NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 31 dicembre 2017

Armando Diaz (1861-1928) Il Duca della Vittoria - I parte

Come da tradizione riportiamo, quando possibile, il testo delle conferenze tenute per il Circolo Rex.  Ringraziamo Gianluigi per la condivisione della sua conferenza del 3 Dicembre!

di Gianluigi Chiaserotti
Armando Vittorio Diaz nacque in Napoli il 5 dicembre 1861 da Ludovico ed Irene Cecconi, in una famiglia (di lontana origine spagnola) di militari, di magistrati e di uomini di Legge.
L’avo Antonio era stato “ordinatore di guerra” durante il regno del Re Ferdinando II di Borbone (1810-1859); il padre fu ufficiale del genio navale nella marina borbonica e quindi italiana; la madre veniva da una famiglia di magistrati e di professionisti.
Il padre del Nostro, dopo aver lavorato negli arsenali di Genova e di Venezia (di quest’ultimo era stato direttore, con il grado di colonnello), morì nel 1871;  la vedova con i quattro figli si stabilì in Napoli, sorretta dalle cure del fratello Luigi, avvocato, vivendo in modesta agiatezza.
Il Diaz compì gli studi elementari in varie scuole private, poi, già orientato alla carriera militare, frequentò la scuola tecnica pubblica, quindi l’istituto tecnico, traendone una solida cultura scientifica e la capacità di scrivere in una lingua italiana sobria e corretta; molto tempo dedicò anche agli esercizi ginnici in palestra. Superati gli esami di ammissione all’Accademia Militare di Torino, vi prese servizio il 15 settembre 1879; sottotenente di artiglieria nel 1882, frequentò la scuola di applicazione di Artiglieria e Genio di Torino e, nel 1884, fu assegnato, con il grado di tenente, al 10º reggimento di artiglieria da campo di stanza a Caserta.
Vi rimase fino al 1890, alternando studio e lavoro con la partecipazione alla vita della buona società napoletana.
Nel marzo 1890, Armando Diaz fu promosso capitano e trasferito al 1º reggimento di artiglieria da campo stanziato a Foligno.
Preparò e superò gli esami di ammissione alla Scuola di guerra, che frequentò nel 1893-95, classificandosi al primo posto della graduatoria finale del suo corso.
Il 23 aprile 1895 il Nostro sposò Sarah De Rosa, di una famiglia napoletana di avvocati e magistrati: un matrimonio nato all’interno dello stesso ambiente della buona borghesia napoletana, che si rivelò solido e felice, allietato dopo alcuni anni dalla nascita di tre figli.
Dal 1895 al 1916 la carriera del Diaz si svolse prevalentemente negli uffici del comando del Corpo dello Stato Maggiore, dove lavorò per un totale di circa sedici anni, lasciando Roma soltanto per diciotto mesi per comandare un battaglione del 26º reggimento di fanteria, quindi dopo la promozione a maggiore nel settembre 1899, e per poco più di tre anni, e precisamente dal 1909 al 1912.
A Roma prestò servizio soprattutto nella segreteria del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito,  generali Tancredi Saletta (1840-1909) prima, eppoi Alberto Pollio (1852-1914). Un incarico che non lasciava spazio per studi personali o strategici, ma comportava un confronto quotidiano con la realtà dell’esercito (organici, bilanci, armamenti) e con il mondo politico romano.
Si rivelò, il Diaz un lavoratore preciso ed instancabile, capace di far funzionare al meglio i servizi dipendenti, affabile e diplomatico nei rapporti esterni; non ostentava interessi politici, ma era bene informato di quanto accadeva in Parlamento e nel paese ed in grado di destreggiarsi con gli uomini politici e con gli addetti militari stranieri.
Di statura medio bassa, tarchiato ma non pesante, con i capelli tagliati a spazzola e grandi baffi (più tardi ridotti a baffetti), elegante senza esibizioni, di poche e forbite parole, buon conoscitore del francese e sempre disposto a tornare al suo napoletano, autorevole ma non autoritario, esigente ma comprensivo, Armando era un ufficiale che lavorava molto e bene senza mettersi in mostra, sempre all’altezza della situazione, con una forza interna che si inseriva senza difficoltà nell’istituzione militare.
Tenente colonnello dal 1905, nell’ottobre 1909 il Nostro lasciò Roma perché nominato Capo di Stato Maggiore della divisione di Firenze.
Il giorno 1 luglio 1910 fu promosso colonnello ed assunse il comando del 21º reggimento di fanteria stanziato in quel di La Spezia, dove seppe accattivarsi l’affetto dei soldati con un regime disciplinare generoso ed un attivo interessamento alle loro condizioni di vita.
Nel maggio 1912 fu destinato in Libia a sostituire il comandante del 93º reggimento di fanteria, caduto ammalato; e subito ebbe per i suoi nuovi soldati dimostrazioni di affetto e di fiducia relativamente rare nell’esercito del tempo, ed anche immediatamente ricambiate.
Il 20 settembre 1912, nello scontro di Sidi Bilal nei pressi di Zanzūr, fu ferito da una fucilata alla spalla sinistra mentre conduceva le truppe all’attacco; prima di abbandonare il terreno volle assicurarsi del successo del suo reggimento e baciare la bandiera, lasciando poi ai soldati un ordine del giorno di elogio e ringraziamento.
Armando Diaz fu quindi rimpatriato con la croce di ufficiale dell’Ordine militare di Savoia.
Nel gennaio 1913, appena guarito, riprese servizio al comando del corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, come capo della segreteria del generale Alberto Pollio.
Fu confermato in questa carica dal nuovo Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna (1850-1828), poi, nell’ottobre 1914, promosso maggior generale, assegnato al comando della brigata Siena e subito richiamato al comando del corpo di Stato Maggiore come generale addetto.
Nel maggio 1915, al momento della costituzione del Comando supremo dell’esercito mobilitato, in cui Armando Diaz era l’ufficiale più elevato in grado dopo il Cadorna, vi ebbe la responsabilità del reparto operazioni, che però, malgrado il nome, non si occupava di operazioni (la cui direzione era accentrata nelle mani di Cadorna e della sua piccola segreteria), ma dirigeva l’insieme degli uffici e servizi del Comando Supremo e quindi esigeva una visione complessiva della situazione dell’esercito.
Diresse l’ufficio con efficienza e piena soddisfazione di Cadorna per oltre un anno, poi chiese di andare al fronte; il 27 giugno 1916 fu nominato comandante della 49ª divisione di fanteria e subito dopo promosso tenente generale.
Tenne il comando della 49ª divisione per circa 10 mesi, sempre alle dipendenze della 3ª armata, sul Carso o nelle immediate retrovie.
Sin dall’inizio dimostrò notevoli capacità professionali e molto impegno nella ricerca dei maggiori risultati con le minori perdite, predisponendo con grande cura l’azione dell’artiglieria e gli assalti della fanteria; e guidò con energia le sue truppe nei sanguinosi combattimenti a nord del San Michele, nel settore di Veliki, conquistando nell’offensiva autunnale l’altura di San Grado di Merna e, nel marzo successivo, la dorsale di Voltkoniak con una manovra aggirante.
