NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 28 luglio 2012

Alfredo Misuri, il “monarchico-fascista”



di: Gaetano Marabello

Bazzicando i mercatini dell’usato, capita naturalmente d’imbattersi in qualche scritto ingiallito dal tempo e pressoché dimenticato da tutti.
Spesso è pura paccottiglia, ma di recente m’è venuto tra le mani un pamphlet interessante del 1945 a firma di Alfredo Misuri.
Edito quando ormai la guerra in Italia stava per concludersi, s’intitolava “Giustizia o rappresaglia?” ed aspirava ad essere un “Contributo alla pacificazione”. L’autore – oggi noto solo agli studiosi e a qualche vecchio monarchico - vi riferiva i suoi tentativi, espletati nel luglio dell’anno precedente, per “influire sul Conte Sforza”, perso di vista dalla lontana estate del 1922 in concomitanza della crisi del governo Giolitti. Egli premetteva di sentirsi ormai svincolato dal mantenere ulteriormente il riserbo sull’episodio, in quanto il famigerato decreto luogotenenziale del 27 luglio ’44 aveva vanificato ogni sua illusione d’evitare l’emanazione di norme epuratrici.
Pubblicando quindi la corrispondenza intercorsa, si prefiggeva di evidenziare i suoi sforzi per evitare vendette contro quei fascisti che avevano appoggiato, in buona fede o per necessità, il regime. In particolare, egli difendeva coraggiosamente gli squadristi della prima ora, che non avevano “percorso una carriera” o “accumulato fortune” essendo stati scalzati dagli “squadristi di scarto”. Questi ultimi appartenevano a quella “infornata” di “centottantamila domande”, presentate a fascismo trionfante e miranti a procurarsi il relativo “fascio littorio rosso inquadrato nel distintivo a losanga sull’abito civile ovvero il galloncino rosso sulla manopola dell’uniforme”. Era l’immancabile schiera di profittatori, che – come si sa - concorreranno anche ai titoli di marciatori su Roma e infine di partigiani dopo il 25 aprile.
Alfredo Misuri, il quale sapeva bene quel che diceva, calcolava invece le schiere di tutti gli squadristi autentici “a sette o ottomila, a voler esser larghi”. Si trattava di gente, che spontaneamente aveva cominciato ad opporsi alle violenze socialcomuniste, senza possedere organizzazione di sorta e tanto meno “camicie nere o gradi”. Questa piccola “massa originariamente violenta, impreparata, ma pura” – secondo Misuri - in un secondo momento venne tenuta in rispetto dalle “squadracce, favorite e protette dai capi di Milano”. Egli parlava per conoscenza diretta dei fatti, essendo stato a Perugia uno dei primi ad opporsi ai “rossi”. In tale veste, aveva guidato nel ’21 alcune spedizioni fortunate, che riportarono la bandiera nazionale a sventolare sui comuni di Gubbio e Terni.
Insomma, era uno di quei pochi e veri fegatacci che avevano consentito al movimento fascista d’espandersi in una terra difficile come l’Umbria. Ne era stato però ripagato con l’ostracismo da parte dei tanti arrivisti o attaccabrighe del posto, che ingaggiarono con lui un duro confronto interno per la conquista del potere. Stando alla ricostruzione fatta da Leonardo Varasano nel saggio “L’Umbria in camicia nera (1922-1943)”, si sarebbe trattato né più né meno di una contrapposizione di tipo classista. Essa avrebbe visto le vecchie èlites di proprietari terrieri (cui apparteneva Misuri) fronteggiare per la leadership la massa dei piccoli borghesi (Uccelli, Iraci, Fortini, Bastianini e Felicioni). Lo scontro si concluse di lì a poco con l’affermazione dei settori più numerosi e popolari, che si assicurarono il controllo della realtà locale per quasi l’intero Ventennio.
Queste opposizioni non impedirono tuttavia a Misuri d’ottenere ben centodiecimila voti alle elezioni del 15 maggio 1921 e d’entrare così alla Camera come deputato del blocco di “Alleanza Nazionale”.

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Monarchici: “Il Prefetto fermi la festa per l’anarchico Bresci”



Non si è fatta attendere la risposta dei monarchici alessandrini alla “provocazione” degli anarchici che hanno programmato una festa per ricordare Gaetano Bresci, il regicida di Umberto I. Parla per tutti Carmine Passalacqua, ex consigliere comunale, che il 21 luglio scorso era a Monza per ricordare il “Re Buono”: “Ho appreso la triste notizia dell’organizzazione di un evento alessandrino per denigrare la figura del legittimo secondo Capo di Stato dell’Italia unita. Per noi Monarchici il ricordo del Re Umberto I° resta un punto fermo per condannare ogni tipo di violenza, a maggior ragione dettata da falsi sentimenti di vendetta. In questa città appartenente al Regno di Sardegna dal lontano 1728, è inaccettabile la propaganda contro Casa Savoia, specialmente se fatta ad arte per mistificare la verità storica. Già fu dedicata una pubblica piazza alle “Vittime dei moti del 1898”, proprio qui dove non vi era bisogno di commemorare un evento che non ha traccia nella stessa Milano, dove avvenne l’eccidio. Per cui mi rivolgo pubblicamente al nuovo Prefetto ed alle Forze di Polizia perché siano annullate queste manifestazioni, soprattutto se celebrate in luoghi occupati con tanta superbia da questi gruppi anarchici, che già hanno fatto danni alla precedente Villa Guerci, ai Forti militari e per ultimo all’ex Caserma dei Vigili del Fuoco.
 Noi Monarchici non abbiamo una sede, così come tante benemerite associazioni di volontariato e culturali, ma nessuno si è mai sognato di procedere con la forza per occupare un edificio pubblico”.



http://www.lapulceonline.it/monarchici-il-prefetto-fermi-la-festa-per-lanarchico-bresci/#comment-2471

La confessione del «fascista disubbidiente»


di Filippo Rizzi, www.avvenire.it
​Le preghiere imparate da bambino quando faceva il chierichetto, recitate in latino fino a pochi minuti prima di morire, l’ammirazione per Sant’Agostino e per la Chiesa dei primi secoli. Sono le prime istantanee che affiorano nella mente di monsignor Giovanni Catti, classe 1924, sacerdote bolognese e discepolo del cardinale Giacomo Lercaro nel ricordare la figura del gerarca fascista Dino Grandi (1895-1988) morto quasi cieco a 93 anni.

