NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 31 maggio 2021

Sant'Elia di Palmi, la storia dell'hotel bombardato e il mistero dell'ultimo Re d'Italia

Un po' di "gossip"... (nota dello Staff)


di Saverio Caracciolo


Era il 3 giugno del 1932 quando i principi di Piemonte, Umberto II di Savoia e Maria José del Belgio, arrivarono a Palmi in occasione dell'inaugurazione del monumento ai caduti, una pregevole opera in bronzo dello scultore Guerrisi. Il futuro e ultimo Re d'Italia restò affascinato da luoghi e panorami, soprattutto dal Sant'Elia, il monte che sovrasta Palmi con i suoi seicento metri d’altezza e una vista mozzafiato sullo stretto di Messina e la Costa Viola. Proprio qui sorgeva l'hotel Aulinas, struttura che ospitò per anni numerosi personaggi illustri.

Il 2 giugno 1946

 di Pier Franco Quaglieni

Il Polo rosso del ‘900 che otterrà via del Carmine pedonalizzata (vera follia del sindaco Appendino) per poter fare manifestazioni all’aperto, si appresta alla solita novena per il 2 giugno festa della Repubblica. Conferenze, convegni, fuochi d’artificio per festeggiare una data che divise quasi a metà gli Italiani il 2 giugno 1946. Sul referendum ci furono molte ombre e molti legittimi sospetti. Solo sulla figura di Umberto II ci sono solo luci perché egli fu umile, equilibrato e saggio e partì per l’esilio per evitare una  seconda guerra civile agli Italiani. Anche Togliatti con la sua amnistia  dopo il referendum contribuì a distendere gli animi che i comunisti avevano esacerbato in via Medina a Napoli, pochi giorni prima della partenza del Re dove dei giovani monarchici persero la vita in violenti scontri con la polizia e comunisti. Il Sud e Napoli in particolare fu tutto monarchico. Mi piacerebbe che un Polo che vuole rappresentare il ‘900, non dimenticasse – oltre le Messe cantate per  il ministro degli Interni Romita – la figura del Re e metà degli Italiani che, a torto o a ragione, votarono, malgrado una guerra perduta, per i Savoia. Diversamente, il Polo sarebbe ancora una volta strumento di propaganda politica settaria, che è l’esatto opposto della storiografia.

https://iltorinese.it/2021/05/30/la-rubrica-della-domenica-di-pier-franco-quaglieni-100/

Quando e come vinse la repubblica, 10-19 Giugno 1946

 




di Aldo A. Mola

 

Le Due Italie: Costituente e Referendum

Il 2-3 giugno 1946 circa 25 milioni di cittadini si recarono a 35.000 seggi per scegliere tra monarchia e repubblica ed eleggere 555 componenti dell'Assemblea Costituente. Gli aventi diritto al voto erano 28 milioni. Tre milioni, cioè più del 10%, non poterono votare. Un milione e mezzo erano ancora prigionieri di guerra o “dispersi” (l'Unione sovietica li restituì col contagocce), privati del diritto di voto per motivi politici o abitanti nella provincia di Bolzano e nella XII Circoscrizione (Venezia Giulia), escluse dal voto perché la loro sorte era incerta. A un altro milione e mezzo non fu consegnato il certificato elettorale. La legge assegnò alla Corte Suprema di Cassazione il compito di annunciare l'esito del voto, non di “proclamare” il vincitore. Il suo presidente, Giuseppe Pagano, magistrato di specchiata rettitudine, alle ore 18 del 10 giugno 1946 prese atto che i risultati non erano definitivi. Mancavano quelli di un centinaio di seggi. Il vantaggio della repubblica sulla monarchia era di quasi due milioni di preferenze e quindi appariva incolmabile, però bisognava attendere l'esito definitivo. Pertanto rinviò a un'adunanza successiva e chiese che fosse accertato “il numero complessivo degli elettori votanti e quello dei voti nulli”, sino a quel momento non conteggiati.

Per comprendere la portata della richiesta occorre ripercorrere sinteticamente l'operato degli Uffici elettorali circoscrizionali e di quello Centrale dal 3 al 9 giugno e nei giorni tra l'11 e il 18. Il computo dei voti, l'esame dei ricorsi e la ratifica delle operazioni di voto ebbero un corso separato rispetto agli eventi propriamente politici che si snodarono dalla chiusura dei seggi, durante gli scrutini e il controllo dei loro esiti da parte dell'Ufficio Elettorale Centrale e la pubblicazione dei risultati dell'Assemblea Costituente. Gli elettori votarono due diverse schede. Dalle urne uscirono due Italie differenti: da una parte, alla Costituente, vinsero nettamente i partiti dichiaratamente o prevalentemente repubblicani; dall'altra, al referendum, il vantaggio della Repubblica fu modesto, a lungo contestato ed è ancora discutibile. Però l'Italia era una sola e la Costituente doveva “tagliare l'abito” su un corpo definito e definitivo: la Repubblica. Il Paese visse giorni di tensione, che dal 13 si attenuò e non dette più luogo a scontri. Mostrò la sua maturità democratica, grazie ai milioni di cittadini monarchici che si adeguarono al Proclama di Umberto II. Il Re li aveva sciolti dal giuramento di fedeltà alla Corona ma non alla Patria di cui, come suo padre Vittorio Emanuele III, era stato e sarebbe rimasto strenuo difensore sino alla morte. Il suo motto era “Italia innanzi tutto”.

 

Grande frode?

Tra marzo e aprile il ministro dell'Interno Giuseppe Romita, come Pertini e Nenni più monarcofago che repubblicano, aveva diramato istruzioni minuziose su tempi e modi della comunicazione dei risultati. I prefetti, che ne dipendevano, ogni quattro ore dovevano comunicare a Roma l'affluenza alle urne e gli esiti degli scrutini, indicando via via i voti ottenuti dalla repubblica e dalla monarchia: solo quelli. La somma complessiva dei dati parziali ebbe un andamento altalenante, secondo la rapidità dello spoglio delle schede. Contro ogni previsione, la monarchia parve a lungo vincente. Nella notte fra il 4 e il 5 la repubblica passò in testa. Le edizioni mattutine di alcuni quotidiani anticiparono il suo vantaggio: due milioni di voti. Poche ore dopo Romita lo confermò in un'affollata conferenza stampa.

L'8 giugno, con i mezzi più rapidi, aerei inclusi, cominciarono ad affluire alla Corte Suprema di Cassazione sacchi e plichi non sempre ben sigillati “contenenti atti e documenti relativi al referendum sulla forma istituzionale”. La Corte, però, non ebbe affatto tempo e modo di esaminarli: era alle prese con i primi ricorsi contro la validità della consultazione, non per “cavilli” (come riduttivamente asserisce Antonio Carioti nella “Lettura” del “Corriere della Sera”) ma per motivi legali, cioè formali e sostanziali. La prima obiezione riguardò l'esclusione dal voto della XII Circoscrizione e della provincia di Bolzano. Secondo i ricorrenti (Edgardo Sogno, già comandante della formazione partigiana “Franchi” e poi Medaglia d'Oro al Valor Militare, ed Enzo Selvaggi per il Partito democratico italiano) la comunicazione dei risultati del referendum andava sospesa sino a quando non fossero stati consultati anche i loro elettori. La Corte sentenziò che quella esclusione e la sua sanatoria spettavano al potere politico, nel cui merito essa non aveva titolo di interferire. Respinse molti ricorsi perché esulavano dalle sue competenze, compresi quelli di cittadini che protestavano perché, arrivati ai seggi, scoprirono che qualcuno aveva già votato al loro posto, o perché non erano riusciti a ottenere il certificato elettorale dagli uffici competenti, oppure perché i seggi erano stati chiusi anzitempo o per i più svariati motivi affioranti dalla documentazione conservata nel fondo “Corte Suprema di Cassazione” all'Archivio Centrale dello Stato. Quelle carte rivelano centinaia e centinaia di brogli e una moltitudine di pasticci. Non ne emerge in alcun modo, tuttavia, la “grande frode” spesso imputata al ministro dell'Interno, Romita, accusato di aver gettato sulla bilancia della storia due milioni di schede artefatte a sostegno della repubblica o di aver segretamente manipolato le statistiche demografiche ed elettorali circoscrizione per circoscrizione. Operazioni di quella portata avrebbero richiesto la connivenza di una molteplicità di dirigenti apicali dello Stato, di chissà quanti presidenti dei 35.000 seggi e di buona parte dei quasi 300.000 scrutatori, molti dei quali erano monarchici. Un “segreto” noto a migliaia di persone lascia decine di migliaia di tracce. La vittoria della repubblica non fu decisa ai seggi ma in sede politica, cioè dalla delibera del governo, e giudiziaria, per la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione che ribadì il suo vantaggio per due milioni di voti anziché per soli 200.000 o 300.000, come di fatto era.

