NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 31 luglio 2020

Bardonecchia racconta la storia della Bela Rosin, la regina di cuori senza regno


Venerdì 31 luglio, nell’ambito di SCENA 1312, cartellone culturale estivo, proposto dall’Amministrazione Comunale ed organizzato da Estemporanea, per la parte musicale e da Accademia dei Folli, per la parte teatrale, sarà di scena al Palazzo delle Feste, con inizio alle ore 21.00, spettacolo di musica e teatro, con protagonisti Marisa Torello, narratrice, l’attore Edoardo Rossi e l’Estemporanea Ensemble, formazione musicale composta da Massimo Bairo, violino, Tamara Bairo, viola, Fiorenzo Pereno, sassofono e Lucia Margherita Marino, clarinetto e clarinetto basso.

Marisa Torello, discendente da un’antica famiglia piemontese con dei componenti a servizio notarile e contabile in Casa Savoia, leggerà alcune le lettere inedite ritrovate nel baule di re Umberto II, restituite pochi anni fa all’Archivio di Stato, dove la studiosa si è più volte recata per consultazioni con il figlio Manuel.

Lettere che rivelano aspetti inediti dell’Italia Risorgimentale ....

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mercoledì 29 luglio 2020

Re Umberto I a centovent’ anni dalla sua morte


di Emilio Del Bel Belluz

Il 29 luglio 2020 saranno trascorsi centovent’ anni dalla tragica morte del Re Umberto I, ucciso a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Una data importante per l’Italia, e mi auguro che possa essere ricordata, anche se il dubbio mi assale. I mass media, eccetto qualche rara eccezione, non hanno ricordato neppure l’anniversario dei duecento  anni dalla nascita del Padre della Patria, Vittorio Emanuele II. Se per il padre della Patria è successo questo, figuriamoci cosa ci si potrà attendere per il figlio. Questa nostra Patria non ha bisogno di ricordare la storia che l’ha resa grande. Il nostro Paese si sta avviando verso un tramonto che pare irreversibile, perché viene dimenticato il significato di patria. Il 29 luglio del 2020 nel luogo del delitto, mi auguro che la bandiera Sabauda possa sventolare, e raccogliere il saluto del vento e del cielo. Per tornare indietro nel tempo, e leggere nel cuore di quelli che scrissero su quello che accadde, mi sono affidato a dei personaggi illustri, in modo particolare allo scrittore Giovanni Papini. Nel suo libro Passato Remoto (1885-1914), dedica un capitolo al regicidio. Lo scrittore allora aveva 18 anni e si trovava a Firenze, in una giornata molto calda e afosa, Quell’anno il mese di luglio fu particolarmente caldo. Papini si stava recando alla Biblioteca Nazionale, che verso le nove apriva i battenti. Era il 30 luglio  del 1900. “Anche la mattina del 30 luglio 1900 ero lassù, vicino alla muscosa fontana che accresceva la  mia illusione di frescura e avevo con me  un’ edizioncina della Divina Commedia con le note di Pietro Fraticelli : povera edizione e poverissimo commento. Suonaron le nove ed io discesi a precipizio la scalinata, secondo il solito, ma non appena ebbi passato il Ponte alle Grazie mi accorsi che ci doveva essere qualche grossa novità. Capanelli fitti stavano, immoti e muti, dinanzi ai giornalai; molti passanti avevano in mano un giornale che avidamente leggevano; ciuffi di gente parlottavano su tutti i crocicchi e sulle porte delle botteghe. In Via de’ Benci apparivano già, a qualche finestra di palazzo, bandiere abbrunate a mezz’asta. Mi feci largo tra coloro che sostavano, impalati e intontiti, dinanzi a un giornalaio e vidi che il manifesto non conteneva che poche parole, stampate in caratteri grossi e neri, tra due liste di lutto: il Re Umberto I era stato ucciso il giorno prima, a Monza, da un anarchico”. Il 29 luglio del 1900 fu un giorno terribile per l’Italia. Il Re Umberto era a Monza con la moglie Margherita, ospite di villa Reale. Quel giorno doveva presenziare a un concorso ginnico della società Forti e Liberi. Al termine della serata, la carrozza con i sovrani se ne stava andando, erano le 22.30, quando passando tra la folla, un giovane mescolato tra le persone, estrasse dalla tasca  la sua pistola e sparò quattro colpi, verso il Re Umberto I, di questi quattro proiettili tre arrivarono a segno. Il dramma si svolse in pochi attimi, impossibile evitare la tragedia. Quando la carrozza raggiunse la Villa Reale, il sovrano era già morto.  