Toccò infatti all’allora don Catti presiedere le esequie il 23 maggio del 1988 nel cimitero della Certosa di Bologna dell’uomo, il «fascista disubbidiente», che attraverso il famoso ordine del giorno (che portava il suo nome) fece cadere Mussolini e la sua dittatura: il 25 luglio del 1943. «Divenni amico, confidente e poi direttore spirituale di Grandi negli ultimi anni della sua vita – rievoca oggi l’anziano sacerdote dalla Casa del Clero di via Barberia a Bologna – quasi per caso : lui abitava nella centralissima via Alessandrini e divenne mio parrocchiano della chiesa di San Benedetto dove esercitavo il mio ministero di sacerdote. Chi giocò un ruolo in questa amicizia "inconsueta" tra me e Grandi fu la sorella, la moglie di quello che era stato negli anni del Ventennio il direttore amministrativo ed editore del "Resto del Carlino" Aurelio Manaresi. Questa donna minuta, molto cattolica ma non bigotta, spinse suo fratello Dino a riavvicinarsi alla fede e al cattolicesimo. E da qui nacque la nostra amicizia e da allora divenni il suo confessore…».

Cosa ricorda dei suoi incontri a Bologna con Dino Grandi…
«Sono stati tutti colloqui molto cordiali e dove soprattutto ha sempre regnato un grande rispetto. Rammento che proprio negli ultimi anni della sua vita stava redigendo le sue memorie finite poi, grazie alla sapiente e lungimirante regia di Renzo De Felice, nel libro edito dal Mulino Il mio Paese. Ricordi autobiografici. I nostri incontri si alternavano con la dettatura delle sue memorie redatte dalla sua fedele segretaria Anna Maria Tommasini… Nei nostri colloqui si parlava di fede, di cultura ma anche di attualità politica. Strano a dirsi e forse a immaginarsi ma nutriva una grande ammirazione per Luigi Sturzo e simpatie per una certa idea di socialismo. E poi non dimentichiamo la sua ammirazione negli anni giovanili per figure come Romolo Murri e Giuseppe Toniolo e la sua idea di "socialismo cristiano". Era aggiornato su tutto e soprattutto ha sempre amato il suo Paese e non l’ho mai sentito parlare male di nessuno. Una delle sue caratteristiche più belle, a mio avviso, era il grande rispetto per le persone morte».


Per molti è passato alla storia come un "mangiapreti", un uomo lontano dalla fede cattolica. Lei che ricordo conserva di questo personaggio ?
«Attorno a Grandi è sempre aleggiata l’immagine di  anticlericale, di romagnolo sanguigno e di fascista della prima ora. Quello che posso dire io, senza varcare la soglia del segreto della confessione, è che negli ultimi anni della sua vita, forse grazie anche alla figura della sorella, aveva recuperato la sua antica fede cattolica mai, in un certo senso, abbandonata. Ricordo che mi raccontò, una volta, della sua ammirazione e del debito verso i padri rosminiani di Bologna che lo ospitarono nel loro collegio durante gli anni dell’università e di studio alla Facoltà di Giurisprudenza. Era molto orgoglioso della sua cultura umanistica, di aver fatto il liceo classico, di sapere il latino e il greco e la filosofia. Tutte cose che, a suo giudizio, lo avevano aiutato a capire meglio l’impronta idealistica del fascismo e le tesi di Giovanni Gentile. Aveva insomma un’idea più raffinata e dotta, ed era lui stesso ad ammetterlo, del fascismo e della sua teoria filosofica rispetto anche al suo leader il duce Benito Mussolini».

Gli ultimi anni della sua vita gli permisero un recupero della sua educazione cristiana…
«Nessuno rimase sorpreso a Bologna, compresi i figli Franco e Simonetta, della sua richiesta di volere dei funerali religiosi. Posso testimoniare che gli ultimi anni hanno rappresentato per lui un ritorno alla sua fede di bambino e di ragazzo, una riscoperta anche di quei valori appresi dalla madre Domenica Gentilini. Era affascinato dalla Bibbia: conosceva i testi originali in greco. E dei personaggi degli Atti degli apostoli che ammirava di più vi era la figura di Barnaba per la sua prudenza e per il suo stile del "giusto mezzo" nel sostenere l’apostolato di San Paolo di Tarso».

Le parlò mai dell’ordine del giorno Grandi….
«Molto spesso. Ricordo che mi raccontò della mattinata molto travagliata, trascorsa a Palazzo Venezia con il duce. Mi rivelò che lo stesso Mussolini gli confidò che "l’Italia non era pronta alla guerra ed era impreparata militarmente". Grandi rimase impressionato dai fatti successivi alla votazione: non si aspettava l’arresto immediato di Mussolini. Rimase colpito dal veloce cambio alla guida del governo, della nomina di Pietro Badoglio. Lui non era convinto che fosse la scelta migliore: pensava che ci volesse una figura nuova e non compromessa con il fascismo. Molti storici hanno sempre avanzato l’idea che Grandi avrebbe preferito il generale Enrico Caviglia l’eroe della prima guerra mondiale. Lui, nei nostri colloqui, non mi parlò mai di Caviglia. Posso affermare che sperava in una candidatura più giovane e non compromessa con il passato e soprattutto si augurava di poter giocare, dopo il 25 luglio, la sua carta di ex diplomatico in Gran Bretagna e dei suoi buoni rapporti con la stampa per "salvare" in un certo senso il fascismo ma soprattutto l’Italia. Certamente non si è mai sentito o avvertito come un traditore di Mussolini. Amava ripetere "quando ho dovuto scegliere fra la fedeltà al mio capo e quella al mio Paese, non ho avuto esitazione ho scelto la seconda…"».

Quali erano i suoi giudizi su Casa Savoia...
«I suoi giudizi cambiarono soprattutto dopo il 25 luglio. Riteneva che il re Vittorio Emanuele III non fosse in grado di governare la situazione. Deplorò come molti italiani la fuga a Pescara dell’8 settembre. Ritenne quella una delle pagine più tristi della storia italiana. L’unica persona della Real Casa di cui ha nutrito una grande ammirazione e stima è stata la principessa Maria José. Ironia della sorte quando Grandi con la famiglia dovette prendere l’aereo da Roma per l’esilio prima in Spagna e poi in Portogallo: quel velivolo era destinato a Mafalda di Savoia che come sappiamo non ne fece mai uso. Gli anni dell’esilio furono durissimi: in Portogallo diede delle ripetizioni di latino mentre sua moglie si mise a fare la modista per sopravvivere. La fortuna ritornò in casa Grandi negli anni del dopoguerra quando ebbe incarichi di rappresentanza per la Fiat e poi divenne proprietario terriero in Brasile fino al definitivo rientro in Italia negli anni Sessanta».