Per capire quando e come venne superato il dualismo dell'Italia emerso dalle urne occorre ripercorrere pazientemente il corso degli eventi. In vista della seduta del 10 giugno, quando il “segretario di udienza” doveva comunicare alla Corte gli esiti della consultazione, gli scritturali si affrettarono a “tirare le somme”. Nella concitazione afferrarono moduli prestampati e intitolarono a penna le caselle. La carta era preziosa; le operazioni di controllo ne avevano consumata in gran quantità; bisognava far fuoco con la legna rimasta. Al posto di “Numero dei votanti” e di “Voti attribuiti” vergarono due vistose lettere maiuscole “R” e “M” e aggiunsero a matita i dati pervenuti, circoscrizione per circoscrizione, poi li calcarono a inchiostro. Da quelle tabelle risulta che il numero delle sezioni dagli esiti mancanti era nettamente superiore a quello reso noto.

 

Il Presidente Pagano: rispettare la legge

Però la fase più affannata della verifica dei risultati elettorali iniziò quando ormai per la monarchia la partita era persa, dopo la proclamazione della Repubblica da parte del consiglio dei ministri (alle 0.15 di giovedì 13 giugno) e dopo la partenza di Umberto II da Ciampino (alle 16 e 10 dello stesso giorno). Tuttavia bisognava soddisfare la legittima richiesta del presidente Pagano: dare conto analiticamente di schede bianche, nulle, annullate e non assegnate. Nel frattempo uno stuolo di scribi doveva verificare la legittimità di circa 20.000 ricorsi contro gli esiti messi a verbale dai presidenti di seggio.Le due operazioni si svolsero parallelamente in un clima di concitazione crescente del personale addetto perché andavano inderogabilmente chiuse prima delle 18 di martedì 18 giugno, ultimo giorno consentito dal Dll istitutivo del referendum e per placare l'agitazione serpeggiante nel Paese. In Consiglio dei ministri venne persino calcolato quanti minuti i funzionari avessero a disposizione per passare al setaccio ricorsi e proteste. Poiché il personale dell'Ufficio elettorale centrale palesemente non bastava, il ministro di Grazia e Giustizia, Togliatti, mandò rinforzi fidati. Il “Visto”, la risposta sintetica (“respinto”) e l'applicazione del bollo della Corte (quello di Stato aveva ancora le insegne della Corona) azzerò alla svelta  migliaia di contestazioni.

Contemporaneamente, sulla base di verifiche manifestamente incomplete, come emerge dal brogliaccio conservato all'Archivio Centrale dello Stato, i risultati parziali furono “avviati alle macchine calcolatrici”, con data, ora e firma di chi consegnava i moduli compilati e con giorno, ora e firma di chi riceveva in cambio le “strisciate”. Esse recano spunte e, in calce, somme a matita, non sempre esatte. Il computo avvenne senza alcun ordine (per esempio secondo la numerazione delle Circoscrizioni e quindi in sequenza territoriale) ma per singole province, via via che ne veniva completata a verifica. Si svolse fra il 14 e il 16 di giugno.

 

Che cosa si intende per “votante”?

Nel frattempo la Corte Suprema si accinse ad affrontare la questione più spinosa: rispondere ai giuristi che chiedevano di calcolare il quorum per stabilire la vittoria dell'una o altra forma di Stato sulla base del numero dei voti espressi, anziché, come era avvenuto il 10 giugno e nella comunicazione giornalistica, sulla scorta dei soli voti validi. Se quei giuristi avessero ricevuto ragione, il computo avrebbe dovuto tener conto delle schede bianche, nulle, contestate e non assegnate, annotate nei verbali di seggio ma fino a quel momento ignorate. Il vantaggio della repubblica sarebbe così risultato molto meno vistoso: da due milioni si sarebbe ridotto a circa 300.000 voti, cioè dieci per ciascuna delle oltre 35.000 sezioni elettorali. A quel punto era lecito chiedere il controllo delle schede. Però, scaltro e preveggente, in una seduta del Consiglio dei ministri prima ancora del 10 giugno Palmiro Togliatti sibilò che il controllo era impossibile perché “forse” erano già state distrutte. Scuotendo il capo, Riccardo Lombardi, del partito d'azione, una volta paventò che la proclamazione rischiava di essere confutata proprio dal computo finale dei voti.

Il procuratore generale della Corte Suprema, Massimo Pilotti, altro magistrato di indiscussi rigore e competenza, approntò la requisitoria: una quarantina di pagine dattiloscritte a spazio doppio, corrette a mano, conservate all'ACS. Prima della adunanza finale la Corte decise. Pilotti affermò che per votante si intende chi va al seggio, ritira la scheda, accede alla cabina, ne esce e la consegna al presidente che la depone nell'urna. Il Consigliere Enrico Colagrosso asserì invece che per votante s'intende solo ed esclusivamente colui che esprime chiaramente la sua volontà rispondendo al quesito referendario scegliendo l'una o l'altra forma. Le schede bianche o nulle o annullate non contavano perché “quod nullum est, nullum producit effectum”. Vaniloquio. Terminata l'esposizione, il Presidente Pagano aprì la votazione, a cominciare dal magistrato più giovane. Undici approvarono il parere di Colagrosso; per ultimo Pagano si schierò con altri cinque a favore del parere del Procuratore Generale. La “sentenza fu un “colpo di stato” contro la lingua italiana, in linea con la decisione del consiglio dei ministri che, violando la legge, cinque giorni prima aveva proclamato la repubblica mentre non era noto il risultato definitivo del referendum. Non rimase che aprire l'adunanza per ascoltare la recita dei voti registrati dagli Uffici elettorali circoscrizionali delle XXXI Circoscrizioni e la loro somma, enunciata infine dal presidente e messa a verbale. La repubblica superava la monarchia di due milioni di preferenze, ma aveva appena 12.700.000 su 28 milioni di aventi diritto: poco più del 45%. Nacque minoritaria. L'indomani, 19 giugno, fu pubblicato il n. 1 della Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (una sua prima bozza era stata approntata da giorni, ma non vide le stampe) che ne annunciò la nascita. A rigor di logica la “festa della repubblica” dovrebbe dunque cadere non il 2 giugno ma il 19: pericolosamente vicino al Solstizio d'Estate e al San Giovanni Battista caro alle logge che avevano concorso a fondare l'unità nazionale all'insegna fatta propria da Giuseppe Garibaldi: “Italia e Vittorio Emanuele”.

 

Oltre al “come”, il “perché”.

