata del Re, la rinuncia al trono del principe ereditario, il passaggio della corona al nipote, di appena sette anni, e la nomina di un Reggente (nella persona di Badoglio?). Tali proposte furono inizialmente condivise da Benedetto Croce e da Carlo Sforza, repubblicano veemente benché collare della SS.Annunziata e senatore del regno come gli rinfacciò Camillo Canciani in Vittorio Emanuele III fu complice del fascismo? (Roma, 1945). Esse furono fermamente respinte dal Re. Sgarbatamente pressato dagli Alleati, il 12 aprile 1944 il sovrano annunciò che avrebbe trasmesso tutti i poteri al principe ereditario, ma in Roma, quando fosse liberata. Tenne per sé la Corona.

   Il 22 aprile fu costituito il secondo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti del CLN. Alla presenza del Re i ministri giurarono sul proprio onore di servire l'Italia. Non mantennero la promessa di osservare la “tregua istituzionale”. Fecero anzi di tutto per oscurare il sovrano e suo figlio, Luogotenente del regno dal 5 maggio 1944. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto con la regina Elena, cittadino di pieno diritto dell'Italia che aveva salvato dalla catastrofe. Si congedò dalla vita quattro giorni prima che la Costituzione della Repubblica lo condannasse all'esilio. 

   Il repentino crepuscolo del sovrano e della monarchia fu tutt'uno con quello dell'Italia, a vantaggio dei vincitori che conseguirono l'obiettivo col trattato di pace del 10 febbraio 1947: cancellarla dal novero delle maggiori potenze, quale si era affermata negli ottanta anni dalla proclamazione del regno. Vi fu (e vi è) poco da gioirne, come poi disse Croce alla Costituente contro la ratifica dell'umiliante diktat imposto all'Italia, con la drammatica mutilazione dei suoi confini, soprattutto sul fronte orientale, raggiunto con grande sacrificio nel 1918-1924.

mercoledì 5 aprile 2023

Il principe anti Cavour che fu più realista del Re


1 Aprile 2023 - 11:52

Ecco gli aforismi del ministro degli Esteri di Carlo Alberto, Clemente Solaro della Margarita. Fu reazionario legittimista. Ma anche pragmatico e fedele

di Francesco Perfetti

Salvator Gotta autore di opere popolari come Il piccolo alpino e Ottocento talora tradotte in pellicole o in sceneggiati televisivi fu un narratore prolifico specializzato nel romanzo storico. Lo ricordo con affetto e un pizzico di nostalgia perché, sul finire degli anni settanta, lo convinsi, lui ormai ritiratosi a Rapallo, a riprendere la penna in mano e a collaborare a un quotidiano. Era un monarchico «assolutista»: aveva fatto parte di una Colleggiata di scrittori monarchici creata da Giuseppe Brunati attorno al periodico reazionario Il Principe. Molti suoi romanzi, per i quali si documentava con scrupolo maniacale, facevano rivivere l'atmosfera del Risorgimento. Uno di questi, Addio vecchio Piemonte!, aveva per protagonista il principe Clemente Solaro della Margarita che fu ministro degli Esteri di Carlo Alberto ma che non ebbe, dal punto di vista storiografico, una grande fortuna perché liquidato come «reazionario».

 

Il ritratto, fisico e morale, che ne fece Gotta è vivace e suggestivo: «non alto, ma di tratti fini; castani scuri i capelli, pallido, cilestri e pensosi gli occhi, volitivo il naso alquanto arcuato, bella la bocca ed il sorriso tra l'ironico e il bonario; belle e arcuate le mani su cui metteva una nota di fiamma la corniola stemmata che portava al dito; fine, sagace, pronto, elegante, leggere basette gli davano quell'aspetto di sognatore, di sentimentale di moda a quel tempo». Era anche su questo punto le testimonianze anche di chi, come Massimo d'Azeglio, si trovò con lui a dover discutere un uomo gradevole e affabile. Ma le sue idee erano tutt'altro che moderne e nulla concedevano al liberalismo ottocentesco e ai «tempi nuovi».