Monsignor Catti, Dino Grandi fu veramente uno "strano fascista"?
«La sua vita sta a raccontarci questo. Ma fu sempre coerente con se stesso. Era cosciente di essere stato assieme a Italo Balbo una delle poche figure che poteva fare ombra al capo e di essere una voce spesso controcorrente. Non l’ho mai sentito aver rimpianti o pentimenti sul suo passato. Quello che mi ha colpito da sacerdote è stato soprattutto come si fosse preparato alla buona morte, da vero credente. Un lottatore, insomma, ma mai rassegnato, che ha sempre amato il suo Paese».

http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/la-confessione-del-fascista-disubbiediente.aspx?utm_source=twitterfeed&utm_medium=twitter

lunedì 23 luglio 2012

Spagna e Monarchia: La lezione del Re.


di Giampiero del Monte
da Il Borghese numero7 Luglio 2012

Forti polemiche  dopo un viaggio in Africa in cui il Sovrano è rimasto ferito.
La crisi si fa istituzionale ?  Un viaggio in Africa del Re, una caccia all'elefante, una caduta, la frattura di un'anca, il ricovero in ospedale e l'operazione conseguente. Si scatena un'altra caccia, quella al Re, si muove l’inquisizione antimonarchica: che fa il Re? Va a caccia mentre in Spagna c'é la crisi? Perché non ha avvisato? Dovrebbe chiedere perdono. Si scatenano i partiti di sinistra "Ecco che cos'é la Monarchia, bisogna instaurare la Repubblica, chiediamo un referendum, moralizziamo la situazione del paese… »

Juan Carlos ricompare quando esce dall'ospedale chiede scusa senza attenuanti, attaccato alle stampelle dice che ha sbagliato e che non accadrà più.
Nessuno se l'aspettava, quelle parole colpiscono, il Re si rimette al lavoro e riceve e il capo del governo, il principe ereditario lo sostituisce in varie circostanze,
si fornisce un'immagine di normalità e di impegno di
parte di tutta la famiglia reale.

La Spagna è in fibrillazione ma rischia di compromettere il suo recupero. La caccia in Africa del Re può creare qualche interrogativo  ma è un viaggio privato, non è costato  nulla all'erario statale ed altre volte il Sovrano è andato a sciare o altrove, si è anche fatto male ma non è successo nulla. Ora si approfitta di ogni indizio per scatenare      pregiudizi alla ricerca di un colpevole di tutto. Tagliamo la lesta al Re e sfoghiamo la nostra frustrazione. Siamo nel fango buttiamoci anche lui e facciamola finita.
Ogni tanto si risvegliano in Spagna tendenze autolesioniste incapaci di     mantenere quanto fino allora ha sostenuto la casa che crollava. Ogni cittadino conosce l'elenco dei servizi che Juan Carlos ha reso ad una nazione che aveva bisogno di ricostruire il suo percorso e dalla Costituzione del 78 e per tutto il periodo della Transizione ha retto e guidato una nave che aveva bisogno di mantenere la sua rotta per non sprofondare di nuovo. Alcuni hanno pensato che tutto fosse superato e crescita sviluppo concordia si possano ora accantonare per buttarsi sulla via di una nuova distruzione. La Monarchia è stata una delle poche cose che ha funzionato in Spagna. Buttiamo a mare pure, questa e distruggiamo tutto. Sono impulsi di decomposizione e di smembramento nazionale che cercano di colpire quel che ancora può salvare l'equilibrio sociale.  Liquidiamo la Monarchia parlamentare, le nostre libertà costituzionali e   ai cosiddetti movimenti popolari di procedere sulla via della catarsi» della società.
Tiriamo fuori le bandiere della repubblica migliore che mai sia  apparsa sulla faccia della terra, quella che provocò la guerra civile e che in Spagna è stata sempre un insuccesso, quella che ha diffuso il settarismo, la rivoluzione, le tendenze autonomiste catalane e via dicendo. La repubblica delle illusioni, della perfidia e delle crudeltà che hanno portato il Paese allo sbando più completo ed in nome del quale si vuole colpire un uomo che sa parlare alla gente. Che ha diritto di vivere comunque una sua vita privata e che sa rimanere al di  sopra della baraonda dei partiti accesi dalle cupidigie insaziabili e dalle brame di potere.
Il Re ha chiesto perdono. Perché adesso non lo chiedono tutti coloro che hanno portato la Spagna al collasso? Non era obbligato a farlo, non c’è una legge che lo induca per forza ad agire in questo senso ma  ha  risposto all'inquietudine che s. era generata. Dove sono i caporioni di quella sinistra radicale protagonisti di scandali, abusi e arbitri a tutti i livelli e che ora reclama una morale? Quei rappresentanti che hanno assistito alla distruzione di tanti posti di lavoro mentre il governo socialista si riempiva le tasche con le varie commissioni, i falsi corsi di lavoro e le tante sovvenzioni? Le loro negligenze hanno affossato il mercato del lavoro e tanta gente al limite della pensione. E i sindaci e i presidenti delle autonomie? E’ tutta una masnada di politici che volgarmente ciarlano e rimarcano gli errori altrui ma non impiegano la stessa virulenza nel reclamare atteggiamenti di ravvedimento perse stessi e i loro compagni di partito, imputati e condannati per le più ampie malversazioni.


Il Re ha dimostrato una dignità che loro non hanno, ha dato una lezione ad una classe politica che non ammette mai niente. Le sue parole hanno colpito la gente perché non si è abituati a sentir chiedere perdono nella vita publica. Qualcuno voleva che si scusasse in privato qualche altro voleva che non lo facesse per niente ed altri ritenevano che dovesse far passare un po' di tempo ed aspettare che la situazione si tranquillizzasse. Li ha sorpresi tutti, specie i compagni di Izquierda  Unida ed altri partiti di sinistra che intendevano continuare a speculare sulla situazione. E’ la dimostrazione di un punto di riferimento istituzionale ed emozionale in tempi di grande avversità.
Il principe ereditario Felipe è sempre stato accanto al padre ed ha seguito passo       dopo passo lo sviluppo dei fatti.  Il suo ruolo cresce. Ha mantenuto nel trambusto gli arti previsti che doveva assoIvere ed ha sostituito il Re nelle circostanze in cui non ha potuto essere presente per l'incidente subito. I suoi compiti, con crescente sicurezza ha continuato a svolgere sua moglie la principessa Letizia, senza tralasciare nulla. La Regina Sofia ha fatto lo stesso, soffrendo in     silenzio ed ha ricevuto al palazzo della Zarzuela la Regina Silvia di Svezia in  visita in Spagna con il Re Gustavo Adolfo, il quale a suia volta ha sottolineato “il valore del perdono che bisogna dare e saper chiedere.       Sono attitudini morali che bisogna rimarcare in una situazione politica e sociale complicata.