Per i soldati il Diaz ebbe sempre un’attenzione costante, controllando personalmente che fossero rispettati i turni tra trincea e riposo e nella concessione delle licenze, che tutto il possibile fosse fatto per assicurare un rancio adeguato e regolare, che nelle retrovie le truppe fruissero di qualche comodità. Non perdeva poi occasione di interrogare i soldati nelle sue frequenti ispezioni alle trincee e di incoraggiarli con poche e commosse parole. Dalla Libia aveva scritto che “tutto il segreto è nell’elemento uomo”; e ora ribadiva: “si comanda col cuore, con la persuasione, con l’esempio”.
Un atteggiamento che può parere retorico, come altri gesti del Diaz, ma che in lui era spontaneo, oltreché piuttosto raro sul Carso, così come la sua riluttanza a punire i soldati per piccole infrazioni (non transigeva invece sull’obbedienza in combattimento ed era severo, anche se sempre cortese, con gli ufficiali).
L’interesse per i suoi soldati e l’impegno con cui cercava di risparmiare le loro vite trovavano un limite nella sua convinta accettazione degli ordini superiori: un suo ufficiale di ordinanza, testimonia che Armando Diaz  condusse l’offensiva autunnale verso il San Michele con inflessibile energia, pur ritenendola destinata all’insuccesso.
Le truppe in ogni caso risposero appieno alla sua fiducia, seguendolo senza cedimenti in tutta la sua azione di comando.
Il 12 aprile 1917 il Diaz fu promosso alla testa del XXIII Corpo d’Armata appena costituito e destinato ancora sul Carso con la 3ª Armata.
Le sue divisioni entrarono in linea ai primi di giugno nel settore di Castagnevizza e furono subito oggetto di un violento contrattacco austriaco, che respinsero; poi nei giorni dal 19 al 21 agosto, nel quadro dell’ultima offensiva italiana sul Carso, conseguirono buoni progressi a sud di Oppacchiasella, perdendo 8.800 uomini e facendo 4.400 prigionieri; infine in settembre mantennero le posizioni conquistate malgrado il ritorno offensivo degli Austriaci.
Il Comandante fu premiato con la croce di commendatore dell’Ordine militare di Savoia; una leggera ferita da palletta da shrapnel al braccio destro, nel corso di una ricognizione in prima linea il 3 ottobre, gli valse inoltre una medaglia d’argento, conferitagli sul campo dal Duca d’Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia (1869-1931), suo diretto superiore  come Comandante della Invitta III Armata.
Il giorno 8 novembre 1917, il generale Armando Diaz fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, in sostituzione del generale Luigi Cadorna. Codesta decisione il Re la prese “nel tratto compreso tra il ponte della ferrovia e quello della Strada Provinciale per Monselice” come precisa un’Aiutante di Campo del Sovrano.
Le modalità della scelta sono ben note nelle linee generali, anche se su singoli dettagli esistono versioni parzialmente contrastanti dei diversi protagonisti, mai del tutto composte.
A fine ottobre, al momento della costituzione del nuovo governo, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), il Re e il ministro della Guerra, generale Vittorio Luigi Alfieri (1863-1918) avevano concordato sulla necessità di sostituire il Cadorna.
La designazione del generale Diaz come successore era stata fatta da Vittorio Emanuele III (1869-1947) e dal Ministro Alfieri, quindi accettata da Orlando, ma rinviata al momento della stabilizzazione del fronte.
Senonché il 6 novembre, nel convegno di Rapallo, gli Anglo-Francesi subordinarono l’invio di loro truppe in Italia all’esonero immediato di Cadorna, cui addebitavano l’ampiezza della sconfitta italiana, il disordine della ritirata e il cattivo funzionamento del Comando supremo.
Ed allora il Re e l’Orlando presero l’iniziativa di chiamare subito il Diaz alla testa dell’esercito, aggiungendogli come sottocapi i generali Gaetano Giardino (1864-1935) e Pietro Badoglio (1871-1956), su indicazione rispettivamente del Re, di Orlando e di Leonida Bissolati (1857-1920).
Artefice primo della sua designazione era stato il Re, come abbiamo di già detto, che nelle sue visite al fronte carsico aveva appreso a stimarlo per le sue doti di comandante e la capacità di avere rapporti positivi con i soldati e con i superiori.
Ma soprattutto gli Alleati si ritrovarono insieme in Italia, anche per l’occasione solidale del loro soccorso al nostro Esercito dopo la rotta di Caporetto. Gli Alleati (Capi politici e militari) si riunirono a Rapallo (6 e 7 novembre), quindi a Peschiera del Garda (8 novembre), dove furono gettate le basi per “[…] una miglior coordinazione dell’azione militare”.
Il Diaz apprese la notizia della sua alta nomina (del tutto inaspettata, per lui e per tutti) il pomeriggio del giorno 8 novembre 1917; non esitò e si presentò al Comando Supremo dicendo al tenente Paoletti: “Mi hanno dato una spada rotta, ma saprò riaffilarla”.
Immediatamente diramò un sobrio ordine del giorno all’esercito: “Assumo la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito e confido sulla fede e l’abnegazione di tutti”.
Il Nostro scrisse, tra l’altro, alla consorte: “[…] Il peso che grava sulle mie spalle è immenso, assai più pesante di quanto possa immaginare e come base non ho che la mia fede infinita e la fiducia in Dio che prego mi voglia dare la forza per affrontare il durissimo problema […]”.
Un bilancio del suo operato come comandante in capo dell’esercito italiano nell’ultimo anno di guerra non è facile, perché la tradizione e la bibliografia offrono soprattutto contributi celebrativi, consolidati dalle esigenze propagandistiche del regime fascista.
Il Diaz ed i suoi diretti collaboratori non lasciarono testimonianze né studi su questo periodo, mentre generali illustri come Enrico Caviglia (1862-1945) e Gaetano Giardino rivendicarono la loro parte nella vittoria con polemiche forzatamente reticenti e cifrate.
I maggiori studiosi della guerra italiana, come Piero Pieri (1893-1979) e Roberto Bencivenga (1872-1949), hanno concentrato la loro attenzione sul periodo cadorniano; e la relazione dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito è giunta ad affrontare l’ultimo anno di guerra solo a cinquant’anni dai fatti.
In sostanza, mancano ancora studi di respiro sul Comando supremo del Diaz, anche se disponiamo di pagine e giudizi interessanti e di buoni contributi di sintesi su singoli problemi, in particolare sulle grandi battaglie.
Tutto ciò premesso, cerchiamo ugualmente di delineare il suo contributo alla vittoria, dando per noto l’andamento delle operazioni, la battaglia d’arresto sul Grappa e sul Piave nel novembre-dicembre 1917, la riorganizzazione dell’esercito, quindi la vittoriosa resistenza sul Piave, che fu esclusivamente difensiva ma avendone rinnovato, ed in meglio, le forze.
Il 23 giugno 1918, appena conclusa tale battaglia, Vittorio Emanuele Orlando così telegrafò a Diaz: “Mi mancano gli elementi per valutare tutta la grandezza dell’avvenimento e soprattutto se esso abbia determinato un tale sfacelo morale dell’esercito nemico da rendere consigliabile di non lasciargli prendere respiro”.
Fu l’inizio dell’offensiva finale che culminerà in Vittorio Veneto.
Il primo merito del nuovo Comandante fu, senza alcun dubbio,  la capacità di far funzionare il Comando supremo in modo adeguato alle esigenze e dimensioni della Grande Guerra.