[...]


Il principe anti Cavour che fu più realista del re - ilGiornale.it

domenica 2 aprile 2023

Capitolo XXXVI: La malattia di Ludovico




 di Emilio Del Bel Belluz

 

 Per due giorni non vidi Ludovico, e non mi aveva avvertito della sua assenza. Ma questa volta decisi di non andare a cercarlo, non volevo trovarmi nella situazione che avevo già vissuto in passato, alla quale spesso mi capitava di pensare. Al caro Ludovico avevo dato molte possibilità, ma ora non potevo concederne altre. Al secondo giorno di assenza ne parlai con Elena che apparve molto pensierosa, magari al giovane poteva essere accaduto qualcosa di grave e non aveva potuto avvertire. Elena era sempre stata una persona molto buona ed altruista; per lei le persone non erano mai fino in fondo cattive. 

A suo avviso Ludovico era una persona della quale ci si poteva fidare, soprattutto ora che aveva trovato un certo equilibrio, grazie al suo amore ricambiato per Serena. Allora decisi che sarei andato a trovarlo perché essendo solo e se fosse stato colto da un malore, nessuno lo avrebbe saputo. Quando giunsi alla sua casa, vidi le imposte aperte. Questa volta non urlai come avevo fatto la scorsa volta. Bussai solo alla porta e dopo poco mi venne ad aprire. Il suo volto era pallido come quello di un cencio, peggio della volta scorsa, ma nella casa non c’erano bottiglie di vino vuote. Mi spiegò che non era venuto al lavoro perché aveva la febbre altissima, e si reggeva a stento in piedi. 

Queste parole mi rasserenarono e lo accompagnai a letto. La stanza era molto pulita, e la casa era diventata più accogliente; sicuramente c’era stato l’intervento di una donna e pensai a Serena. Invece mi spiegò che dopo averla incontrato si mise subito a riordinare la sua casa, impiegandoci alcuni giorni, voleva che diventasse ospitale per accoglierla un domani non molto lontano.  Ludovico raccontò che in casa non aveva nessuna medicina che lo potesse aiutare; perché dal suo rientro in Italia era sempre stato bene. Allora mi sedetti accanto al letto e gli dissi che non me la sentivo di lasciarlo solo, e che lo avrei ospitato nella mia casa. Ludovico si sentì subito rasserenato; qualcuno si sarebbe occupato di lui e la solitudine dei giorni precedenti sarebbe scomparsa. Lo aiutai a raccogliere delle cose per utilizzarle nei prossimi giorni. Nella borsa vi mise anche alcuni libri e un quaderno dalla copertina nera, di quelli che si usavano nel periodo scolastico. Faticai moltissimo per aiutarlo a camminare e raggiungere la mia casa. 

Quando ci arrivammo, Ludovico era esausto dallo sforzo compiuto ma il suo cuore sobbalzò di gioia quando vide che ad attenderlo c’era la bella Serena che gli venne incontro. Ludovico fu accompagnato nella stanza dove lo attendeva un letto comodo. Serena rimase con lui, da soli, perché aveva tante cose di cui parlargli. La sua presenza aveva ravvivato il giovane che, nei due giorni in cui era stato solo, aveva sognato mille volte di vederla. Genoveffa gli preparò qualcosa di caldo e gli mise dentro un liquido fatto di erbe aromatiche che potevano aiutarlo a sfebbrarsi. Era una pozione che gli aveva insegnato una sua zia, che aveva delle nozioni di fitoterapia. Questa zia curava ogni malattia con le erbe che trovava nel bosco, e questi suoi decotti erano davvero molto efficaci. Quel giorno Serena passò molte ore del suo tempo accanto a Ludovico, la febbre non era ancora scesa, anzi verso le cinque di sera era aumentata quasi a raggiungere i 39 gradi. Ludovico aveva detto mille volte a Serena che era felice che gli fosse accanto, gli sembrava d’essere in paradiso, non si sentiva degno di tutte le cure prodigate nei suoi confronti. Serena cercava di tranquillizzarlo e nel rassicurarlo che sarebbe guarito, tenendogli la mano.  In quei giorni Ludovico comprese l’importanza della famiglia, di avere delle persone che ti volessero bene.  