La Spagna vive un momento davvero difficile e si cerca di montare da parte di alcuni un processo alla Monarchia accumulando fatti come l'incidente del piccolo nipote del Re, Felipe Juan Froilan dovuto a uno sparo di fucile e i procedimenti giudiziari contro suo genero Inaki Urdagarìn cui si aggiunge ora il viaggio di Juan Carlos in Botswana.
E’ un’offensiva sviluppata dal governo socialista dì Zapatero, volto a distruggere i punti unione e a ricreare le faziosità che alimentno gli scontri per sovvertire il sistema e determinarne un altro favorevole all’accettazione totale di principi abnormi e pseudo progressisti.
Nella Monarchia però la legittimità del Re è storica, la sua persona e l'istituzione che rappresenta si sottraggono ai contrasti delle parti plolitiche ed incarnano una Nazione precedente alle scelte politiche del momento.  La Nazione è eredità ricevuta dalle generazioni anteriori, bisogna gestirla nel modo migliore e  e proiettarla nel futuro per quanti dovranno ancora nascere.
Se si vuole salvare la Spagna bisogna salvare queste concezioni.

Nell'incontro con il capo del governo Rajoy, subito dopo il Re non ha scartato la possibilità di migliorare l'informazione sui suoi movimenti. Il PP al governo  intende lasciare ogni decisione al riguardo nelle sue mani.
Il  governo appoggerà le misure da adottare ma non se ne farà promotore e non darà impulso a cambiamenti della situazione attuale. L’informazione sui       viaggi privati del Re fa supporre che ogni viaggio comporti un dispiego  di sicurezza a spese di tutti gli spagnoli il che è assurdo. Interrogato sul viaggio del Sovrano il governo ha fatto  sapere che “conosceva quel che conosceva” ossia dove stava il Re.
Le scuse di Juan Carlos sono scaturite dai colloqui con il
principe Felipe che si sta assumendo sempre maggiori responsabilità. Fonti della Casa Reale hanno affermato che, lo stesso principe ereditario è favorevole alla redazione di uno statuto che regoli le funzioni della Famiglia Reale ed ha deciso di farlo sapere all’Esecutivo.
Nulla si farà però finché non terminerà il processo in cui è implicato il genero del Re perché ogni alterazione legale rispetto ai membri della Casa Reale potrebbe supporre una perturbazione dello stesso, processo ciò che la Zarzuela non desidera in alcun modo. Terminato il giudizio il governo manderà avanti la riforma legale.
Intanto dopo l'operazione subita a seguito dell'incidente in Botswana e dopo aver mantenuto per
un mese e mezzo soltanto un'attività ufficiale all'interno del Palacio de la Zarzuela il Re ha presieduto il due di giugno il Giorno delle Forze Armate a Valladolid ed è partito il giorno dopo per il Brasile alfine di preparare, l'incontro del Paesi iberoamericani che quest'anno si svolgerà a Cadice in Spagna nel mese di novembre.

Questo appassionato articolo, da solo, merita l'acquisto dell'ottimo giornale in edicola. Ve lo consigliamo.
Lo staff

venerdì 20 luglio 2012

Nuove sintesi : una nuova maglia della Rete

Cari amici, 
è con soddisfazione che annunciamo la nascita di un nuovo blog, nato anche grazie al nostro consiglio, per portare sulla Rete e nella nostra rete di monarchici un nuovo, consistente e prestigioso contributo: Nuove Sintesi.

Nuove sintesi è un giornale che ha preso vita mentre gli altri giornali monarchici morivano, cioè nell'aprile del 1983, pochi giorni dopo la morte del Re Umberto II.


Nel corso di 30 anni non ha mai cessato le pubblicazioni, grazie alla volontà del direttore Michele D'Elia, professore, e presidente emerito della Provincia di Milano ed ha tenuto sveglia l'attenzione dei monarchici, e non solo, grazie anche a firme di vera qualità .


Con calma gli articoli del giornale finiranno sulla Rete, non necessariamente in ordine cronologico,  a testimonianza di come ci sono tra noi ci siano teste che pensano, che agiscono, in barba ad ogni difficoltà.

Buona lettura e benvenute, Nuove Sintesi.

www.nuove-sintesi.blogspot.it

martedì 17 luglio 2012

La Spagna è in crisi? E il re si taglia lo stipendio


Juan Carlos e il principe Felipe riducono appannaggio del 7,1% secondo il piano di austerity varato da governo Rajoy

La Spagna è in crisi? E il re si taglia lo stipendio. Juan Carlos ha ridotto il suo appannaggio del 7,1% secondo quanto previsto dal piano di austerity del Paese. Dopo la maxi stangata del governo di Mariano Rajoy per ridurre di 65 miliardi del deficit nazionale, il re spagnolo ha deciso di dare il buon esempio e ha tagliato del 7,1% il suo salario lordo, così come quello del principe delle Asturie, Felipe. Nella stessa percentuale saranno tagliate le spese di rappresentanza assegnate al resto della famiglia reale spagnola.