Al di là di ulteriori contestazioni, riserve e critiche in sede giuridica, politica e storiografica, la questione era stata chiusa non solo dalla prevaricazione del governo alle 0.15 del 13 giugno e dalla pronuncia della Corte, ma dalla partenza del Re dall'Italia: un Paese bisognoso di unità, di pace e di ricomposizione della memoria, in vista del Trattato di pace che rettificò il confine italo-francese e amputò traumaticamente quello italo-jugoslavo. In poche ore tutto cambiò.

Raggiunta la famiglia a Cintra, presso Cascais, Umberto II scrisse a Falcone Lucifero di essere rimasto vittima di un “trucco”. Lo documenta Giovanni Semerano in un aureo libretto fresco di stampa. Sentiva profonda nostalgia della Patria e bisogno di comprensione e di com-passione. Non ebbe né l'una né l'altra. A maggioranza dei votanti (non dei suoi componenti) la Costituente approvò la norma transitoria e finale che vietò il rientro e il soggiorno in Italia agli ex re di Savoia, alle loro consorti e ai loro “discendenti” maschi: in tal modo riconobbe la validità della legge salica e delle leggi interne della Casa già regnante, ma confuse diritto civile (“discendenti”) e successione al trono. Il 28 dicembre 1947, tre giorni prima che la Costituzione entrasse in vigore, Vittorio Emanuele III si congedò dalla vita terrena ad Alessandria d'Egitto. Ebbe funerali solenni voluti da re Farouk. Il feretro fu murato nel retroaltare della Chiesa di Santa Caterina. Umberto II morì a Ginevra il 18 marzo 1983. Venne deposto nell'abbazia di Altacomba, in Savoia, accanto agli Avi. Dal dicembre 2017 il “Re Soldato” riposa con la Regina Elena nel Santuario di Vicoforte. Umberto II attende... L'intreccio tra Casa Savoia e storia d'Italia merita di essere conosciuto “sine ira et studio”.

Aldo A. Mola

 

domenica 30 maggio 2021

Capitolo XXVIII: Carnera torna a Sequals e vuole chiudere con la boxe

 