Anche se non sono d’accordo in quanto diverse testimonianze, ma anche documenti affermano il contrario, Cadorna aveva accentrato nelle sue mani troppo potere, mettendosi in condizione di non poter controllare i dettagli dei suoi piani e l’esecuzione dei suoi ordini e di non riuscire a capire la gravità dei problemi che ricadevano sul governo.

sabato 30 dicembre 2017

Il sindaco di Boves Paoletti: "Si lascino riposare in pace i Savoia"

dal sito www.cuneocronaca.it

"L’attacco rivoltomi dalla sezione locale del PD è azione che si commenta da sola (...).
Mentre invito le rappresentanti locali del PD ad occuparsi dei problemi concreti della gente, mi permetto di ricordare loro che la traslazione della salme dei Savoia è avvenuta sotto il Governo del PD in una provincia amministrata dal PD e che, se vogliono autorevoli prese di posizioni di sindaci di città martiri, possono chiederle al Sindaco di Cuneo o a quello di Borgo San Dalmazzo (ben più vicini al loro partito) che però, come il sottoscritto, non hanno sentito, né il dovere né la necessità di impicciarsi di faccende che esulano dal loro ruolo istituzionale.
(...) Quanto avviene in un Santuario, per di più in altro Comune, esula dalla mia competenza di Sindaco.
L’occasione mi è però lieta per sottolineare con orgoglio il coraggioso percorso di pace che la Città di Boves ha intrapreso prima con l’istituzione della Scuola di pace nel 1983 ed ora, in sinergia con la parrocchia, con il cammino di riconciliazione costruito con la città tedesca di Schondorf Am Ammersee dove è sepolto il comandante nazista che ordinò il primo eccidio d’Italia contro lotta di liberazione.
Da liberale non sono avvezzo a coltivare l’odio per i vivi, figuriamoci per i morti".

Il Re soldato e la Regina Elena sono tornati.

di Emilio del Bel Belluz

Sono due settimane che si parla dei Savoia e lo si fa con toni non sempre benevoli. Molti parlamentari, e mi permetto di citare un dato (546 di loro in spregio alla democrazia hanno cambiato casacca), si sono dimostrati contrari al rientro del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena; dimenticando che il nostro Paese dà la possibilità a tutte le minoranze di manifestare, dona un rifugio a tutti, anche se non tutte le perle che arrivano dal mondo sono così immacolate. 
Sono un monarchico, amo la famiglia Savoia, amo quelli che hanno unificato l’Italia, e m’inchino ad un Re come Umberto II che andò in esilio anche se aveva avuto la metà dei voti degli italiani, senza tener conto dei brogli elettorali di cui si accenna poche volte. 
Sono passati settant’ anni dalla morte del Re soldato che ha portato l’Italia alla vittoria, che andava in trincea a portare conforto ai soldati, che incoraggiava tutti e che stringeva la mano ai soldati affetti da colera, non preoccupandosi minimamente del possibile contagio. Questo Re, in questi anni mentre si ricorda la Grande Guerra, non è mai citato come si dovrebbe. 
Come non viene mai mostrata quella bandiera Sabauda che portò l’Italia alla vittoria. 
Spesso nelle ricostruzioni storiche, come nelle foto, la bandiera non è quella della Grande Guerra. 
Ora mi domando, chi si considera monarchico come me, potrà avere il diritto di portare un fiore sulla tomba del Re e della Regina? 
Ho dovuto aspettare settant’ anni per sentire la presenza di questo Re. 
Dopo che i Savoia andarono in esilio qualcuno scrisse che l’Italia era più povera, sono d’accordo perché una testa nobile lascia una scia nobile. Il Natale del 1947 fu l’ultimo ed il più triste che Re Vittorio Emanuele III trascorse, infatti, pochi giorni dopo chiudeva gli occhi. Lo scrittore Giorgio Pillon citò nel libro – I Savoia nella bufera -: “ Fu un Natale ben triste quello che i Sovrani si prepararono a trascorrere il 25 dicembre del 1947. 
Alle undici ci fu la Santa messa celebrata da padre Ludovico Foschi in una stanzetta della villa, adattata a cappella. Vi assisterono soltanto Elena di Savoia, la contessa Jaccarino, il barone Torrella, la fedele cameriera della Regina Rosa Gallotti, e l’amministratore. Più tardi un po’ tutti si alternarono al capezzale dell’infermo. 
Al barone Torrella, Vittorio Emanuele III mormorò, indicando con gli occhi le due infermiere: “Chi sa quelle donne che porcherie mi mettono in corpo con quella siringa !” Poi cambiando argomento, chiese: “Quante lettere, quanti telegrammi di augurio sono già arrivati ?” Torrella gliene mostrò qualcuno. Erano per lo più, messaggi inviati da sconosciuti, umile gente che non aveva dimenticato il Sovrano in esilio. Mancavano però “grossi nomi”. “Già”, osservò l’ammalato, “ chi dovrebbe ricordarsi di me non lo fa.Viviamo proprio in uno strano mondo!”. 
Mi permetto di aggiungere che quei parlamentari che hanno commentato in modo negativo la traslazione del Re dovrebbero riflettere su che cosa sia la democrazia. 
Allo stesso tempo non ho sentito parole di gentilezza da parte della Chiesa, che se non sbaglio ebbe molto dai Savoia, come il dono della Sacra Sindone. Mi permetto di chiedere in che Italia viviamo. Potrò onorare i Savoia, potrò farlo anche per il Re Umberto II e la Regina Maria Josè o dovrò aspettare di morire con questo desiderio inappagato? 
Come diceva Prezzolini: “Nulla è più stabile del provvisorio“. 
Ora ci saranno le elezioni e spero di non vedere successivamente tante fughe da destra e sinistra da parte degli eletti. 
Viviamo proprio in uno strano mondo, come disse il Re prima di morire.