[...]


lunedì 16 luglio 2012

Assemblea Costituente Monarchica


Roma, Sabato 13 ottobre 2012, dalle ore 9.00 alle ore 19.30 al
Piazza della Minerva, Roma, 69 - 00186 Roma
per informazioni scrivere a costituentemonarchica@yahoo.it

Evento sul Social-network Facebook al presente indirizzo:

domenica 15 luglio 2012

Amedeo I: le altre monete da 25 e 100 Pesetas d’oro


Figlio del Re italiano Vittorio Emanuele II, Amedeo I, fu proclamato Re di Spagna il 2 gennaio del 1871. Fino ad allora, chi deteneva il potere in Spagna desiderava instaurare una Monarchia Costituzionale – per questo scelsero un re straniero e crearono il sistema del mandato.
Amedeo I fu il primo re di Spagna ad essere stato scelto dal Parlamento. Egli ebbe contro alcuni membri come i Carlisti, i Borboni, la chiesa e il popolo che lo consideravano poco simpatico e con troppe lacune nella lingua spagnola.
Alla morte del generale Prim, la coalizione politica che Amedeo I mise al potere si dissolse poco a poco. Le pressioni delle rivolte federali, la perdita del sostegno dei capitalisti e la guerra carlista spinsero il re italiano a rinunciare al trono l’11 febbraio 1873.
Dei suoi 2 anni di regno, furono concepiti due punzoni con la sua effigie per le monete da 5, 25 e 100 pesetas – alcune furono coniate come prova.
[...]

giovedì 12 luglio 2012

L'allegoria di Roma


E' sintomatico. Non possiamo pensare che sia un caso. L'allegoria di Roma, affresco del 1884 posto nella volta della Sala della Lupa che noi monarchici ben conosciamo per essere il luogo nel quale il presidente della Corte di Cassazione lesse i risultati del referendum istituzionale del 1946 ma NON proclamò la repubblica, cade a pezzi.
Non possiamo che constatare che anche in questo caso l'allegoria è quanto mai rappresentativa. 
Se una volta quanto vi era rappresentato voleva esaltare le glorie della Nazione Italiana che si era data Roma per capitale questa volta la sua rovina, oltre ad essere materiale, è sicuramente simbolica del cadere a pezzi  di quella istituzione repubblicana che proprio in quella sala vide la luce, poca, con un parto pilotato il 18 giugno del 1946 dopo il "golpe" di De Gasperi.
L'episodio è ancora più intrigante in quanto da poche settimane proprio davanti alla Sala della Lupa è stato riposizionato il busto di Re Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia e vero Padre della Patria Italiana che evidentemente si sarà stancato di assistere allo scempio di quella che fu creatura sua e di persone nobilissime che all'Italia tutto sacrificarono.

Siamo felici che non si sia fatto male nessuno, cristiana carità ci impedisce di pensare diversamente, ma speriamo che quelli che indegnamente occupano le istituzioni italiane si rendano conto di quali altri, ben altri, crolli si stanno rendendo colpevoli.

La Monarchia Sabauda ed i problemi sociali VIII parte


VIII -  IL QUINQUENNIO DI PROSPERITA' (1883-1887) E LA CRISI ECONOMICA (1888-1894) - ASSASSINIO DI UMBERTO I, IL RE BUONO

Il 1876 segna il passaggio del governo del Paese dalla Destra alla Sinistra storica.

La Destra storica, che tanto aveva contribuito all'edificazione della Patria, era costituita da «un'aristocrazia dalle bellissime tradizioni, per cui potere e dovere, autorità e sacrificio, responsabilità verso il popolo e verso Dio erano le due facce di un'unica medaglia...», e da «alcuni uomini di una borghesia, se non agiata non povera (Minghetti, Sella, Lanza; tra i più giovani, Visconti-Venosta): dedicatisi alla vita pubblica quando sembrava non offrire che pericoli, quando non aveva alcun significato ironico il termine di sacrificio, usato a designare l'abbandono dei propri affari, della, propria professione, per le candidature politiche o gli uffici -di governo » (26). Seppure «il minor scrupolo, il marcio di approfittare della posizione politica per ottenere agevolazioni economiche... allignasse soprattutto negli "homines novi", negli appartenenti alla Sinistra: restandone salvi i veterani della Destra» (27), alla Sinistra, che prometteva riforme e progresso, si dovettero: l'introduzione del. l'obbligatorietà dell'istruzione elementare (legge Coppino); l'allargamento del diritto elettorale alla media e alla piccola borghesia; l'abolizione di alcune tasse, tra le quali quella impopolare del macinato; una grande attività di lavori pubblici soprattutto nel sud.

L'aumento delle spese pubbliche, conseguente a tali lavori e alle altre iniziative del governo, fece riapparire il disavanzo, la cui eliminazione era stato un grande merito della Destra; un nuovo aumento delle tasse condusse al pareggio, benemerenza del ministero Crispi-Sonnino (1893-1896).

Sotto l'aspetto economico, l'età « umbertina » vide succedere al quinquennio di prosperità, iniziato nel 1883, la crisi economica del periodo 1888-1894.

La rinascita degli anni dal 1883 al 1887, in parte causata dalla abolizione del corso forzoso (1882), che determinò il ritorno in Italia dei capitali stranieri allontanatisi dopo il 1866, ebbe come riflesso l'eccedenza attiva del bilancio e l'aumento continuo delle entrate statali.

I primi segni della crisi vennero dalle campagne e furono conseguenza della discesa dei prezzi: la tariffa doganale del 1887, mentre difendeva i settori industriali, lasciava scoperti quasi tutti i settori agricoli, deprimendo le condizioni di quella che era la più importante fra le attività economiche nazionali. Peggio fu quando la guerra commerciale con la Francia colpì disastrosamente le nostre esportazioni di vino, seta greggia e ritorta, riso, bestiame e prodotti del caseificio: tutte le regioni italiane ne soffrirono ed il numero degli emigrati, che dal '76 all'83 era salito da 196,10 a 63388, continuò a salire per raggiungere nel 1888 la cifra elevatissima di 204264 e mantenersi negli anni successivi sempre nettamente al di sopra delle centomila unità. Fini con il soffrirne anche l'industria, nonostante le protezioni doganali, per il diminuito consumo interno di manufatti, conseguenza del peggioramento notevole delle condizioni economiche generali. Agli scioperi agrari, quasi tutti localizzati nella bassa Valle padana, dove era numerosissimo il bracciantato, si aggiunsero quelli industriali, saliti da una media annua di 35, negli anni dal 1879 all'82, ad una media annua di 151 nell'88-92 (28).

Su Re Umberto I così scrisse, nelle sue memorie, il più grande ministro italiano dopo Cavour: 
« Nei rapporti che ebbi col Re, egli mi apparve come un uomo molto semplice, molto cortese e correttissimo dal punto di vista costituzionale; non notai in lui prevenzioni di -sorta contro una politica liberale e democratica. Egli intendeva con allo senso di responsabilità la sua funzione e s'informava moltissimo delle cose di Stato, interessandosi di tutto, ma in particolar modo della politica estera e delle cose militari » (29).