di Emilio Del Bel Belluz

Carnera lascia l’America, ha il morale a terra, si sente colpevole e non riesce a dimenticare gli occhi del suo avversario. Nella nave che lo riporta in patria ci sono tante persone che gli domandano di quel match e per lui è come se riaprissero la ferita. La gente non ha la sensibilità sufficiente per capire il tormento interiore del campione e la sua difficoltà a parlare di quell’incontro. Carnera ha il volto triste e corrucciato, sembra perfino invecchiato e non dorme molto bene. Alla sera gli ritornano alla mente le fasi del match, il pubblico che urla la parola che più di tutto odia; quella che nessun pugile vorrebbe mai sentire: “Buffone“, rivolta al suo avversario che stava morendo sul ring. Nel tremendo match, dopo averlo spedito al tappeto, aveva alzato le mani in alto in segno di vittoria; era felice, ma quella felicità durò solo un attimo. La notte sognava il suo avversario a terra e lui che aveva cercato di rialzarlo, ma il suo allenatore e manager Jack Sharkey lo aveva allontanato e solo in quel momento aveva capito che il match era finito in tragedia. Nel frattempo il pubblico non aveva smesso di urlare e Carnera si domandava il perché non capissero che il suo avversario stava male. Nella vita della boxe Primo aveva messo a terra molti pugili, già nelle prime riprese, e quando questo accadeva si sentiva felice solo se il suo avversario si rialzava. Solo così lui si sentiva un vero vincitore, sua mamma gli aveva sempre raccomandato di non picchiare con cattiveria, di essere onesto sul ring come nella vita. Quando l’avversario venne portato fuori dal ring, a Primo sarebbe piaciuto sparire, andarsene in disparte. Schaaf venne portato negli spogliatoi e Carnera aveva chiesto subito notizie al medico, ma dal suo volto aveva appreso che c’erano poche speranze. Costui gli batté una pacca sulla spalla per fargli coraggio. Il suo allenatore non capiva cosa poteva essere capitato, lo sfidante di Carnera era al terzo posto in classifica mondiale nella categoria dei pesi massimi. Primo quella sera non volle abbandonare l’ospedale in cui era ricoverato Ernie. Carnera allo stesso tempo non si poteva sottrarre alle domande dei giornalisti, che non erano indulgenti. La stampa aveva dato la notizia del match, in prima pagina, e ci si chiedeva se Carnera non fosse stato troppo forte per la categoria dei pesi massimi. Addirittura qualcuno diceva che bisognava creare una nuova categoria dove combattevano i super massimi. Il giorno dopo al match Carnera aveva abbracciato la mamma di Ernie Shaaf, e la donna lo aveva consolato, ma non era sufficiente. Quando al terzo giorno di ricovero in ospedale Carnera apprese della morte del suo avversario il mondo gli crollò addosso, era il 13 febbraio del 1933, una data che non avrebbe mai dimenticato per tutta la sua vita. Quando Primo seppe della morte del suo avversario, era in compagnia della mamma di lui. La donna era rassegnata alla tragedia, se l’ era sentita addosso quando l’avvertirono che il suo ragazzo era stato ricoverato in ospedale. Il tassista che l’aveva portata sapeva che cosa era successo, ma non parlò, lei in quel tragitto, aveva già le lacrime che le scendevano, erano lacrime di mamma. Pensava a quando suo figlio l’aveva salutata e le aveva detto di stare tranquilla, sarebbe tornato a casa vincitore con la qualifica di sfidante ufficiale al titolo mondiale dei pesi massimi. Carnera dal canto suo mai avrebbe voluto che questo accadesse, mille volte si era guardato le mani. Nel volto di Primo non traspariva aria di felicità e non gli interessava neanche più la boxe. Voleva giungere al suo paese per stare con la sua famiglia. Quante volte avrebbe voluto essere stato lui al posto del suo avversario, preferiva morire che essere la causa della morte di qualcun altro. Nella nave si intrattenne con un frate, questi era di ritorno dall’America, dove aveva fatto visita a un suo fratello molto ammalato, che qualche giorno dopo morì. Il frate si era avvicinato a Carnera, dopo che aveva saputo quello che gli era accaduto, lo aveva incoraggiato, gli aveva parlato che il buon Dio non lo avrebbe punito e che questa sofferenza non doveva impedirgli di continuare la sua vita. Il frate era di Genova e se ne tornava al convento. Costui era piuttosto vecchio, basso di statura e con una fluente barba bianca. Gli volle donare un’immagine della Madonna, dicendogli di invocarla perché potesse ritrovare la pace e che pure lui avrebbe pregato per Ernie e per Primo. Carnera aveva gradito la compagnia di questo ministro di Dio, che lo aveva in parte rasserenato. Quando arrivarono a Genova, dopo un viaggio lungo e difficile, Carnera gli promise che sarebbe andato a trovarlo, e si raccomandava che pregasse per lui. Primo arrivò a Sequals verso sera del giorno dopo essere sbarcato a Genova, era venuto a prenderlo un suo fratello che gli voleva bene. Quando giunse a Sequals, Carnera si sentì finalmente a casa, anche se aveva sempre quel grande peso dentro al cuore. Quando vide la sua mamma le mise le braccia al collo e pianse, quell’abbraccio gli fece bene. Lo consolò, come si fa con un bambino che ha paura. Carnera pianse e si disperò, le mostrò le mani che avevano causato la morte di un uomo. Gli ricordò che la madre di Ernie gli aveva detto di non sentirsi in colpa per la morte del figlio e ciò gli procurò una sensazione di sollievo. La casa di Carnera era nuova, da poco tempo la famiglia era andata ad abitarci. Primo non era felice, si sarebbe aspettato di festeggiare in modo diverso la villa che aveva tanto sognato. In quei giorni aveva manifestato chiaramente ai suoi famigliari che non avrebbe più voluto saperne della boxe; anche se dopo aver fatto questo match, che era valevole come semifinale al titolo mondiale dei pesi massimi, avrebbe potuto coronare il sogno della sua vita: quello di battersi per il titolo mondiale contro Jack Sharkey. Quei giorni a Sequals gli furono di sollievo per Carnera, la vicinanza della famiglia e le parole di conforto della mamma, gli erano arrivate al cuore. La donna soffriva nel vedere il suo amato figlio così oscurato dalla malinconia, pertanto, si era data da fare in cucina per preparagli degli ottimi pranzetti, e qualche volta era riuscita a farlo sorridere. Il papà di Primo, non era un uomo di molte parole, ma lo stesso aveva cercato di far capire al figlio che non aveva nulla da temere, il suo match era stato pulito, nulla era stato fatto con odio. La vita molte volte ci mette alla prova e ci fa stare male, ma qualcuno scrisse: “Male non fare, paura non avere. Qualche settimana dopo che era arrivato a Sequals, si era deciso di tornare a giocare al Bottegon con gli amici. Il gioco delle carte lo aveva in qualche modo distratto. Quando gli domandavano del povero Ernie, gli occhi di Carnera diventavano improvvisamente molto tristi. All’osteria qualcuno gli toccava le mani, e a Primo gli sembrava che lo facesse per vedere da vicino quelle mani che avevano fatto del male ad Ernie. Carnera in cuor suo soffriva, e anche qualche bicchiere in più che si era permesso, non lo aiutava a pensare diversamente. Al paese le cose proseguivano come sempre, spesso veniva qualche giornalista a cercarlo, e Primo lo accoglieva con benevolenza. Un giorno venne a trovarlo uno scrittore di Roma, e chiese a Carnera il permesso di scrivere un libro sulla sua vita, che sarebbe stato pubblicato a puntate sul suo giornale. Si trattava di una rivista sportiva, e il direttore gli aveva affidato questo incarico perché molti lettori volevano conoscere la vera storia di Carnera. Il campione si sentì per un attimo davvero felice. Avrebbe potuto dettare la sua biografia con molta tranquillità, perché il giornalista era disposto a fermarsi tutto il tempo necessario. Questo scrittore incontrò Carnera per dodici giorni, ed ogni giorno veniva scritta una puntata della biografia. La più difficile da scrivere fu quella che raccontava il suo combattimento con Ernie. Il primo capitolo venne pubblicato già la settimana seguente, e al paese il postino gli portò il giornale, direttamente da Pordenone. Carnera ne fu felice, lo mostrò alla mamma, che lo volle guardare mille volte. Il giornalista chiese a Carnera perché non lo seguisse a Roma, avrebbe potuto vedere il papa, durante l’udienza settimanale che concedeva ai pellegrini. Il giornalista stesso lo avrebbe accompagnato fino a Roma ed anche all’udienza del papa. Il 15 aprile del 1933, Primo Carnera assieme al suo amico scrittore, era tra i pellegrini che festanti lo onoravano. In quell’occasione Primo ebbe modo di poterlo incontrare. Il Santo Padre Pio XI, nella vigilia di Pasqua lo salutò. Si avvicinò a Carnera, qualcuno dei suoi vescovi lo aveva avvertito che all’udienza, tra i tanti pellegrini, ci sarebbe stato anche lui. Il papa sapeva quello che era accaduto a Primo, e di quanto soffrisse. Avvicinandosi al campione gli fece una carezza, e gli disse qualche parola di consolazione. Carnera baciò la mano del pontefice, e visibilmente commosso, si fece il segno della croce. Le parole dette dal pontefice gli avevano tolto il peso di quanto era successo:” Il buon Dio ti ha capito, non hai colpa, prega per Ernie e aiuta la sua famiglia”. Il ricordo di quella giornata fu uno dei più belli della sua vita. Nel frattempo, Carnera fu avvicinato dalle persone che gli stavano attorno e questo gli fece capire che la gente gli voleva bene. Quella stessa sera, Primo nella sua camera d’albergo, scriveva alla mamma come aveva vissuto quel giorno, della carezza dal papa e delle sue frasi consolatorie. Scrisse, pure, una lettera alla mamma di Ernie, dicendole che l’avrebbe aiutata, e che questo glielo aveva chiesto anche il papa. Le scriveva, inoltre, che pensava ogni giorno a suo figlio con affetto e che pregava per lui. Le raccontò delle belle parole del papa e le disse che le voleva bene, che si sentiva vicino a lei e che mai l’avrebbe dimenticata. Nella lettera le accludeva una foto del Santo Padre, e questo pensiero lo considerava il più bello che potesse fare per lei. Avrebbe voluto scriverle che spesso qualche lacrima scendeva e bagnava il suo cuore. Carnera rientrò a Sequals con uno spirito diverso, si sentiva più sereno, grazie all’incontro con il Papa. La sua vita non poteva riservargli altre tristezze più intense di quelle che aveva provato. Della sua visita al papa era comparsa una foto sui giornali e di ciò si compiacque. L’indomani partì per Sequals, la città era in festa per la Santa Pasqua e lui voleva a tutti i costi arrivare in paese al più presto. per ritrovare la famiglia. Il viaggio in treno fu faticoso e scomodo, ma nella vita non si può avere tutto, bisogna rassegnarsi; se si è alti e grossi non esistono sedili comodi. Carnera giunse a casa, la mamma lo attendeva trepidante e voleva abbracciare il suo figliolo. Primo le diede il rosario benedetto dal Papa. La donna, facile alle commozioni, si mise a piangere, baciò mille volte quella corona, e non vedeva l’ora di recitare il rosario in chiesa e di mostrarlo alle sue amiche. In quei giorni era giunto a Sequals, direttamente dagli Stati Uniti, il suo manager assieme a Paul Journée , con lo scopo di convincerlo a salire sul ring: ci sarebbe stata la corona mondiale in palio. La stampa americana aveva già annunciato l’evento che si sarebbe svolto a giugno, ed ora si trattava di convincere Carnera a combattere. Accettò di incontrare il manager e l’allenatore, non li aveva più visti da quei giorni in cui aveva sfidato il povero Ernie. Da allora erano passati quasi due mesi e gli sembravano un’eternità. Carnera non era più lo stesso, non sentiva più la voglia di risalire sul ring, anche se per tanto tempo aveva inseguito la possibilità di diventare campione del mondo. Furono giorni intensi, ma alla fine convinsero Carnera ad accettare la sfida. Non c’era molto tempo, al combattimento mancavano solo due mesi e bisognava tornare in America. Il campione aveva cambiato idea dopo la visita al santo Padre che era riuscito a rasserenarlo e a rimuovere quel senso di colpa che l’aveva tormentato per settimane. Ricordò che aveva promesso al Papa di aiutare la mamma di Ernie, di starle vicino, e questa promessa l’avrebbe mantenuta. In attesa dell’imbarco, Carnera incominciò gli allenamenti nella palestra che si era fatto costruire vicino alla villa, e per aiutarlo a boxare era arrivato a Sequals il peso massimo Giovanni Martin di Oderzo, che fu molto entusiasta di allenare, come disse lui, il futuro campione del mondo. Dopo due settimane di intensi allenamenti Carnera e il suo allenatore partirono per l’America. Anche durante il viaggio gli fu possibile allenarsi, infatti, nella nave erano stati installati degli attrezzi per la boxe. Durante il lungo viaggio non era preoccupato, anche se era cosciente che quella sarebbe stata l’ultima possibilità per diventare campione del mondo. Alla sera dopo i duri allenamenti si intratteneva con la gente che voleva salutarlo, tanti italiani che come lui pensavano di trovare fortuna in America. Spesso gli capitava di mangiare con il capitano della nave e con alcuni suoi ospiti. Gli sarebbe piaciuto che con lui ci fosse quella ragazza francese che aveva cercato di dimenticare. Il suo pensiero spesso andava anche ai suoi amici del circo, chissà se li avrebbe più rivisti, e gli sarebbe piaciuto contraccambiare l’aiuto che aveva ricevuto da loro. Il periodo del circo gli era servito per diventare uomo.