venerdì 29 dicembre 2017

La Russa: Gentiloni non ha titolo per dichiarare.

Lasci decisioni e giudizi a chi verrà dopo di lui.


Pare che dopo una figuraccia della massima rappresentante di Fratelli d'Italia di qualche tempo fa, che aveva parlato di “arretratezza culturale della Monarchia” riuscendo, poverina, a sabotare se stessa, qualcuno del partito, di sicuro più navigato, abbia preso l'iniziativa di dire la cosa giusta al momento giusto.
Tra l'altro in sintonia con quanto avevamo appena sostenuto.
Apprendiamo con piacere della seguente dichiarazione dell’onorevole Ignazio La Russa, che poteva ancora migliorarsi omettendo di allinearsi alla vulgata della sinistra parlando di ombre. Ombre da cui a nostro giudizio il Re è assolutamente immune.


“Credo che Gentiloni non abbia alcun titolo per dichiarare che la richiesta della famiglia di seppellire i Savoia, ex regnanti d’Italia al Pantheon ‘non sta né in cielo né in terra’. 
Intanto il Pantheon è una chiesa e non la succursale di palazzo Chigi e soprattutto la storia di Casa Savoia e dello stesso Vittorio Emanuele è complessa e piena di ombre ma anche di luci. 
Il giudizio come il luogo di sepoltura, non può dipendere da una risposta improvvisata di un presidente del Consiglio mai eletto e al lumicino. 
A Gentiloni consiglio un salutare silenzio lasciando giudizi e decisioni obiettivamente difficili, a chi verrà dopo di lui magari col necessario consenso di popolo”.

In Comune spunta bandiera sabauda II sindaco : «Ce l’hanno regalata»

[...]
Nel municipio di Sabbio Chiese da qualche giorno, accanto alle bandiere d’Italia e d’Europa e allo stemma del Comune, è tornato a «sventolare» il tricolore ammainato definitivamente nel ’46, dopo che in Italia arrivò la Repubblica e Umberto II di Savoia fu esiliato: la bandiera sabauda, con tanto di corona e stemma della casa piemontese a campeggiare al centro della banda bianca. 


Monarchia: una prospettiva italiana

«La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale» (Articolo 139 Costituzione). 70 anni fa, diverse accezioni dell’idea di ‘sovranità popolare’, incarnate nella cesura esistente tra monarchici e i repubblicani, avrebbero portato al radicamento di un contrasto storico in futuro mai sanato. A due anni dal referendum del 1946, fu approvato un atto provvisto di ‘rigidità’, cioè soggetto a modifiche con procedura aggravata, non comprendenti la forma di governo: la nostra Costituzione, finché esisterà l’Articolo 139, dispone che l’Italia è e resterà una repubblica.
Mentre oggi, al Santuario di Vicoforte, si è commemorato per la prima volta, a 70 anni dalla morte, Re Vittorio Emanuele III, siamo tornati a intervistare Alessandro SacchiAvvocato del Foro di Napoli e Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, partendo dal caso della Catalogna.
Nella precedente intervista, pur esprimendo posizioni ben distinte da Fernando Savater, Sacchi mostrava di  raggiungere il filosofo spagnolo in merito alla valutazione positiva dell’intervento di Re Felipe VI nella recente scissione politica della Catalogna, parlando di «equilibrio e saggezza» nella gestione della crisi.

[...]


A Vicoforte anche i giovani monarchici: «Dove c'è un re, le cose vanno meglio»

28/12/2017 di Marco Turco
«Siamo qua prima di tutto per onorare l'Italia, e poi per rendere omaggio a una figura che ne ha fatto la storia». Si definiscono monarchici, anzi "monarchisti". Stupisce però l'età: 25 anni in media. Non li puoi certo chiamare "nostalgici", loro non hanno mai vissuto quell'Italia - quella di Vittorio Emanuele III, morto 70 anni fa (il 28 novembre 1947) e da due settimane tumulato a Vicoforte. Loro sono qua per omaggiarlo: sono i giovani che fanno parte dell'Istituto per la guardia d'onore alle tombe reali, o del "Fronte monarchico giovanile". Vengono da Treviso, Milano, Torino.
Quanti siete, in Italia?
Circa 500-600. Almeno quelli iscritti ad associazioni come queste. Poi però ci sono molti altri... diciamo, "quiescenti". Tante persone, anche giovani, che hanno queste idee ma non le palesano.
Vi definite "simpatizzanti" monarchici?
Ci definiamo monarchici, anzi "monarchisti". Prima di tutto, abbiamo amor patrio: prima deve venire l'Italia. Sì, crediamo che ci debba essere un re. Noi non siamo per la restaurazione, ma per la instaurazione. La nostra idea è semplice: la monarchia è l'unica cosa che ha unito l'Italia da quando è stata unificata e per tutta la sua storia. Nei 70 anni seguenti, guardate cosa è successo.
Cosa sarebbe successo di male?
Diciamo che non è successo nulla. Governi su governi che a volte duravano pochi mesi, corruzione, mafia...