Nelle molte ore che passò nella nostra casa ebbe modo di raccontare la sua vita a Serena, specialmente il periodo molto difficile in cui era stato in Spagna a combattere. Le raccontò il motivo della sua scelta: il voler stare dalla parte di quelli che combattevano per il Re, per la Patria e per Cristo e della paura di morire in terra straniera che lo attanagliava sempre. Ludovico nella sua esposizione si commosse; gli venivano alla mente i camerati che erano caduti per la causa contro il comunismo. Un pomeriggio, finalmente, la febbre scomparve, come ebbe modo di accertare Serena appoggiando il palmo della mano sulla sua fronte. Lentamente stava recuperando le forze, e Genoveffa lo aveva incoraggiato ad alzarsi per andare a mangiare in cucina e Ludovico, anche se con qualche difficoltà, riuscì nell’intento. Una sera lesse a Serena un episodio sulla guerra civile spagnola pubblicati nel libro che aveva portato da casa, dal  titolo Spagna processo: “ La fede sosteneva questi eroi. 

Il 24 settembre, festa di Nostra Signora della Merced, liberatrice dei prigionieri, giorno in cui ricevettero la notizia del prossimo arrivo dell’esercito liberatore, per 24 ore ininterrottamente recitarono il Rosario a turno, e si legge nel Diario che essendo questa invocazione spagnola di una tradizione molto adeguata alle presenti circostanze e non avendo Cappella, recitavano il Rosario quante volte potevano negli alloggiamenti. “Eravamo tutti convinti – dice il tenente Colonnello Romero – di aver con noi l’aiuto di Dio. Il giorno della prima esplosione restò intatta l’immagine dell’Immacolata che era nell’Accademia. Vero miracolo, non fu nemmeno scalfita dalle schegge, né dalle macerie. Essa è stata la nostra protettrice.  A Toledo la chiamano ora con il nome che noi le demmo: Nostra Signora dell’Alcazar”.  Angelo dell’Alcazar era chiamato Antonio Rivera presidente della Gioventù Cattolica di Toledo. Questo pio giovane con altri soldati di ugual tempra compose, durante l’assedio, questa magnifica preghiera a Nostra Signora: “A te ricorriamo, Madre e Signora, perché tu faccia fiorire nei nostri cuori la ferma risoluzione di ricavare frutti veramente spirituali della prova che stiamo soffrendo …  Proponiamo   fermamente di perseverare in spirito veracemente cristiano nelle virtù che qui abbiamo appreso e approfondito… Vogliamo compiere serenamente e generosamente i doveri di cittadini e cooperare al rinnovamento della Spagna. Prega per noi perché arda in noi un fuoco Santo di amore per i nostri nemici e perché tutti gli Spagnoli si uniscano fraternamente con il solo scopo del bene e della Patria, illuminati soltanto da questa luce: la fede dei nostri avi nella dottrina di Cristo e della Sua Chiesa . 