Vittorio Amedeo III di Savoia: l’ambivalenza di un Re




La storia di Vittorio Amedeo III di Savoia: dalla grande magnanimità per il popolo piemontese al fracasso del Regno durante la Rivoluzione Giacobina.

Queste sono le due facce della medaglia di Vittorio Amedeo III di Savoia, Re di Sardegna passato alla storia per la particolare ambiguità della sua monarchia.

Il suo regno viene ricordato da molti soprattutto per gli esiti negativi degli ultimi anni. Quando un Piemonte, mutilato di Nizza e della Savoia, era diventato un nido di congiure e rivolte, che spianarono la strada all’ascesa di Napoleone durante la prima Campagna d’Italia.

Era pressoché inevitabile che la Rivoluzione francese travolgesse anche lo Stato sabaudo prima o poi, ma negli anni precedenti a quel fatidico 1789, Vittorio Amedeo III fu lodato dai suoi sudditi per la sua rinomata generosità e prodigalità.

Ma il suo grande errore fu forse quello di circondarsi di ministri inaffidabili e opportunisti che lo indottrinarono fin dalla nascita, portando poi al crollo dello Stato Sabaudo.

Vittorio Amedeo III di Savoia: l'ambivalenza di un Re

Vittorio Amedeo III di Savoia nacque a Torino il 26 giugno del 1726

Figlio di Carlo Emanuele III e di Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, Vittorio Amedeo III era il figlio secondogenito della coppia di eredi al trono, ma il primo tra i sopravvissuti.

Di indole buona anche se ingenua, la sua educazione venne affidata in un primo momento a Roberto Solaro di Breglio, esponente dell’antica nobiltà piemontese di stampo militare e diplomatico.

Carlo Emanuele aveva ben chiaro quello che sarebbe stato il percorso formativo del figlio.

Un percorso basato su materie tecniche e militari, indirizzate verso la finanza e l’ingegneria, proprio come l’avevano abituato i duri insegnamenti del padre Vittorio Amedeo II.

Così le istruzioni paterne per la formazione del figlio vennero ufficializzate nel 1733.

Ma all’età di nove anni il principe perse tragicamente la madre per malattia.


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https://mole24.it/2021/05/06/vittorio-amedeo-iii-di-savoia-lambivalenza-di-un-re/

sabato 29 maggio 2021

Libri: quelle 'imposture neo borboniche' tutte da smontare



Ippolito Armino e Il Fantastico Regno Due Sicilie (mai esistito)

Redazione ANSA

PESCARA28 maggio 202116:49NEWS 

di Luca Prosperi (ANSA) - PESCARA, 28 MAG - PINO IPPOLITO ARMINO 'IL FANTASTICO REGNO DELLE DUE SICILIE' LATERZA, PP. 135, 14,00 euro) Il 'breve catalogo delle imposture neoborboniche' affronta uno dei nodi cruciali emergenti del revisionismo contemporaneo, ossia la riscrittura del Risorgimento in senso anti unitario, chiedendosi perché negli ultimi anni quelle che l'autore Pino Ippolito Armino definisce 'autentiche fole neo borboniche', siano diventate così di moda.

Ippolito Armino per spiegare il perché in 10 capitoli usa principalmente uno strumento: il piccone. Ed è un altro dei momenti forti della fortunata collana Fact Checking di Laterza, 'La Storia alla prova dei fatti', che dopo aver affrontato Resistenza, Foibe e 'primati italici', attacca frontalmente uno dei temi divisivi della memoria collettiva: l'Unità d'Italia vista da Sud.

    Il 'primo stato illuminato del mondo' non è mai esistito, è una fake news, ma alcune fake news 'hanno una eccezionale capacità di presa, perché soddisfano un bisogno reale, quello di una spiegazione semplice a problemi complessi', e nel caso specifico servono perché attribuiscono 'ogni nostra insufficienza alla responsabilità di un nemico esterno, cattivo quanto basta per addebitargli tutto ciò che siamo e non vorremmo essere'. 
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martedì 25 maggio 2021

Eccidio di via Medina, la replica di un napoletano e monarchico a Napolitano



Ho ascoltato varie volte la registrazione di domenica 22 maggio della trasmissione “Che tempo che fa” condotta dal giornalista Fabio Fazio, su rai 3, dove è stato intervistato Giorgio Napolitano ex inquilino del Quirinale. Oltre a pubblicizzare il suo libro, si è parlato del Referendum Istituzionale del 2 e 3 giugno 1946 e dei fatti di via Medina a Napoli,  sono rimasto deluso e disgustato di come un napoletano, anche se comunista, e di parte, possa occultare e mistificare i fatti. Per diritto di replica,  per rispetto ai tanti giovani che diedero la vita per la Monarchia e per i circa 11000000 di voti,  mi sento in dovere di mettere in discussione le parole citando  un passo estratto dal libro di Marco Demarco, «L'altra metà della storia: spunti e riflessioni su Napoli da Lauro a Bassolino», Guida Editori, 2007, ex comunista e direttore del Corriere del Mezzogiorno, che smentisce quanto affermato in trasmissione: “Accadde a Napoli l’11 giugno 1946, in via Medina, davanti alla sede della federazione del Pci, dove ci fu una strage durante la quale, sotto il fuoco dei mitra della polizia, rimasero uccisi sette poveri cristi e feriti una cinquantina di disgraziati". 

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Comm. Rodolfo Armenio

fonte: Il Mattino 


Il libro azzurro sul referendum - XXI cap - 7

 


4)   NUMERO DEGLI ITALIANI. CHE MILITARONO NELLE FORZE ARMATE DI SALO'.

«L'Istituto non dispone di dati in materia».

Ad altre richieste fatte al Professore Silvio Golzio dell'Università di Torino, egli rispose in data 9-65-1952

a) non abbiamo tavole di mortalità aggiornate. Le ultime ufficiali si riferiscono alla situazione prebellica  
b) e c). L'Istituto di Statistica non ha pubblicato notizie distinte per i morti per cause di guerra e per bombardamento...

d) non credo si possano applicare al periodo 1941-1945 i dati del 1915-18. La mortalità di guerra ed anche quella dei, civili è stata nell'ultimo conflitto inferiore a quelle della prima guerra mondiale»

Da quanto sopra detto si rileva che le obiezioni eventuali non si pos­sono basare che su induzioni, giacché la risposta dell'Istituto Centrale di Statistica è «impressionantemente negativa».

1) La percentuale del 60% della popolazione quale indice della cifra dei cittadini di età maggiore di anni 21 aventi come tali diritto elettorale attivo è risultante dalle Statistiche ufficiali del Regno d'Italia (pubblicate dall'Istituto Centrale di Statistica) ed è confermato dai dati ufficiali più sotto riportati (dati dell'Istituto Centrale di Statistica e Ministero Interni per le elezioni per l'Assemblea Costituente e « referendum » istituzionale 2-6-1946 pubblicato a Roma 1948, dall'Istituto Centrale di Statistica per le elezioni politiche 1948 - Vol. II ediz. 1951, completo per tutti i Comuni, è del Ministero Interni, Div.ne Servizi elettorali e annuario statistico ita­liano, serie V, Vol. III per le elezioni prov.li 1951-52).