E secondo voi la monarchia cambierebbe le cose?
Basta guardare nel resto d'Europa, per capire che i Paesi in cui le cose vanno meglio sono quelle dove c'è un re: Spagna, Svezia, Danimarca. Sono dati di fatto.
[...]

giovedì 28 dicembre 2017

Gentiloni: no a riabilitazioni di Casa Savoia

Dal sito dell'Ansa apprendiamo quanto segue:

"Penso che sia stata fatta un'operazione di significato umanitario e penso sia stata fatta con la dovuta riservatezza. E' una vicenda privata trattata in modo umanitario, nessuna riabilitazione, chi fa queste richieste non avrà nessun ascolto da parte delle istituzioni".
Lo afferma il premier Paolo Gentiloni nel corso della conferenza stampa di fine anno.
Sulle richieste, arrivate da una parte della famiglia Savoia, di seppellire Vittorio Emanuele III e la sua consorte al Pantheon Gentiloni afferma: "non sta né in cielo né in terra".


Non che ci aspettassimo di meglio da uno che, nonostante il nome importante, ha militato (da wikipedia) nel Movimento Studentesco di Mario Capanna, nel "Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS)", gruppo maoista di cui fu segretario regionale per il Lazio, sino alla sua unificazione con il  "Partito di Unità Proletaria per il Comunismo" ma crediamo che a sapere cosa stia in cielo e in terra vi siano entità ben più titolate dell'attuale presidente del consiglio che, ricordiamo, è diventato tale grazie a circostanze affatto fortuite senza alcuna consultazione in merito del popolo italiano, eletto da un parlamento che tutte le  carte in regola non le ha, come da articolo precedente, e che ci auguriamo di veder presto sparire dall'orizzonte politico nazionale, internazionale ed anche celeste.
Aggiungiamo che l'aver consentito a siffatte persone di dire, a proposito del rimpatrio della salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, di aver "trattato una vicenda privata in modo umanitario" , è cosa che ci lascia, ancora, senza parole adeguate e ripetibili.

L’eredità malata della legislatura.

Il mancato rispetto della sentenza che aveva dichiarato la incostituzionalità della legge elettorale di Camera e Senato

di SALVATORE SFRECOLA

Alla vigilia della conclusione della legislatura, la XVII della repubblica, i giornali sono impegnati a riassumere, secondo le diverse impostazioni ideologiche, quel che è stato fatto e quel che rimane del dibattito politico. Nessuno tuttavia ricorda che nel 2014, a poco meno di un anno dall’apertura dei lavori delle Assemblee legislative, la Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 13 gennaio (Presidente Silvestri, relatore Tesauro) ha affermato la contrarietà alla legge fondamentale dello Stato della normativa elettorale sulla base della quale deputati e senatori erano stati eletti. Infatti, ha spiegato la Corte, “il sistema elettorale, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole”. Come l’attribuzione del premio di maggioranza “in difetto del presupposto di una soglia minima di voti o di seggi”,un meccanismo premiale “foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi”. Ciò che può realizzare “in concreto una distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi che… nella specie assume una misura tale da comprometterne la compatibilità con il principio di eguaglianza del voto”.
Le disposizioni censurate – ha ricordato la Corte – “sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo”, ma viziato dalla ricordata assenza del raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti, con “compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.)” le quali si fondano “sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare”. Inoltre, la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, “ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione”.
Dichiarata incostituzionale la legge elettorale nondimeno rileva “il principio fondamentale della continuità dello Stato… in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento”. E poiché le Camere sono organi costituzionalmente necessari, esse non possono perdere la capacità di deliberare, come prevede la stessa Costituzione ad esempio, a seguito di nuove elezioni, con la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti “finché non siano riunite le nuove” (art. 61, comma 2), e come prevede per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo prescrivendo che leCamere, “anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni” (art. 77, comma 2).
Quindi continuità della funzione legislativa, ma limitatamente a quella che, in diritto, si chiama “ordinaria amministrazione”. Solamente atti necessitati. La continuità nell’emergenza, si potrebbe dire. Le Camera avrebbero dovuto approvare in primo luogo una nuova legge elettorale ed essere sciolte immediatamente dopo perché gli italiani potessero votare nuovamente.
Di queste indicazioni i partiti si sono fatti beffe. Per non perdere i vantaggi retributivi e pensionistici della legislatura? Probabilmente. Considerato che “a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina”, secondo il saggio adagio di Giulio Andreotti.
E così, complice Giorgio Napolitano, che da Presidente della Repubblica avrebbe dovuto presidiare la legalità costituzionale e, quindi, il rispetto della pronuncia della Consulta, non solo è stata approvata una nuova legge palesemente incostituzionale, il cosiddetto Italicum, immediatamente bocciata dalla Consulta, ma si è addirittura votata una legge di revisione della Costituzione. Sì, un Parlamento delegittimato, perché eletto sulla base di una legge incostituzionale, modifica nientemeno che la Carta fondamentale dello Stato! I Padri Costituenti sarebbero inorriditi.
Gli italiani l’hanno bocciata sonoramente. Ma i partiti hanno fatto finta di niente, e Matteo Renzi, dopo aver detto che se il referendum avesse avuto un esito negativo avrebbe lasciato la politica, non solo è lì a dirigere il Partito Democratico e,dietro le quinte il Governo, ma si è fatto promotore di altre iniziative, tutte fortemente divisive, come si dice, nel silenzio generale. Anche i parlamentari dell’opposizione, infatti, “tengono famiglia” e non hanno mai pensato seriamente a perdere indennità e pensione per un principio di rispetto della Costituzione. Uno di quei principi che una classe politica seria dovrebbe onorare, sempre. Anche perché farsi beffe della Costituzione è grave nel presente e nel futuro. Determina assuefazione dei cittadini all’illegalità. Anche per questo aumenta l’assenteismo elettorale e crescono i “populisti”.
L’eredità della legislatura XVII, anche a non essere superstiziosi considerata la fama sinistra del numero, sarà, dunque, ricordata perché è stata violata impunemente una regola fondamentale dello Stato liberale e democratico, quella che le sentenze si rispettano. Ciò che avviene in altri stati, come spesso ricordiamo con non celato imbarazzo. Nel Regno Unito, ad esempio, dove il Primo Ministro, David Cameron, il quale all’esito negativo di un referendum consultivo non vincolante, che avrebbe potuto evitare di indire, ha lasciato Dowing Street, la presidenza del Partito Conservatore ed anche il seggio alla Camera dei Comuni.