Così sia “. Ferito e mutilato dai proiettili, il cardinale di Toledo che lo visitò gli chiese: “Come farai, Antonio, quando nei tuoi discorsi di propaganda l’ardore del tuo animo esiga che tu agiti le braccia, se te ne manca una?”.  “Mostrerò al mio uditorio con l’altro braccio il moncone che mi ha lasciato la bomba che mi ha colpito – rispose con un franco sorriso – e sarà il più eloquente discorso che potrò mai fare”. La mattina della liberazione il primo atto fu una Messa celebrata in quella catacomba”. Ludovico volle continuare a leggere altri due episodi, scritti su Famiglia Cristiana dell’11 luglio 1937. Il primo di questi racconta il testamento di un soldato italiano caduto in Spagna:” Il capo manipolo Luigi Tempini da Pisogne (Brescia) reduce dallAfrica Orientale Italiana, caduto in Spagna ha lasciato il seguente testamento spirituale.  Parto sereno e tranquillo. Spero che il buon Dio mi protegga perché io possa sempre compiere il mio dovere. Sono orgoglioso dopo aver contribuito per la conquista dell’Impero che darà il benessere materiale ai nostri figli, di potere ora contribuire per l’Impero della dottrina che apporterà a tutti i figli la conoscenza del vero e del giusto rendendoli migliori nella pace delle volontà buone. Invito i giovani ad essere generosi d’entusiasmo e di opera per la nostra grande Patria. Se morissi nel compimento del mio dovere desidererei che il mio corpo rimanesse in pace nella terra che vide la mia fede tramutata in azione. Chi mi volesse ricordare elargisca quanto può per beneficenza alle istituzioni fasciste. Che Dio mi tenga in gloria per il premio dell’eternità vicino a mia madre. L’’altro episodio recitava: “Una beffa eroica è stata giocata da un aviatore nazionalista spagnolo a danno del comando rosso. Fingendosi di idee sovversive era entrato al servizio del governo di Valencia. Dopo la caduta di Bilbao egli aveva ricevuto l’ordine di accompagnare un generale russo e cinque ufficiali superiori, di cui uno di nazionalità inglese e gli altri quattro di nazionalità francese da Barcellona a Santander per portarvi gli ordini del Governo di Valencia e per tentare di organizzarvi la resistenza. Una volta in volo, il tenente nazionalista deviò la rotta, e nonostante le minacce dei sei ufficiali atterrò sul campo di Saragozza. Il generale e i cinque ufficiali superiori sono stati fatti prigionieri. In loro possesso venivano pure trovati importanti documenti militari e grandi quantità di biglietti delle banche di Spagna e di Francia”. Ludovico e Serena non riuscirono a trattenere la loro commozione e delle lacrime solcavano il loro volto.

 


sabato 1 aprile 2023

JOSEPH-MARIE DE MAISTRE DUECENTOSETTANTA ANNI DOPO

 



di Gianluigi Chiaserotti 

Ritengo di ricordare Joseph-Marie de Maistre, filosofo, scrittore, uomo politico e soprattutto savoiardo di nascita e quindi sempre fedele alla Monarchia Sabauda ed al suo Re, ma in senso tradizionale ed organico.

Joseph-Marie de Maistre nacque a Chambery il giorno 1 aprile 1753, duecentosettanta anni fa.

Ben presto entrò nella massoneria e fu al servizio della monarchia sabauda, che nel 1802 lo inviò in veste di plenipotenziario a San Pietroburgo al cospetto dello zar Alessandro.

Ambasciatore del re Vittorio Emanuele I presso la corte dello zar Alessandro I (1777-1825) dal 1803 al 1817, poi da tale data fino alla morte ministro reggente la Gran Cancelleria del Regno di Sardegna, de Maistre fu tra i portavoce più eminenti del movimento controrivoluzionario che fece seguito alla Rivoluzione francese e ai rivolgimenti politici in atto dopo il 1789.

Propugnatore dell'immediato ripristino della monarchia ereditaria in Francia, in quanto istituzione ispirata per via divina, e assertore della suprema autorità papale sia nelle questioni religiose che in quelle politiche, de Maistre fu anche tra i teorici più intransigenti della Restaurazione, sebbene non mancò di criticare il Congresso di Vienna, a suo dire autore da un lato di un impossibile tentativo di ripristino integrale dell’”Ancien Régime” (peraltro ritenuto di sola facciata) e dall'altro di compromessi politici con le forze rivoluzionarie.

Il Nostro morì in Torino il 26 febbraio 1821.