La popolazione residente del 1951 è calcolata dall'Istituto Centrale di Statistica in 47.138.400; del 1952 può calcolarsi in relazione all'incremento della popolazione diminuito per flessione delle nascite e comprendendo le morti in 47.600.000 circa; sulla base del 6o% la cifra complessiva degli elettori 51-52 corrisponde al 62% della popolazione (compreso Bolzano).

Un'agenzia ufficiosa prevede per le elezioni del 1953 (dichiarazioni' dell'On. Paolo Rossi all'A.G.I. riportate dall'«Osservatore romano» otto­bre 1952) un totale di 27 milioni di elettori (si noti minore che per il 1946), con poco meno di 26 milioni votanti; tale previsione conferma una percen­tuale anche inferiore al 6o% di elettori (57,5%) su una popolazione calco­lata in circa 47 milioni di abitanti (2).

2) Un calcolo preciso della popolazione elettorale probabile per le singole elezioni non ha potuto essere compiuto, ove si escludano i dati per Bolzano e la Venezia Giulia. Però i rilievi basati sugli elettori calcolati secondo l'età, col computo sulla popolazione al 21-4-1936 e sugli elettori divenuti tali nel 1946 per aver raggiunto il 21° anno di età, colla detra­zione delle morti del periodo 1936-46; altro computo eseguito prendendo come base i presumibili elettori nel 1941 e alla data 1° luglio 1943, confer­mano le conclusioni di cui al precedente studio.


(1) In mancanza di dati precisi, si rileva però che i bombardamenti, gli sfollamenti, furono cause di gravi perdite nella popolazione civile in misura maggiore che nella guerra 1915-18.

(2) Nuove recenti comunicazioni dell'On. Scelba parlano di 30.500.000 elettori.

COMPUTO DEGLI ESCLUSI DAL VOTO
(dai dati ufficiali)


L’ufficio autonomo Reduci dalla prigionia di guerra e rimpatriati;

rimpatrio dei prigionieri di guerra ed internati 1944-47, Istit. Polig. dello Stato, Roma 1947 (3202520, diede i seguenti dati :

L'ufficio Autonomo Reduci dalla prigionia di guerra e rimpatriati;

Militari in territori esteri (8-9-1943) : Germania 615.40o, Francia 30.400, Svizzera 20.400, Polonia 62.500, Grecia 35.400, Bulgaria 2.500 - Tot. 765.400. Prigionieri di guerra in mano inglese 399.400 - americana 123.800 - france­se 37.200 - russa 20.400 (cifre evidentemente di fonte ufficiale russa in realtà aumentabile ad almeno 80.400 tenuto conto che nel giugno 1951 e nell'ago­sto 1952 il nostro delegato all'O.N.U. On.le Meda, comunicò un elenco di 63.400 prigionieri non rimpatriati - Totale ufficiale 580.400, aumentabile sui dati ufficiali ad almeno 640.400. Quindi 765.400 militari in territori esteri più 640.000 prigionieri di guerra eguale totale 1.405.400. Risultano ufficialmente rimpatriati al 1°dicembre 1944 a tutto maggio 1946: 1.166.600. La differenza fra 1.405.400 e 1.166.600 è di 238.000.

Si deve però rilevare che il 16 marzo 1943 Radio Mosca comunicò la notizia della TAS agenzia ufficiale del Governo Sovietico : « l'armata rossa ha catturato 655.000 militari italiani », tre giorni dopo, il 19 marzo, Mario Correnti (Togliatti) in un discorso radio agli italiani confermò che l'esercito italiano aveva perduto 175 mila uomini, dei quali 655 mila prigionieri.

Il Gen. Valentin Gonzales, detto El Campesino, in una conferenza-stampa a Roma tenuta il 23 Aprile 1953 dà il numero di non meno di 80.opo prigionieri italiani ancora in Russia nel 1949. (Da « la Stampa » del 25-4-1053)•

La cifra ufficiale dà un totale di 580.400, aumentabile in realtà da un minimo di 640.400 ed un massimo di 675.400, quindi 765.400 militari in territori esteri più una media di 655.000 prigionieri di guerra dà un totale di 1.420.400, aumentabile di circa 30.400 colle « rivelazioni » di El Cam-pesino.

Risultano ufficialmente rimpatriati a tutto maggio 1946: 1.166.600. La differenza fra 1.420.400 e 1.166.600 è di 253.800.

Le cifre sopradette corrispondono in massima agli ultimi dati del Sottosegretariato. Stampa e Propaganda « Documenti di vita italiana » (Rivista « Oggi » del 14 agosto 1952); Prigionieri degli americani : 125.400, dei francesi 37.500, degli inglesi 4.08.400, dei russi 80 mila: totale 605.500, quindi la differenza tra 1.415.500 e 1.166.400 è di 240.100. I prigionieri di guerra morti prima dell'8 Settembre 1943 risultano 4.857; dopo l'8 Settem­bre 28.732 con un totale di 33.589.



lunedì 24 maggio 2021

Monarchia/Repubblica. Quando cambiò l’Italia.

 


di Aldo A. Mola

Un voto che cambiò lo Stato d'Italia

Il 2-3 giugno 1946, 75 anni fa, circa 25 milioni di votanti su 28 milioni di elettori scelsero tra monarchia e repubblica ed elessero l'Assemblea Costituente chiamata a ritagliare l'abito della forma di Stato preferita dai cittadini. Per comprendere l'importanza della consultazione e le sue conseguenze occorre ricordare sinteticamente il quadro in cui essa si svolse e ripercorrere i quindici giorni dall'apertura dei seggi al 18 giugno, quando non fu “proclamata la repubblica” ma venne comunicata solo la somma dei voti a cospetto della Corte Suprema di Cassazione presieduta da Giuseppe Pagano, che ne “prese atto” ope legis.

 

La cornice internazionale e interna

Il 25 luglio 1943, a fronte dell'andamento disastroso della guerra e del voto del Gran Consiglio del Fascismo che gli aveva chiesto di esercitare i poteri statutari, per ottenere di arrendersi prima della catastrofe e salvare la continuità dello Stato, re Vittorio Emanuele III (1869-1847) nominò capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio al posto del cavaliere Benito Mussolini, che si dichiarò pronto a cooperare. Deciso ad accelerare la svolta per ottenere l'armistizio, Badoglio sciolse la Milizia volontaria di sicurezza nazionale e la Camera dei fasci e delle corporazioni, da sostituire con una Camera liberamente eletta entro quattro mesi dalla fine dello “stato di guerra”. Su pressione del Comitato di liberazione nazionale (spinto dal comunista Palmiro Togliatti, rientrato a inizio aprile dall'Unione Sovietica, a collaborare con la monarchia ma non con il re) e degli anglo-americani, il 5 maggio 1944 Vittorio Emanuele III trasferì al figlio Umberto, principe di Piemonte (1904-1983), “tutti i poteri della Corona, nessuno escluso” ma conservò titolo e rango di sovrano. Luogotenente del Regno (anziché del Re come precedentemente convenuto), il 25 giugno Umberto emanò il decreto n. 151 che conferì la scelta della forma dello Stato all'Assemblea costituente eletta dagli italiani, depositari nuovi della sovranità, senza però cesura istituzionale. Per motivi internazionali e interni la votazione fu rinviata. Dopo le dimissioni rassegnate da Ivanoe Bonomi nelle mani del Luogotenente, il 21 giugno 1945 Ferruccio Parri, rappresentante del partito d'azione e già vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, formò un governo comprendente i sei partiti del Comitato centrale di liberazione. Alle sue dimissioni, il 10 dicembre fu sostituito da Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia cristiana. Ne scrisse Giulio Andreotti, ventiseienne sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel delizioso Concerto a sei voci, ristampato co postfazione di Francesco Perfetti (ed. Boroli). Il 20 febbraio se ne dimisero Emilio Lussu (sostituito da Alberto Cianca) e Ugo La Malfa (cui subentrò Mario Bracci), usciti dal partito d'azione.