Cerimonia di suffragio nel 70° anniversario dell morte di Re Vittorio Emanuele III

Da tutto il Nord Italia per “celebrare e ricordare il loro Re”
Al Santuario di Vicoforte stamane, 28 dicembre, la prima messa in suffragio di Vittorio Emanuele III e della consorte Regina Elena

CHIARA VIGLIETTI
VICOFORTE
Sono arrivati da tutto il Nord Italia, dalla Lombardia al Veneto, dalla Liguria al Piemonte, per celebrare e ricordare il loro Re, Vittorio Emanuele III. “Ed è un immenso onore essere qui in questo giorno in cui finalmente la famiglia Savoia è tornata a casa”, dicono. 

Alle 10 è iniziata la messa, la prima che il Santuario di Vicoforte celebra in onore dei reali di Casa Savoia, Vittorio Emanuele e la consorte Elena: presenti un centinaio di rappresentanti dell’istituto nazionale delle guardie del Pantheon. Alla stessa ora a Roma è iniziato, al Pantheon, il ricordo del Re che da una decina di giorni riposa a Vicoforte. 



L'ultimo viaggio del Re

da "Candido" n.1, 4 gennaio 1948

«Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale». Cosi dispone la carta costituzionale della repubblica democratica italiana, ma non eran trascorse ventiquattr’ore da che l’on. De Nicola, assistito dagli on. De Gasperi e Terracini, aveva con la sua firma posto in vigore la severa disposizione, che l'ombra del vecchio Re penetrava inavvertita in territorio nazionale, l’ombra del vecchio piccolo Re che per quasi mezzo secolo aveva regnato sulle belle terre ora vietategli, e l’avevano mandato a morire in un ospedale africano, e il figlio non era arrivato in tempo a dirgli addio, così com’egli, giovane, non aveva potuto dire addio al padre. Penetrava inavvertita, non più silenziosa di quando, corpo, una sola volta in quarantaquattro anni aveva levata alta la voce, e tutti sentirono in essa quella della patria: fu a Peschiera, in una palazzina ora ridotta ad abitazione privata, e la sala dove venne decisa, per volontà del Re, la resistenza sul Piave, oggi è una anticamera, e la lapide è nascosta dietro una tenda, segno dei rispetto e della prudenza dell’inquilino. Chi s’avvede della presenza del vecchio Re che, elusa la pur strettissima vigilanza degli zelanti difensori della repubblica, torna nella sua Italia, e la ripercorre, silenzioso come in vita, col passo leggero delle ombre, e la sua meta e il Grappa dove, pure, un posticino, in quel cimitero, non dovrebb’essergli negato dai vivi quando i morti, riconosciuto il loro Re, volentieri si stringerebbero fra loro per fargli un po’ di spazio, tanto piccolo è il Re, e averlo vicino per sempre, ravvolto in quella bandiera che sul Grappa non ha perduto e non perderà mai lo stemma?
Colpevole della rovina d’Italia il Re di Tripoli, di Peschiera, di Vittorio Veneto?
I fanti non vogliono crederlo, e sarebbero onoratissimi di averlo accanto, felicissimi di riparlare un po' con lui, sotto la terra nella quale il sangue s’è trasformato in erba e fiori, di quelle giornate che la gente, a quanto sembra, ha fatto presto a dimenticare, non è vero Maestà?
Rimanga qui con noi, Maestà, questo è il suo regno, questa è la sua bandiera, questi i suoi sudditi, guardi quanti, e tutti fedeli, nessuno la rinnega, e abbiamo la nostra banda che in barba alle leggi della repubblica suona in questi silenzi la Marcia reale. Rimanga con noi, Maestà.
Sua meta è il Grappa. Col passo leggero delle ombre il vecchio re passa per il vuoto Quirinale, e nella piazza solitaria, immobile in mesto atteggiamento, un cittadino in cravatta nera guarda il balcone. Interrogato, dirà d’essere in lutto per una zia. Ma il vecchio Re apprezza la fedeltà pur ammantata di tanta prudenza un piccolo pensiero gli basta, sa bene,nella sua antica saggezza, ch’è già molto quando degli applausi di un’intera nazione rimane una cravatta nera in una piazza solitaria; e passa oltre, e sente un suono noto provenir dalle tasche d’un giovane cittadino riuscito a metter le mani sulla celebre collezione numismatica, e sorriderebbe se avesse mai sorriso durante la lunga vita; e musiche e luminarie, ecco, lo attirano, c’è una festa privata a Palazzo Giustiniani, mentre il popolo sovrano dorme l’on. De Nicola brinda alla nuova Costituzione, brindano gli illustri personaggi che lo attorniano. Ardono i doppieri, impalati nei corridoi i corazzieri sognano il Re. Passa l’on. De Nicola, corazzieri prescntat’arm!, non possono: divorati dalle tarme, al più piccolo movimento cadrebbero in polvere. C’è anche il Conte Sforza, anch’esso è divorato dalle tarme, morto anch’esso, più del Re, oh l’odore di naftalina, è la sua voce o quella d’un vecchio grammofono a tromba che dice: «In qualità di membro del governo repubblicano, non posso fare dichiarazioni sulla morte di Vittorio Emanuele III»? Ardono i doppieri, un’altra voce morta detta un telegramma : «Invio le espressioni del cordoglio mio personale e della Nazione per la morte dell'uomo che, nel più alto posto, partecipò per un cinquantennio alla vita d’Italia». Anche tu partecipavi, vero on. De Nicola? Quanti colpevoli nella splendida sala di Palazzo Giustiniani! Come il Re, più del Re, ma i Re debbono espiare per butti, questo è il loro tragico mestiere. Ecco l’on. Bonomi, l’on. Orlando, l’on. Nitti, l’on. Gasparotto: la sfilata dei morti davanti ai corazzieri immobili continua. Ci fu uno solo, ma non è tra questi morti, è un’ombra come il Re, che in mezzo al gregge osò un giorno parlare da uomo, ma