Il quadro, per quanto favorevole e lusinghiero, non è però completo. E non giova certo a comprendere la figura del Re ricordare che firmò lo stato d'assedio in seguito alle manifestazioni popolari del 1893, con Crispi al governo, e del 1898, con di Rudinì; firmò, perché era suo dovere di Sovrano costituzionale, ma ai governi e non a lui risale la responsabilità delle severe repressioni.

Giova invece rammentare il suo prodigarsi in occasione di eventi dolori, che gli procurò l'appellativo di « Re buono »: le inondazioni del Veneto del 1882; il terremoto di Casamicciola del 1883; il colera del 18,84 nel cuneese e a Napoli; lo scoppio di Porta Portese a Roma.

Cadde, come altri capi di Stato del tempo: Alessandro Il di Russia, il presidente degli Stati Uniti Giacomo Garfield, il presidente della repubblica francese Sadi Carnot e l'imperatrice Elisabetta d’Austria, vittima di un folle anarchico, espiatore di colpe che non erano sue, ma che la propaganda sovversiva, in quegli anni particolarmente attiva, falsamente gli attribuiva. Il cordoglio della nazione fu immenso e profondo, come nei confronti di un padre.

Si è accennato, nel capitolo VI, che dalla teoria della « colpa soggettiva », nel campo degli infortuni sul lavora, si era passati gradualmente a quella, molto più favorevole al prestatore d'opera del «rischio professionale». Altri fondamentali progressi furono compiuti con la legge 8 luglio 1883, sul l'assicurazione facoltativa, e soprattutto con la successiva 17 marzo 1898, n. 80, che istituì l'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro nella industria, con contributi a carico dei datori di lavoro.

Non passeranno molti anni che la tutela sarà estesa ai lavoratori agricoli, per i quali già nel 1892 si era costituita l'Associazione mutue di assicurazione contro gli infortuni agricoli di Vercelli, seguita presto da analoghe associazioni in altre provincie.

Altro importante provvedimento fu costituito dal riconoscimento giuridico delle Casse di mutuo soccorso, costituite in Piemonte attorno alla metà del secolo e poi estesesi in tutta Italia, con lo scopo di assicurare i lavoratori contro il rischio di malattia, disoccupazione, invalidità e vecchiaia, morte: il riconoscimento avvenne con la legge n. 3818 del 15 aprile 1886.

Si ricordi ancora che, con la legge 17 luglio 1898, n. 350, creatrice della Cassa di previdenza per gli operai, il governo introdusse il principio dell'assicurazione sussidiata di invalidità e vecchiaia, consistente in un contributo statale onde invogliare i lavoratori ad assicurarsi spontaneamente. L'assicurazione facoltativa contro l'invalidità e la vecchiaia era già stata introdotta con la legge 15 luglio 1859, proposta il 9 febbraio dell'anno precedente dal Conte di Cavour. 
Di pari passo ai progressi della nostra economia e all'estendersi della questione sociale, i governi della Monarchia perfezionavano e aumentavano le provvidenze a favore dei lavoratori, ai quali si schiudeva un avvenire meno oscuro, più libero e socialmente giusto.


(26) ARTURO -CARLO JEMOLO: « Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni », Einaudi, Torino, 1952, pagg. 407, 408.

(27) ARTURO CARLO JEMOLO, opera citata, pag. 408. 

(28) GINO LUZZATTO: « Storia economica d!ell'età moderna e contemporanea - Parte seconda: l'età contemporanea », CEDAM, Padova, 1948, da pag. 389 alla fine del volume.

(29) GIOVANNI GIOLITTI: « Memorie della mia vita », Treves, 1929.

martedì 10 luglio 2012

Un'intervista (rubata) a Vittorio Emanuele III


Come un giornalista , finto tenente di vascello, riuscì ad avvicinare il Re in esilio.
dal quotidiano "La notte", sabato 22 settembre 1979

"Sua Maestà la riceverà con molto piacere."

Così mi fece dire, per telefono, il colonnello Tito Torella aiutante di campo dell'ex re Vittorio Emanuele III, o « conte di Pollenzo », nel dicembre 1946, ad Alessandria d'Egitto; lo fece dire proprio a me giornalista. sebbene fosse noto che i giornalisti Vittorio Emanuele III non li aveva mai amati e che, a maggior ragione, non intendeva riceverne nessuno durante l'esílio. A trentatrè anni di distanza rievoco l'episodio - del quale non vado orgoglioso -, soltanto perché la nostra televisione ha portato vigorosamente alla ribalta la figura dell'ex re, piccolo di statura; rievocando, debbo necessariamente spiegare grazie a quali circostanze riuscii ad ottenere il colloquio «impossibile».

Dicembre 1946, dicevo poc'anzi. In quel periodo, di armistizio ma non ancora di pace, due nostre corazzate, l'«Italia» e il «Vittorio Veneto», si trovavano ai Laghi Amari, ossia a metà del Canale di Suez, in stato di internamento; comando ed equipaggio continuavano ad essere italiani, ma alle due navi, già orgoglio della nostra Marina, non era dato di lasciare l'ancoraggio. Avevo raggiunto l'«Italia» a bordo d'un caccia, il «Mitragliere», che, facendo la spola fra Taranto ed Egitto, avvicendava il personale delle corazzate; nell'ambito di quell'avvicendamento, assumeva il comando in prima dell' «Italia» il capitano di vascello Emesto Pellegrini, mio cugino. Per quanto riguardava me, dovevo svolgere un servizio sulla nostra gente ai Laghi Amari col pieno consenso del Ministero della Marina.

La particolare posizione giuridica dell'«Italia» e del «Vittorio Veneto» non avrebbe ammesso contatti con la terraferma, del resto non vicinissima, ma in pratica sia gli inglesi - tuttora installati in Egitto e in special modo lungo il Canale - sia gli egizíani chiudevano un occhio sullo sbarco pomeridiano dei «franchi» (i marinai liberi da servizio), a scopo di generico svago e di piccoli acquisti nelle baracche sorte ai margini del semideserto. Agli equipaggi si permetteva pure, più o meno eccezionalmente, di recarsi a Suez; se invece il viaggio avesse avuto altre mete, esso avrebbe violato ogni limite di tolleranza. Tuttavia, nei mesi precedenti qualcuno di bordo s'era spinto, naturalmente in abito civile, nientemeno che ad Alessandria, col preciso scopo di visitarvi Vittorio Emanuele III. Interrogai, e mi venne detto che l'ex sovrano riceveva senza difficoltà gli uf ficiali della nostra Marina; allora cominciai a intravedere la possibilità di avvicinarlo a mia volta.