 

§ 1. Pensiero ed opere -

Le sue opere più importanti sono Sulla sovranità del popolo (1794), rimasta incompiuta, le “Considerazioni sulla Francia” (pubblicate anonime nel 1796), il “Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre costituzioni” [pubblicato senza che de Maistre lo sapesse nel 1814, a Parigi, dallo scrittore, filosofo e politico Louis de Bonald (1754-1840)], “Sul papa” (1819), le “Serate di San Pietroburgo” (uscite nel 1821, poco dopo la morte dell’autore).

Le travolgenti vicende della Rivoluzione francese apparsero a de Maistre come la più evidente conferma dell’agire della Provvidenza: da un lato, esse sembrano il meritato castigo per una nobiltà e un clero corrotti e, dall’altro lato, la dimostrazione più lampante che la Provvidenza si serve degli uomini (anche dei giacobini) come strumenti per realizzare i propri fini imperscrutabili.

La convinzione di fondo che percorre l’intera riflessione di de Maistre è infatti che gli uomini non siano padroni delle proprie vicende e dei propri accadimenti: ciò pare del resto incontrovertibilmente provato dal fatto che, quando al Rivoluzione raggiunse l’apice della tirannide, ci volle poco per rovesciarla; il XVIII secolo si è presentato come rivolta contro Dio, il quale ha punito questo efferato delitto ritirandosi dalla storia, lasciando fare agli uomini.

Proprio in virtù di ciò “il mondo andò in frantumi”, dice de Maistre.

L’imperdonabile errore commesso dalla filosofia moderna sta nel ritenere che tutto sia bene, mentre in realtà l’uomo è profondamente segnato dalla colpa del peccato originale e, in forza di ciò, nel mondo, dove ogni cosa è stravolta, v’è soltanto violenza, crudeltà, efferatezza, cosicché anche gli innocenti finiscono col pagare per i colpevoli.

Nelle “Serate di San Pietroburgo” il Nostro torna con rinnovato interesse sul problema del male e del dolore, asserendo che il vero male  è imputabile esclusivamente all’uomo, il quale impiega in maniera distorta la propria libertà, mentre il male fisico non è che la conseguenza di tale colpa. E’ soltanto il sacrificio a poter espiare le colpe di cui l’umanità si è macchiata, “in primis” il sacrificio di Cristo, ma poi anche quello degli innocenti che si fanno carico delle colpe e soffrono anche per i colpevoli. L’agire di Dio (che è l’unico e autentico padrone della storia) può apparire dispotico e crudele, ma ciò dipende solamente dalle colpe degli uomini, che rivendicano per se stessi una libertà assoluta.

De Maistre attacca duramente le teorie contrattualistiche e le vane pretese di creare una società nuova, tutte pretese chimeriche della dilagante mentalità illuministica e dei rivoluzionari, che confidavano esclusivamente nella ragion umana.

La conclusione cui de Maistre addiviene è che “il più grande flagello dell’universo è sempre stato in tutti i secoli ciò che chiamiamo filosofia”, ovvero l’umana ragione che agisce autonomamente e, presa da orgoglio, senza accompagnarsi alla fede, giungendo per tale via ad esiti esclusivamente distruttivi. Ne segue, allora, che la costituzione politica non può né deve essere opera dell’uomo e assumere artificiosamente una codificazione scritta, giacché l’uomo non può creare nulla e ciò vale non solo sul piano naturale, ma anche su quello morale e politico. La costituzione è, al contrario, il modo di esistere che un potere superiore (cioè divino) assegna a ciascuna nazione, cosicché il potere non puo’ essere del popolo e l’unico modo di ricostruire la vera sovranità dipende da un potere unico e assoluto. La legge, infatti, è realmente tale se e solo se emana da una volontà superiore, non dalla volontà di tutti o dei più. Sicché la forma naturale di governo (quella che rispecchia il volere divino) è la monarchia, ove al potere del monarca non si possono porre limiti di alcun tipo. In antitesi con quel che credevano i rivoluzionari, il re può essere ucciso ma non legittimamente giudicato. Conseguentemente, la monarchia ereditaria, finalizzata a perpetuare il potere unico e assoluto, è la forma di governo avente la massima stabilità e il massimo vigore.