o non poté o non volle aiutare il Re che  pur l’aveva chiamato al Quirinale, e le splendide sciabole dei corazzieri avevano onorato la sua giacchetta; poi tutti si ritirarono prudenti togliendo al Re costituzionale il mezzo di valersi della Costituzione, colpevoli, se il Re fu colpevole, quanto lui, ma non sono in esilio, brindano a Palazzo Giustiniani nella bella sala splendidamente illuminata dai doppieri, e il Conte Sforza, l'ancor elegante Conte Sforza di cui le tarme hanno rispettato il viso e le mani, trae dall’interno del vuoto abito nero la voce per dichiarare che in qualità di ministro del governo repubblicano non può fare dichiarazioni sulla scomparsa di Vittorio Emanuele III, morto in esilio, all’ospedale, e il figlio Umberto ha dovuto allungare d’un giorno il viaggio per rivederlo: agli ex Re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. Ha dovuto fare un lungo giro questo Savoia che non sembra un ex Re, ma ancora un Principe Ereditario, per non allarmare una repubblica che se fosse più forte, oh, per abbreviargli il viaggio, permetterebbe il passaggio a un figlio che corre al letto di morte di suo padre; e Umberto non avrebbe toccato il territorio nazionale, ne avrebbe solo trascorso il cielo, ma anche quel rapido volo sarebbe stato cagione di timore alla repubblica non in condizione, ancora, d'esser generosa.
Corazzieri, presentat’arm! Si vada pure in polvere, ma si saluti il Re per l'ultima volta, il vecchio Re che s'allontana discreto per non turbare la festa, e compatisce : sa quanta ombra dia un re agli uomini smaniosi del potere, quanto loro pesi una superiore autorità che li costringa ad agire per il bene della nazione e li obblighi alla dignità nei confronti dello straniero. Ufficiali in borghese (poiché il ministro della guerra vi consiglia di uscire non in divisa reputandola forse una provocazione per alcuni e un ricordo per altri), salutate il Re per l'ultima volta; italiani che abbiate conservato ancora tanto di dignità da divider col vostro Re la responsabilità degli eventi, monarchici palesi e segreti, combattenti che in nome del Re e non di Pacciardi o di Togliatti vi rifiutaste di riconoscere la repubblica di Mussolini e affrontaste nei lagher la fame e la morte, uomini politici eletti coi voti di dieci milioni di monarchici, e anche lei, signor Guglielmo Emanuel, direttore di quel Corriere che cerca di farsi perdonare al pomeriggio quel che scrive la mattina, e assai più zelante dei quasi cavallereschi giornali di sinistra non ha saputo risparmiar un inutile oltraggio alla memoria di un Re d’Italia che aveva appena chiuso gli occhi in terra straniera, «aiutate il Re per l'ultima volta; si, lo saluti anche lei, signor Emanuel, vecchio monarchico cui la repubblica chiede solo rispetto al nuovo Stato e non oltraggi al Re, specchio perfetto d’una borghesia pavida che andando di questo passo finirà con l’affogare nella propria paura.
Il Re non si ferma a Peschiera: la lapide è dietro una tenda, e per riposare non c’è che una cassapanca, lui che ha il suo posto sul Grappa, in un bel letto di soffice terra fiorita preparatogli dai suoi soldati, dai suoi morti che non lo rinnegano, e chiedono ai vivi se nella disposizione del nuovo Statuto non si possa fare un'eccezione per il piccolo e leggero corpo di un Re che sbagliò, forse, a non morire lassù, nei bei giorni di gloria, e di quel gran monte che gloriosamente difese tutto, altro non chiede se non quanto spazio comprenderebbero le braccia d’un bambino, tanto il suo corpo è piccolo e leggero. 
Mosca


28 Dicembre


mercoledì 27 dicembre 2017

Il libro azzurro sul referendum - IX cap - 2

L’on. Enzo Selvaggi Direttore di “Italia Nuova” (1)

«Informato del rovesciamento chiede: «Le cifre sono ufficiali?» gli si risponde di no. «Non è possibile dare per decisa una partita come questa, su base così incerta, obietta, o si vuole la guerra civile?» Chiama al telefono il suo collaboratore dr. Mancuso; lo incarica di un pronto tentativo col capo gabinetto di Romita, il Vicari per « impedire questo falso»... Ma Vicari risponde che è ormai troppo tardi per intervenire e che comunque la notizia della maggioranza repubblicana ha fondamento». Selvaggi decide allora di agire direttamente su Romita. Benché siano le quattro di notte, lo chiama al telefono nell’abitazione, e dopo avergli esposto in termini vibrati i gravi motivi che lo hanno spinto al passo su di lui, conclude: «La cosa è intollerabile. Ognuno di noi, secondo le raccomandazioni che lei stesso ci ha rivolto, si attiene alle cifre ufficiali che il suo gabinetto dirama man mano. Mi rivolgo a lei con la sicurezza che voglia immediatamente intervenire per impedire questo arbitrio. Altrimenti non posso garantire nulla su quanto succederà domani». La risposta è: «Si calmi, ora vedo che cosa si può fare. Naturalmente ognuno di noi si deve attenere alle cifre ufficiali. Se le cose stanno come lei dice, questo e pero certo, ritengo non ci sia più nulla da fare per i giornali del nord. Ad ogni modo intervengo». Subito dopo, la prima pagina di « Italia  Nuova », pronta per andare in macchina, viene riportata sul pancone e messa in subbuglio; si impagina a ritmo di corsa un «neretto» in cui si legge; «è probabile che questa mattina i quotidiani socialcomunisti, fiancheggiati da quelli democristiani, annuncino con titoli sensazionali la vittoria della repubblica. La notizia è falsa!».