In breve: c'era chi, sull’«Italia». conosceva ad Alessandria la famiglia Almagià, composta di israeliti italiani che teneva i contatti con Vittorio Emanuele III attraverso il colonnello Torella; munito dei mio passaporto ma privo dei visto egiziano, mi recai al Cairo e quindi ad Alessandria, senza incappare in alcun controllo; giunto a destinazione mi presentai a casa Almagià, affermando di essere cugino del comandante Pellegrini, nonché tenente di vascello, ossia ufficiale di Marina. Questa seconda parte del discorso era, semplicemente falsa. Ma la prima, ineccepibile, funzionò energicamente. Donde, quel «Sua Maestà la riceverà con molto piacere», che gli Almagià, una sera, mi comunicarono, precisando giorno e ora dell'appuntamento.

Eccomi dunque l'indomani mattina, alle undici meno cinque, in una zona residenziale detta Smuha City, alcuni chilometri fuori del centro. Fra i rami delle acacie di via Constantin Choremi si profila villa Iela, di media mole, piccola come villa, grande come villetta, semplice, moderna; il piano rialzato dà su una terrazza coperta e il primo piano, su un'altra terrazza, ariosa; sottili tendine bianche velano i vetri. Un muricciolo cinge villa e giardino; presso il cancello con il nodo di Savoia sta una garitta, un poliziotto egiziano vigila. E il colonnello Torella è già in attesa, mi accompagna per una lista di cemento e per pochi gradini sino al piano rialzato, dove un maggiordomo italiano, in giacca bianca, mi introduce; Torella se ne va, il maggiordomo sale ad avvertire Vittorio Emanuele.

Il conte di Pollenzo

In un armadio a muro della minuscola stanza d'ingresso si allineano doppiette e carabine di vari calibri; in alto, gli astucci; in basso, cartucce di marca italiana. (Sebbene Vittorio Emanuele fosse buon cacciatore, credo che le armi venissero usate dai suoi familiari; egli, invece, preferiva notoriamente la pesca e continuava a praticarla in Egitto, dove il mare gli offriva soddisfazioni copiose). Un saloncino arredato con eleganza s'apre a sinistra; vasti tappeti e le poltrone e un divano creano un ambiente soffice. Verso le finestre, un pianoforte: sull'altro lato, una grossa radio. Parecchi soprammobili di pregio, paesaggi, fotografie delle figlie e dei nipoti di Vittorio Emanuele, re Boris con l'elmetto di guerra. Sulla parete di fronte all'ingresso campeggia un grande quadro di Umberto II «conte di Sarre» in divisa di generale, su sfondo turchino cupo.

Dal saloncino, una scala conduce al primo piano. Due minuti, e il «conte di Pollenzo» compare sull'alto di quella scala, ne discende oscillando un poco per via della statura e dell'età, mi s'avvicina, stringe la mano a me sull'attenti, mi dà il buon giorno con aria sorridente e cordiale. So di persone ricevute da lui anche a lungo, ma sempre, in piedi; nel mio caso. l'ex re mi precede subito in un attiguo e mi fa sedere dinanzi a lui.

Pellegrinaggio a El Alamein

Di buona cera, diritto asciutto, Vittorio Emanuele veste un abito a un solo petto di tessuto spigato color nocciola, e un panciotto grigio di lana pesante, sul colletto bianco rigido la cravatta blu è ben annodata; lucide a specchio le scarpe, nere, alte. Sembra calvo perché tiene i capelli quasi rasati, mentre ha discretamente fitti i baffetti bianchi spiovono sopra il labbro superiore; gli incisivi, un poco giallastri, si sono radunati nella forma complessiva dì una V. Segni di stanchezza e di vivacità si alternano negli occhi sempre penetranti; sul volto, le rughe non sembrano troppo numerose e comunque non infieriscono; le mandibole, invece, s'afflosciano in due borse che, a mento basso, si inturgidiscono lateralmente. Curate alla buona, le unghie; mani, con qualche screpolatura e qualche lentiggine. Vittorio Emanuele ha tracce di accento piemontese nella parlata, cui s'alternano momenti di cadenza centrale.

Chiestomi di dove sono e saputo che ho raggiunto l'Egitto con una nave da guerra, il «conte di Pollenzo» avvia il discorso sulla Marina, accenna alla vulnerabilità delle corazzate di fronte ai mezzi moderni d'offesa; si rammenta del capitano di vascello Pellegrini - già comandante dell’incrociatore «Scipione l'Africano» in un vittorioso combattimento notturno contro motosiluranti statunitensi - anche perché, nel settembre di tre anni prima, proprio sullo «Scipione» aveva inciso un disco, contenente il suo proclama al popolo italiano. Poi, la conversazione tocca un punto affermato da alcuni, smentito da altri; il «conte di Pollenzo» lo chiarisce parlando a lungo della sua visita a El Alamein nel precedente giugno, cioè appena arrivato in Egitto, benché non ne avesse avuto l’autorizzazione ufficiale. «Il permesso tardava, probabilmente ci sono ancora troppe mine nella zona. Allora partii lo stesso e... non sono saltato, come lei vede».

Vittorio Emanuele esce in una risatina di tono basso, aspirata come usano gli scandinavi; riprende quindi il tema di  prima narrando dei cimiteri di guerra di El Alamein e sottolineando: «Gli ufficiali inglesi delle Life Guards ancora dislocati qui in Egitto, ricordano la “Folgore" come una divisione eroica, me lo ha riferito una mia nipotina».

Torna alle mine ed alla difficoltà di rastrellarne il deserto; cito la sorte sanguinosa della maggioranza degli sminatori romagnoli nell'immediato dopoguerra; «mia moglie è di origine romagnola», soggiungo, e Vittorio Emanuele mi chiede di dove. «La famiglia, di Fusignano e di Bagnacavallo».

«Già - commenta -, vicino ad Alfonsine e a Lugo, oh, conosco bene quei posti, li ho girati parecchio». E, date le tradizioni istituzionali di Romagna, che Vittorio Ernanuele li abbia sulla punta delle dita non v'e da sorprendersi, ma il collaudo della sua proverbiale memoria ferrea e della sua conoscenza d'ogni particolare d'Italia non poteva riuscire più positivo.