Nell’opera “Sul papa”, il Nostro accentua esponenzialmente la dimensione teocratica del suo pensiero, arrivando a sostenere l’urgente necessità di ripristinare il primato e la funzione universale che il papato aveva avuto nel Medioevo, in quanto unico potere superiore e infallibile, in grado di impedire alle monarchie stesse di degenerare in tirannidi e di ricostruire l’unità che è bene (di contro alla divisione, che è sempre male).

Lo scritto “Sul papa” (pubblicato nel 1819, in pieno clima di restaurazione)  ebbe grande successo, a tal punto da avere cinquanta edizioni nel corso del XIX secolo: di fronte allo spettacolo della carneficina prodotta dalla Rivoluzione francese e, più in generale, dalla storia, paragonata a un immenso “mattatoio” [Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) stesso ricorre a CODESTO paragone], quand’è affidata alla sola ragione umana, de Maistre presenta come unico salvifico rimedio il ripristino di un’autentica autorità indivisa, al di sopra dei monarchi stessi: il papa. Senza il papa, il cristianesimo stesso si riduce ad una credenza fra le tante, priva di potenza: il papa serve per mantenere l’unità della cristianità, anche nelle zone più periferiche. Non a caso de Maistre lo paragona al Sole nel sistema dei pianeti, che tutto illumina e tutto alimenta: è “il grande demiurgo della civiltà universale”, in cui l’autorità spirituale infallibile e la sovranità temporale fanno tutt’uno. Una pari importanza alla figura del papa in sede politica sarà ammessa anche da Vincenzo Gioberti (1801-1852) (anch’egli operante a Torino), che - nel 1842 – con lo scritto sul “Primato civile e morale degli italiani prospetta come soluzione della questione italiana una confederazione di Stati, governati ciascuno dal proprio principe, sotto la guida morale del papa (il neoguelfismo): l'opera del risorgimento é opera di educazione, bisogna promuovere un'altissima aspirazione idealistica, un ritorno alle tradizioni e ai valori, che in Italia sono quelli del cattolicesimo,  ristabilire  il dominio di quell'Idea, che in Italia sede del papato, ha la sua naturale dimora.

 

§ 2. Qualche pensiero

Il potere deve essere assoluto”. Contro la concezione democratica del potere fondato sulla volontà del popolo, Joseph de Maistre ripropone la teoria del potere che viene da Dio, e in quanto tale assoluto e infallibile. Si noti la vicinanza con la dottrina di Thomas Hobbes (1588-1679): il potere deve essere assoluto o non può esistere.

Dal suo “Del Papa”:

«Che non si è mai detto dell’infallibilità considerata sotto l’aspetto teologico!

Sarebbe difficile aggiunger nuovi argomenti a quelli che i difensori di quest’alta prerogativa hanno accumulato per appoggiarla sopra autorità incrollabili, e levarle d’attorno i fantasmi di cui l’han cinta i nemici del cristianesimo e dell’unità, nella speranza di renderla, se non altro, per lo meno odiosa. Ma io non so se per questa grande questione, come per tante altre, sia stato abbastanza notato che le verità teologiche sono semplicemente delle verità generali, manifestate e divinizzate sul piano religioso, di modo che non si potrebbe assalirne una senza assalire anche una legge mondiale.

L’infallibilità nell’ordine spirituale, e la sovranità nell’ordine temporale, sono due parole perfettamente sinonime. L’una e l’altra esprimono quell’alto potere che ad ogni altro impera, da cui ogni altro deriva, che governa e non è governato, giudica e non è giudicato.

Quando noi diciamo che la Chiesa è infallibile, non chiediamo per essa – è essenzialissimo osservarlo – nessun privilegio particolare; chiediamo soltanto ch’ella goda del diritto comune a tutte le sovranità possibili, le quali agiscono tutte necessariamente come infallibili; perché tutti i governi sono assoluti; e non esisterebbero piú, quando si potesse loro resistere sotto pretesto d’errore o d’ingiustizia. [...].