Comunicato ufficiale del Ministero dell’Interno
I dati e le cifre pubblicati dalla stampa circa l’esito del referendum non sono quelli ufficiali e non sono quindi attendibili. Il Ministero dell’Interno si riserva di diramare un comunicato in merito appena i dati stessi avranno una certa consistenza».
Al mattino i giornali di sinistra escono con titoli attenuati.

In Quirinale e all’Italia Nuova (1)

« In Quirinale e all’« Italia Nuova » si cerca di dipanare la matassa. Qual è la manovra di Romita? Aveva egli in serbo le cifre delle regioni «rosse» e le ha buttate sulla bilancia, in piena notte, sotto la pressante minaccia socialcomunista, all’ultimo momento utile per evitare la guerra civile? Oppure si e dato corso al falso di alcuni milioni di schede in più tenute di riserva e corrispondenti a elettori ipotetici, in modo da spostare a favore della repubblica i piatti della bilancia con un artificio? Fatto sta che il mattino i giornali di sinistra escono con titoli attenuati. La parola «Repubblica!» che doveva concordemente apparire a tutta ' pagina, è stata eliminata in extremis.
«L’Unità» per esempio dice nel suo titolo: «Si delinea la vittoria della Repubblica» e sotto il neretto: «Da noi interpellato, il Ministro Romita si è rifiutato di darci conferma di questa notizia»... Più tardi però Romita riunirà gli esponenti dei partiti ed i rappresentanti della stampa, e darà un annuncio di carattere più ufficiale, precedendo la vera proclamazione, spettante per legge alla Corte di Cassazione.
«L’Avanti!» potrà varare la testata nereggiante con la fatidica parola e Silone nel suo «fondo» scriverà: «l’intervento burocratico ha potuto evitare che l’attesissima notizia fosse come di dovere subito propagata. Noi abbiamo dunque dovuto sopportare, in pochi e in silenzio, durante un certo numero di ore, l’eccezionale notizia...»


(1) Da Storia segreta..., pag. 102, 103 e scg.

martedì 26 dicembre 2017

Le spoglie di un Re, maledette dall'antifascismo. Di Rino Camilleri

Qualche considerazione spontanea in seguito alla canea di commenti un po’ tanto inappropriati.


Don Bosco l’aveva sognato e glielo aveva mandato a dire. A Vittorio Emanuele II, mentre il parlamento subalpino decideva la soppressione degli ordini religiosi e l’incameramento dei beni ecclesiastici.
Prima i lutti a Corte (e ci furono, uno dietro l’altro), poi l’ammonimento: chi ruba a Dio non supera la quarta generazione. E infatti: Vittorio Emanuele II, prima generazione di Re d’Italia; Umberto I, seconda; Vittorio Emanuele III, terza; Umberto II, «Re di maggio», quarta; fine della dinastia reale. Don Bosco l’aveva detto.
Be’, di tempo ne è passato dalla sostituzione del Regno con la Repubblica. Ormai, almeno le salme potrebbero rientrare dall’esilio. A chi fanno paura?
Si dice che le bare che contengono le spoglie di Vittorio Emanuele III, morto ad Alessandria d’Egitto, e di sua moglie Elena di Montenegro, morta a Montpellier, siano state portate di soppiatto nel santuario di Vicoforte, in quel di Mondovì.
Insomma, adesso sono in Italia. Dopo settant’anni. Ma ecco i mugugni. I monarchici, la cui consistenza numerica non dovrebbe impensierire l’Italia laica, democratica e antifascista, dicono in pratica: che c’entra Vicoforte? I fans dei Savoia vogliono quelle salme nel Pantheon di Roma. E additano, a conferma, le esequie di Michele I (Mihai) ex Re di Romania: il feretro accolto in patria con tutti gli onori, esercito schierato e politici in prima fila, con percorso, su affusto di cannone, tra due ali di folla oceanica.
Eppure, anche la Romania è una repubblica da decenni. Perché l’Italia fa ancora storie per il rientro di due salme e queste devono essere infiltrate quasi di nascosto?

Azzardiamo un’ipotesi. In Italia, ancora oggi, se gli anarchici  mettono bombe alle porte di commissariati e caserme la notizia compare tra le brevi in quinta pagina.
Se i cosiddetti centri sociali devastano il centro storico, la notizia la trovate in cronaca locale. Se gli stessi occupano interi palazzi e vi smerciano «erba», la notizia non la trovate proprio. Ma se quattro gatti di estrema destra disturbano verbalmente un convegno pro-immigrazione e, dopo aver letto un comunicato, se ne vanno  disciplinatamente, ecco indetta una mobilitazione di tutte le forze politiche e sindacali per reagire alla intollerabile provocazione fascista. Se un giovane militare appende nella sua stanzetta una bandiera della marina prussiana si agita e sbraccia perfino il ministro della difesa, che minaccia sfracelli, destituzioni, rimozioni, punizioni severissime.
Se un pugno risicato di attivisti di Forza Nuova si mascherano da fantasmi e lanciano slogan al megafono contro il gruppo Repubblica - L’Espresso senza far danni né male a nessuno, l’indignazione nazional-popolare raggiunge l’acme e allarmate interrogazioni parlamentari si levano contro il terrificante rigurgito nazifascista. Morale: tutto ciò che è comunista o simil-comunista è tollerato, anzi, va benissimo. Mano ferrea e pronta repressione sul versante opposto, e pazienza se la risposta è spropositata. Questa è la situazione, e lo è dal Sessantotto. 

Ebbene, Vittorio Emanuele III è stato «di destra», perché non si è opposto a Mussolini o, almeno, non lo ha fatto fin da subito, fin dalla Marcia su Roma. Nell’immaginario egemone quel Re è stato complice del «male assoluto», cioè del fascismo, e in un’Italia in cui alte cariche istituzionali si sentono male, o almeno a disagio, quando passano dalla Stazione Ferroviaria di Milano o davanti all’Eur (realizzazioni del mai abbastanza deprecato Ventennio), il malessere o il disagio sarebbero replicati dalla presenza al Pantheon delle salme di Vittorio e Elena.
Non sia mai.
La domanda è però un’altra: perché i Savoia ci tengono tanto a tornare. pure da morti, in questo Paese?

Rino Camilleri