La votazione sulla forma dello Stato e della Costituente fu preparata dalla Consulta Nazionale istituita nell'agosto 1945 e presieduta da Carlo Sforza, Collare dell'Annunziata, senatore, già ministro degli Esteri, monarcofago; poi dal socialista Pietro Nenni, titolare del Ministero per la Costituente, e soprattutto dal socialista Giuseppe Romita, ministro dell'Interno, per sua stessa dichiarazione nemico giurato della monarchia (suo padre le era devoto), in convergenza con Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia.

Il 5 marzo 1946 il britannico Winston Churchill a Fulton (nel Missouri, Usa), presente il presidente Harry Truman, deplorò che dal Baltico a Trieste fosse calata una cortina di ferro dietro la quale l'Urss di Stalin stava annientando ogni libertà democratica e imponendo un nuovo regime totalitario comprendente la fede fanatica nell'ateismo obbligatorio.

Dopo animate discussioni il Consiglio dei ministri (che, in assenza di Parlamento, esercitava poteri legislativi) il 10 marzo 1946 stabilì l'obbligatorio l'esercizio del diritto di voto. Il Decreto Legge Luogotenenziale (Dll) 16 marzo 1946, n. 98 conferì agli “elettori votanti” (anziché alla Costituente) la scelta tra monarchia e repubblica. Secondo la lingua italiana per “elettori votanti” si intende “quanti vanno a votare”. Il 23 aprile furono emanate le norme attuative del referendum istituzionale e fissata la scheda: la Repubblica venne raffigurata da un volto femminile di profilo con corona turrita; la Monarchia dallo scudo sabaudo sormontato dalla corona.

Tra marzo e aprile quasi quattro milioni di cittadini elessero consigli comunali, sciolti nel 1925. Per la prima volta votarono anche le donne. Malgrado toni accesi, la competizione si svolse senza gravi problemi di ordine pubblico.

In vista del referendum Romita fece stampare un numero di schede doppio rispetto a quello degli elettori e impartì istruzioni minuziose. Ogni quattro ore i presidenti dei seggi avrebbero dovuto informare i prefetti e questi Roma su affluenza e spoglio delle schede, con priorità logica per quelle sulla forma dello Stato. Altrettanto precise furono le disposizioni su operazioni di voto, scrutinio, redazione dei verbali e loro immediato invio ai tribunali viciniori o alle corti di appello costituiti in Uffici elettorali circoscrizionali, dai quali dovevano essere spediti col mezzo più rapido (aereo compreso) all'Ufficio elettorale centrale. Particolare cura andava riservata alle schede bianche, nulle, contestate e non assegnate.

 

Umberto II in campo

Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò e partì da Napoli per l'Egitto sull'incrociatore “Duca degli Abruzzi”. Togliatti insorse contro l'“ultima fellonia dei Savoia” (“L'Unità”, 10 maggio). Assunta la corona, Umberto II fu investito da violentissime polemiche da parte dei partiti dichiaratamente repubblicani (comunisti, socialisti, azionisti) e di molti esponenti della Democrazia cristiana, i cui organi direttivi si erano pronunciati contro la monarchia, di alcuni liberali, demo-laburisti e, ovviamente, del partito repubblicano italiano e della concentrazione repubblicana, nata dalla scissione del partito d'azione. Secondo il costituzionalista Piero Calamandrei, poiché a suo discutibile avviso lo Statuto aveva cessato di esistere, il Luogotenente non aveva diritto al titolo di Re. Gli sfuggiva che tutti gli atti con valore legale (sentenze, atti notarili, diplomi di laurea, ecc.) erano pronunciati o intestati “in nome del Re”.

In vista del voto Umberto II compì un periplo per le principali città. A Torino ebbe calda accoglienza; più tiepida a Milano; il 31 maggio da Genova (che fu glaciale) annunciò che in caso di vittoria della monarchia la costituzione elaborata dall'Assemblea sarebbe stata proposta a referendum confermativo. Molti quotidiani pubblicarono il “Manifesto degli intellettuali per la Repubblica”, parecchi dei quali avevano placidamente navigato nelle acque del regime mussoliniano. Luigi Einaudi, come Massimo Caputo, direttore della “Gazzetta del Popolo” di Torino, spiegò perché avrebbe votato per la monarchia, garante della continuità dell'Italia scaturita da Risorgimento. L'azionista Mario Berlinguer, presidente dell'Alta Corte per l'Epurazione, inferocì contro Umberto II, “più stolidamente settario e più apertamente spergiuro di suo padre”. In un comizio a Piazza del Popolo in Roma il generale Azzo Azzi riecheggiò le squallide insinuazioni già usate dalla Repubblica sociale contro l'allora Luogotenente. In Casa Savoia nella storia d'Italia il venerando Luigi Salvatorelli si spinse a scrivere che dall'origine lo Stato sabaudo era estraneo alla storia d'Italia. Secondo lui Carlo Emanuele I, duca dal 1580 al 1630, condusse una politica anti-italiana, “un anticipo della politica di Vittorio Emanuele III e di Mussolini dal 1936 in poi”. Il merito maggiore di Carlo Alberto fu l'abdicazione dopo la sconfitta di Novara, il 23 marzo 1849. L'unificazione nazionale era stata una “profilassi antirivoluzionaria indispensabile per la monarchia”. Anche se (egli ammise) non ne possedeva prove, Vittorio Emanuele III aveva appoggiato l'espansione del fascismo per procurarsi una “guardia bianca”. Se questa era la “storiografia”, anche più acre era la polemica ideologica e partitica. Nella campagna antimonarchica si sommarono tutte le antiche riserve e avversioni di repubblicani intransigenti, radicali, federalisti, clericali, protosocialisti, massimalisti e quel “fascismo delle origini” che per due anni aveva imperversato nell'Italia centro-settentrionale durante la Repubblica sociale italiana. Una menzogna ripetuta diviene verità.

Alla vigilia del voto Togliatti era convinto che la maggior parte dei democristiani avrebbe votato per la repubblica, perché quello era l'orientamento prevalso al vertice del partito e nella quasi totalità del congresso del suo baldanzoso movimento giovanile. I monarchici contavano su pochi quotidiani di modesta diffusione e accedevano di rado ai programmi radiofonici, nei quali dominava invece la propaganda avversa. Solo alla vigilia del voto il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, tenne un discorso radiofonico, forbito ma poco efficace.

Nella contrapposizione monarchia/repubblica contarono due fattori ancora poco studiati. Anzitutto il diverso peso demografico e quindi elettorale delle regioni. Quelle meridionali e le isole, favorevoli alla continuità, contavano il 36,7% della popolazione nazionale. Le centrali prevalentemente repubblicane, Lazio a parte, comprendevano il 24,86%. Le settentrionali, decisive per la vittoria della repubblica, sommavano il 44,58% degli abitanti. Elettori e votanti furono in proporzione alla consistenza demografica. Altro fattore fu l'analfabetismo. Secondo il censimento del 1951 gli italiani maggiori di sei anni analfabeti erano il 4,4% nell'Italia settentrionale, l'11,5% nella centrale e il 24% nella meridionale e nelle isole. La rappresentazione simbolica sui manifesti e sulla scheda pesò in proporzione al tasso di analfabetismo. Come ampiamente attestato, molti monarchici votarono l'emblema della repubblica (che era anche il primo a portata di matita) ritenendo di votare “per la regina”.