Chiesa; in un modo o in un altro bisogna che sia governata, come qualunque altra associazione; altrimenti non vi sarebbe piú aggregazione, non insieme, non unità. Questo governo è dunque di sua natura infallibile, ossia assoluto, senza di che non governerebbe piú.

Nell’ordine giudiziario, che è una delle parti del governo, non è fuor di dubbio che bisogna assolutamente giungere a un potere che giudica e non è giudicato, precisamente perché sentenzia in nome del potere supremo di cui è ritenuto organo e voce?».

Interessante è la dignità del latino nel suo  Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche”.

Secondo Joseph de Maistre la grandezza della lingua latina è data dalla sua storia.

I Romani le hanno impresso il senso della maestà. Essa poi è stata usata per civilizzare i barbari. Infine i grandi scienziati l’hanno usata per scrivere le loro opere.

«Niente uguaglia la dignità della lingua latina. Fu parlata dal popolo-re, il quale le impresse quel marchio di grandezza unico nella storia del linguaggio umano, che nessuna lingua, neppure la piú perfetta, è mai riuscita a conquistare. Il termine di maestà appartiene al latino. La Grecia lo ignora; ed è soltanto per la maestà che essa rimase inferiore a Roma, nelle lettere come sui campi di battaglia. Nata per comandare, questa lingua comanda ancora nei libri di coloro che la parlarono. È la lingua dei conquistatori romani e dei missionari della Chiesa romana: uomini che differiscono soltanto per lo scopo ed il risultato della loro azione. Per i primi si trattava di asservire, umiliare, sconvolgere il genere umano; i secondi venivano ad illuminarlo, risanarlo, salvarlo; ma si trattava sempre di vincere e di conquistare e, da una parte e dall’altra, si trova la stessa potenza. [...].

È la lingua della civiltà. Mescolata a quella dei nostri padri, i Barbari, ha saputo affinare, ingentilire e, per cosí dire, spiritualizzare quei rozzi idiomi che soltanto cosí sono diventati quel che vediamo. Forti di questa lingua, gli inviati del Pontefice romano andarono incontro a quei popoli che piú non li avvicinavano. Dal giorno del loro battesimo, costoro non l’hanno piú dimenticata. Si dia uno sguardo a un mappamondo; la linea d’arresto di questa lingua universale segna i confini della civiltà e della fraternità europea; al di là troverete soltanto quella parentela umana che si trova fortunatamente dovunque. Il segno distintivo dello spirito europeo è la lingua latina. [...].

Dopo essere stato lo strumento della civiltà, mancava al latino un solo genere di gloria, e lo conquistò, quando maturò il momento, divenendo la lingua della scienza. I geni creatori l’adottarono per comunicare al mondo i loro grandi pensieri. Copernico, Keplero, Descartes, Newton e cento altri ancora, importantissimi anche se meno celebri, hanno scritto in latino. Una enorme quantità di storici, pubblicisti, teologi, medici, antiquari, inondarono l’Europa di opere latine di ogni genere. Piacevoli poeti, letterati di prim’ordine restituirono alla lingua di Roma le antiche forme e la riportarono ad un grado di perfezione che non cessa di stupire gli uomini che paragonano i nuovi scrittori ai loro modelli. Tutte le altre lingue, per quanto studiate ed intese, tacciono tuttavia nei monumenti antichi, probabilmente per sempre.

 

 

 

Sola tra tutte le lingue morte, quella di Roma è veramente risuscitata; e, simile a colui che celebra dopo venti secoli, una volta risuscitata, non morirà piú».

 

 

Bibliografia

Domenico Fisichella “Joseph de Maistre Pensatore Europeo”, Laterza 2005;

Idem                           Sovranità e Diritto Naturale in Joseph de Maistre”, Pagine (Lucarini), 2015;

Enciclopedia Biografica Universale Treccani, Roma 2007, vol. 12 “Lucat-Maure”, “Maistre, Joseph de”, pag.269