Il monte Grappa la Slovenia, gli incidenti avvenuti a Padova pochi giorni prima, fra popolazione ed inglesi; ecco altrettanti spunti della nostra conversazione, svoltasi a ruota libera e senza etichetta, benché al «conte di Pollenzo» si continuasse a rivolger la parola col titolo di «maestà». A proposito di Padova, il «conte di Pollenzo» soggiunse: «I pasticci sono inevitabili. se quel soldati si mettono a fare gli impertinenti». Sicuro, il pensiero di Vittorio Emanuele era palesemente volto all'Italia; si rammaricava, l'ex re, che i nostri giornali non giungessero in Egitto per via aerea e che quindi fossero sorpassati dagli avvenimenti; del settimanale (comunista) di lingua italiana edito al Cairo sino a poche settimane prima, feroce contro la monarchia, disse sorridendo, con umorismo distaccato: «Era un po' malignetto, con noi Savoia». Momento di silenzio. Ma Vittorio Emanuele, nonostante i suoi settantasette anni compiuti, era rimasto rapido nella percezione e nella parola, per cui rimedio subito al passeggero disagio abbordando il tema generico della casa: «Vede quanto spazio sprecato, con quel saloncino e questo salotto. Tanto più che noi non riceviamo mai nessuno».

E si ricomincia a conversare e, di fronte alla sfacciata comparsa di due mosche, l'ex re commenta sarcastico «fasto orientale...» riferendosi, come poco prima, alla casa. Ma basta quell'accenno all’Oriente perché vengano a galla 1’Egitto, i problemi sociali ed economici del mondo arabo, e quelli religiosi e morali e politici quando, a mia volta, rievoco il disprezzo per la morte negli antichi conquistatori islamici, attratti dal miraggio d'un al di là favoloso, Vittorio Emanuele prosegue, col tono volutamente monotono di chi recita a memoria: «Già, Il paradiso con le Urì dalla pelle bianca come uova di struzzo sepolte sotto la sabbia del deserto... In passato, ho studiato molto il Corano, ma chi se ne ricorda più?». Il medesimo tono di velato rimpianto, di amarezza inconfessata, affiora in una delle ultime frasi del colloquio: «Adesso io non conto più nulla. C'è mio figlio che...».

Le undici e venti. Sono passati esattamente venti minuti. Vittorio Emanuele si alza dalla poltroncina, dà un'occhiata ai piatti sbalzati del salotto, passa nel saloncino che serve da stanza di soggiorno, accenna con la mano alle pareti: «Ho portato via dei quadri...»; rettifica: «Mi hanno lasciato portar via dei quadri...», e mi fa osservare un buon dipinto di un veliero sul mare forte, dove brillano, sotto il cielo cupo, soltanto pochi raggi del sole al tramonto.

- Arrivederla, buone cose.

Io, di nuovo, sull'attenti; una stretta di mano. Il «conte di Pollenzo» ritorna al primo piano salendo la scala lentamente, con qualche fatica.

L'incontro con Elena di Savoia

Rimasi solo. Non v'era Torella, non il maggiordomo. Attesi un paio di minuti, incerto, scosso dall'incontro eccezionale: concentrai lo sguardo sui vari elementi del saloncino, per rammentarli il meglio possibile. Poi decisi di uscire, scesi in giardino; dalla via Choremi stava entrando proprio allora Elena di Savoia, in pelliccia nera, eretta, seria; sembrò sorpresa della mia presenza, ne chiese al maggiordomo, comparso in quel momento alle mie spalle. Mi presentai; mi tese la mano. Col mio commiato da villa Iela, non fu finita. Anni dopo, in Germania, incontrai lo scrittore ed amico; Giovanni Artieri storico dei Savoia; ebbene, durante le sue conversazioni con l'ex re Umberto II, a Cascais, Artieri lo aveva sentito rammaricarsi del «tenente di vascello» introdottosi presso il vecchio padre. Artieri me lo riferì in via di discorso, senza forse sapere di parlar proprio con il reo; lì per lì rimasi interdetto, addolorato che un episodio ormai vecchio potesse ancora avere una scia; né osai dire «quel "tenente di vascello" ero io». Rimediai il 19 marzo 1951, incontrando Umberto II a Cannes, durante una visita basata sul mondo sottomarino. Nel presentarmi in quella circostanza, volli infatti sillabare il mio cognome, non senza aggiungere che dovevo farmi perdonare qualcosa. Sulle prime, Umberto II rimase perplesso, poi mi batté amichevolmente con la mano su un braccio, rispondendo: «Va bene, va bene, ciao». Sorrideva con cordialità, sembrava un pochino commosso. Suo padre era morto il 28 dicembre 1947, giusto un anno dopo il colloquio col «tenente di vascello».

Lino Pellegrini

martedì 3 luglio 2012

Regno Unito, monarchia costata 200mila sterline in più in ultimo anno

Con invidia guardiamo alla trasparenza dell'Istituzione Monarchica Inglese, soprattutto se contrapponiamo a questa l'opacità della italica presidenza della Repubblica.
La Regina si preoccupa di far sapere che le sue spese ( un sesto di quelle italiane per il proprio capo dello stato) sono aumentate di 249000 euro su 40,2 milioni mentre a noi il Quirinale repubblicano costa 260 milioni di euro. E mentre sono disposti a tagliare le pensioni minime non tagliano un solo centesimo di queste spese assurde. 
Cosa aggiungere?





Londra (Regno Unito), 2 lug. (LaPresse/AP) -
 Il finanziamento della monarchia britannica nell'anno fiscale terminato il 31 marzo 2012 è costato ai contribuenti 200mila sterline (circa 249mila euro) in più rispetto allo scorso anno. Lo ha annunciato oggi Buckingham Palace, precisando che con questo aumento il totale è salito a 32,3 milioni di sterline, pari a 40,2 milioni di euro. Gran parte di questo incremento è attribuibile agli alti costi per i viaggi della regina e all'organizzazione delle celebrazioni per il Giubileo di diamante. Nell'annunciare i dati il palazzo reale ha anche fatto sapere che sono state messe in pratica anche delle misure di taglio ai costi su diversi fronti. Fra tali provvedimenti figurano congelamenti degli stipendi, riduzione dei costi per la gestione dell'ufficio stampa e rinvii alle programmate operazioni di manutenzione delle varie proprietà reali.

http://www.lapresse.it/mondo/europa/regno-unito-monarchia-costata-200mila-sterline-in-piu-in-ultimo-anno-1.185164