NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 28 luglio 2012

Alfredo Misuri, il “monarchico-fascista”



di: Gaetano Marabello

Bazzicando i mercatini dell’usato, capita naturalmente d’imbattersi in qualche scritto ingiallito dal tempo e pressoché dimenticato da tutti.
Spesso è pura paccottiglia, ma di recente m’è venuto tra le mani un pamphlet interessante del 1945 a firma di Alfredo Misuri.
Edito quando ormai la guerra in Italia stava per concludersi, s’intitolava “Giustizia o rappresaglia?” ed aspirava ad essere un “Contributo alla pacificazione”. L’autore – oggi noto solo agli studiosi e a qualche vecchio monarchico - vi riferiva i suoi tentativi, espletati nel luglio dell’anno precedente, per “influire sul Conte Sforza”, perso di vista dalla lontana estate del 1922 in concomitanza della crisi del governo Giolitti. Egli premetteva di sentirsi ormai svincolato dal mantenere ulteriormente il riserbo sull’episodio, in quanto il famigerato decreto luogotenenziale del 27 luglio ’44 aveva vanificato ogni sua illusione d’evitare l’emanazione di norme epuratrici.
Pubblicando quindi la corrispondenza intercorsa, si prefiggeva di evidenziare i suoi sforzi per evitare vendette contro quei fascisti che avevano appoggiato, in buona fede o per necessità, il regime. In particolare, egli difendeva coraggiosamente gli squadristi della prima ora, che non avevano “percorso una carriera” o “accumulato fortune” essendo stati scalzati dagli “squadristi di scarto”. Questi ultimi appartenevano a quella “infornata” di “centottantamila domande”, presentate a fascismo trionfante e miranti a procurarsi il relativo “fascio littorio rosso inquadrato nel distintivo a losanga sull’abito civile ovvero il galloncino rosso sulla manopola dell’uniforme”. Era l’immancabile schiera di profittatori, che – come si sa - concorreranno anche ai titoli di marciatori su Roma e infine di partigiani dopo il 25 aprile.
Alfredo Misuri, il quale sapeva bene quel che diceva, calcolava invece le schiere di tutti gli squadristi autentici “a sette o ottomila, a voler esser larghi”. Si trattava di gente, che spontaneamente aveva cominciato ad opporsi alle violenze socialcomuniste, senza possedere organizzazione di sorta e tanto meno “camicie nere o gradi”. Questa piccola “massa originariamente violenta, impreparata, ma pura” – secondo Misuri - in un secondo momento venne tenuta in rispetto dalle “squadracce, favorite e protette dai capi di Milano”. Egli parlava per conoscenza diretta dei fatti, essendo stato a Perugia uno dei primi ad opporsi ai “rossi”. In tale veste, aveva guidato nel ’21 alcune spedizioni fortunate, che riportarono la bandiera nazionale a sventolare sui comuni di Gubbio e Terni.
Insomma, era uno di quei pochi e veri fegatacci che avevano consentito al movimento fascista d’espandersi in una terra difficile come l’Umbria. Ne era stato però ripagato con l’ostracismo da parte dei tanti arrivisti o attaccabrighe del posto, che ingaggiarono con lui un duro confronto interno per la conquista del potere. Stando alla ricostruzione fatta da Leonardo Varasano nel saggio “L’Umbria in camicia nera (1922-1943)”, si sarebbe trattato né più né meno di una contrapposizione di tipo classista. Essa avrebbe visto le vecchie èlites di proprietari terrieri (cui apparteneva Misuri) fronteggiare per la leadership la massa dei piccoli borghesi (Uccelli, Iraci, Fortini, Bastianini e Felicioni). Lo scontro si concluse di lì a poco con l’affermazione dei settori più numerosi e popolari, che si assicurarono il controllo della realtà locale per quasi l’intero Ventennio.
Queste opposizioni non impedirono tuttavia a Misuri d’ottenere ben centodiecimila voti alle elezioni del 15 maggio 1921 e d’entrare così alla Camera come deputato del blocco di “Alleanza Nazionale”.

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