 

Gli esclusi

I seggi vennero aperti la mattina del 2 giugno. Ma tre milioni di elettori su ventotto, quasi il 10 %, furono esclusi dal voto: non solo per il referendum istituzionale, come sempre si ripete, ma anche per la Costituente.

Il Ddl istitutivo delle elezioni ripartì l'Italia in 32 Circoscrizioni, ognuna delle quali comprendeva alcune province. La XII Regione, Friuli-Venezia Giulia, e la provincia di Bolzano non parteciparono alla votazione ancora perché “in discussione”. Col beneplacito degli anglo-americani (più i primi che i secondi), l'esercito jugoslavo aveva occupato Zara, Pola, Fiume, l'Istria sino al confine di Trieste e metà della città di Gorizia. Il Dll assicurò che i loro elettori sarebbero stati chiamati alle urne appena possibile: circa 700.000. Non avvenne mai più. Dalle elezioni rimasero esclusi inoltre circa 400.000 militari italiani ancora prigionieri di guerra o comunque “assenti alle bandiere” come i “dispersi” e quelli rimasti nelle grinfie dell'Unione sovietica, restituiti con il contagocce (tre generali vennero liberati molti anni dopo).

Altri 400.000 o più furono privati del diritto di voto perché “collusi” con il fascismo: non solo per aver collaborato con la Repubblica sociale, ma anche per aver concorso all'instaurazione del regime mussoliniano. Fu lo strumento giuridico per far decadere dal rango e dai diritti civili centinaia di senatori del regno, che costituivano il nerbo della tradizione monarchica. Contro quella decisione, unica nella storia d'Italia, protestarono giuristi come Arturo Carlo Jemolo e altri niente affatto monarchici ma contrari all'uso politico e alla retroattività di norme penali. Richiamarono il latino “nullum crimen sine lege”. Il governo Mussolini del 31 ottobre 1922 era stato votato da Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, Alcide De Gasperi, Benedetto Croce e da un elenco infinito di futuri antifascisti. Tutti collusi col duce? Privato dei diritti civili e politici, il senatore Giovanni Agnelli si faceva portare a contemplare da lontano la Fiat. Morì prima di essere “riabilitato”.

In aggiunta al milione e mezzo di “esclusi”, un altro milione e mezzo di elettori non ricevettero il certificato elettorale. Gli appositi uffici elettorali avevano alle spalle anni di caos. Non tutti i cittadini erano reperibili. Fiutata l’aria che tirava, molti preferirono non presentarsi negli uffici comunali per non vedersi schedare come revenant del fascismo (quello sino al 1943 o anche quello successivo?) con tutte le gravose conseguenze.In sintesi, come detto, tre milioni di elettori su ventotto vennero privati del diritto di voto.

 

La Repubblica vien di notte...

Come prescritto dal Dll istitutivo della consultazione, alle 18 di lunedì 10 giugno 1946 la Corte Suprema di Cassazione (sei primi presidenti e dodici consiglieri, presieduti da Giuseppe Pagano, magistrato integerrimo) si radunò nella Sala della Lupa di Montecitorio per assistere alla comunicazione dei risultati pervenuti all'Ufficio Elettorale Centrale da quelli Circoscrizionali.

Furono letti con voce monotona: per la Repubblica avevano votato in 12.627.767; per la monarchia 10.688. 905. Mancavano però i dati di 118 sezioni; poi si disse di 134. Il risultato, quindi era parziale. La repubblica aveva ottenuto il poco più del 50% dei 25 milioni di voti espressi ma appena il 46% dei 28 milioni di aventi diritto al voto. Prevalse, ma risultò minoritaria sia rispetto ai votanti sia, ancor più, in proporzione al corpo elettorale. Per radicarsi avrebbe dovuto esercitare comprensione e compassione. Il governo imboccò invece la via della cancellazione della monarchia dalla storia d'Italia.

Il Presidente Pagano aggiornò la seduta ad altra adunanza, poi fissata per le 18 del 18 giugno seguente, l'ultimo giorno disponibile, perché fossero comunicati i risultati delle sezioni mancanti. Egli chiese inoltre che venissero rendicontate anche le schede bianche, nulle, annullate e non assegnate. Più o meno un milione e mezzo. Messe sulla bilancia, esse riducevano il vantaggio della repubblica da due milioni a circa 200.000: più o meno dieci voti per ognuno dei 35.000 seggi elettorali, un’inezia; e quindi aprivano la strada alla verifica vera: controllare le schede.

A quel punto iniziò la partita “grossa”. Giorni prima in consiglio dei ministri Togliatti mise le mani avanti: “forse” le schede erano già state distrutte. Allarmati dalla richiesta del Presidente Pagano i partiti al governo decisero di proclamare subito la repubblica. Un primo tentativo avvenne nella notte tra lunedì 10 e martedì 11. Il governo dichiarò che ormai la repubblica era “un fatto” e proclamò festivo il giorno ormai iniziato, senza che nessuno potesse esserne informato. Dopo un vortice di comunicazioni col governo, Umberto II dichiarò che avrebbe atteso la proclamazione del risultato definitivo da parte della Corte Suprema di Cassazione in programma per le ore 18 del 18 giugno. Parola di re: rispettare le leggi perché il sovrano costituzionale non è “al di sopra” ma “nelle leggi”. Le emana anche se non sempre le condivide. Valeva ancor più in regime di “costituzione provvisoria”. Alle 0.15 di giovedì 13 il governo fece il passo definitivo: conferì al presidente del Consiglio De Gasperi le funzioni di Capo dello Stato con il voto contrario del solo Leone Cattani, liberale, monarchico e, ciò che più conta, ligio alle norme. Da quel momento l'Italia ebbe due Capi di Stato: Umberto II e De Gasperi.

Che cosa sarebbe accaduto? Come vennero conteggiati i voti mancanti e le famose schede bianche, nulle, annullate, non assegnate? La questione era aperta. Ormai, però, erano noti i risultati della Costituente. Il quadro politico era chiaro: in testa erano democristiani, socialisti e (delusi assai) i comunisti. I partiti dichiaratamente monarchici ebbero una manciata di seggi. La forma dello Stato tuttavia rimaneva in discussione. Sino a quando poteva durare? A Napoli e a Taranto si registrarono scontri sanguinosi tra monarchici e polizia. Il clima si stava surriscaldando. C'era anche il rischio di moti armati interni e di interventi militari stranieri?

Alle 15 del 13 giugno Umberto II lasciò il Quirinale per Ciampino. Alle 16:10 partì dall'Italia verso il Portogallo, senza riconoscere quel che ancora nessuno conosceva, cioè l'esito del referendum. Partì Re e tale rimase. Ma quel che avvenne tra il 13 e il 19 giugno, giorno natale della Repubblica, merita un racconto successivo: la conta e riconta affannosa dei voti affioranti dal garbuglio di 35.000 verbali di seggio per tirare le somme da annunciare alla Suprema Corte di Cassazione, incluso il numero delle schede bianche, nulle, annullate e non assegnate, ignorato il 10 giugno, vigilia dell'affrettata “dichiarazione” di nascita della repubblica, che vide l'alba il 19 seguente.

24 Maggio

 



”Soldati di Terra e di Mare. L’ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata.

Seguendo l’esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire.

Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell’arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarlo.

Soldati a voi la gloria di piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra.

A voi la gloria di compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri“.

 

Dal Gran Quartiere Generale, 24 maggio 1915.


VITTORIO EMANUELE III