Il sangue del sovrano bagnò le mani della sua amata Regina Margherita. Il Re morì subito, una di quelle maledette pallottole gli arrivò al cuore. Il sovrano aveva solo 56 anni. L’uomo che lo uccise era un anarchico, che era tornato dall’America, dove aveva la compagna irlandese Sofia Neil e la figlioletta Maddalena. Aveva detto alla famiglia che lo scopo del suo viaggio era quello di sistemare alcune questioni ereditarie con i fratelli. La vera intenzione era, invece, quella di ammazzare il Re. L’Italia venne toccata duramente da questa terribile notizia, il Paese si fermò. Nel libro Gli eroi di Casa Savoia, venivano riportate le seguenti parole che Re Vittorio Emanuele III rivolse al popolo italiano con il suo primo proclamo, datato 2 Agosto 1900: “ Ricordatevi che Umberto I, “ il Re buono e virtuoso, scampato, per valore di soldato, dai pericoli delle battaglie, uscito incolume, per volere della Provvidenza, dai rischi affrontati con lo stesso coraggio a sollievo di pubbliche sciagure, cadde vittima di un atroce misfatto mentre nella sua tranquilla e generosa coscienza partecipava alle gioie del suo popolo festante”. Egli pochi istanti prima di essere ucciso, aveva detto alle persone che  lo circondavano: “ Sono felice di trovarmi fra il mio popolo, fra i giovani ginnasti!...” L’otto agosto del 1900 la salma del Re d’Italia partì per Roma, dove giunse il 9 agosto. Quello stesso giorno si svolsero i funerali solenni, dove vi parteciparono grandi personaggi e tutto il popolo si strinse attorno alla famiglia Savoia. Il quotidiano   La Sera del 9 agosto 1900, scriveva: “ Un importante corteo accompagna ora, alla gloriosa quiete del Pantheon, la salma del Martire. L’Italia intera nei suoi confini artificiali, e nei suoi confini naturali, si assiepa, lacrimando di commozione e sfolgorante d’orgoglio, attorno al feretro del Re Martire. Non è un convoglio funebre questo, è un apoteosi; non è una tomba che si dischiude, è una gloria; non è la morte, è il trionfo; non è l’addio supremo, è l’immortalità”. Pace all’anima del Re Generoso e Buono”.  Lo storico e Accademico D’Italia, Gioacchino Volpe, in un libro dedicato a Re Vittorio Emanuele III scriveva : “ Vittorio Emanuele III  sale al trono nell’agosto del 1900, dopo la morte di Re Umberto, caduto per le vie di Monza sotto i colpi di un anarchico. Per quanto dovuto a iniziativa individuale maturata nel torbido ambiente dei grandi centri di immigrazione del Nord America, in un’epoca in cui  attentati a sovrani e a capi di governo erano all’ordine del giorno, tuttavia è difficile disgiungere quel folle gesto da tutta la situazione italiana del decennio precedente, col suo diffuso e profondo malcontento fra le masse e anche fra i ceti colti e con la propaganda sempre più attiva di sovversivismo che giungeva sino all’anarchia”. Dopo la morte del Re, il nuovo sovrano Vittorio Emanuele III, salito al trono, non applicò nessuna legge repressiva. L’autore del regicidio fu condannato all’ergastolo, ma si suicidò il 22 maggio 1901. In tutta questa vicenda bisogna dire che alla famiglia di Gaetano Bresci, che viveva in America, le venne assegnato un sussidio. Il nuovo Re Vittorio Emanuele III e la sua amata Regina Elena, non conoscevano il sentimento dell’odio e del rancore  Sarebbe stato giusto  far riposare anche questi reali, come era stato sperato dal Re Umberto II, nel Pantheon.

lunedì 27 luglio 2020

Prevenire il caos attualità dello Statuto Albertino (1848)


di Aldo A. Mola

Il fardello della classe dirigente
Non è vero che “gli italiani” non sappiano decidere. Farlo, però, non tocca ai “cittadini” ma a chi ha e deve esercitare il Potere: dal Capo dello Stato al governo e alla dirigenza, sia quella favorevole all'immobilismo o persino alla reazione, sia quella che si erge a interprete del cambiamento e propugna le “riforme”. Il comune cittadino ha informazioni, opinioni, pulsioni, ma non possiede tutte le cognizioni necessarie e sufficienti per tradurre le sue personali aspirazioni in decisioni valide ed efficaci “erga omnes”. Questo compito spetta a chi riveste cariche pubbliche (munera, dicevano i romani), in corrispondenza e proporzione con la sua posizione.
   E' comunque chiaro che in un sistema parlamentare (qualunque sia la forma dello Stato, monarchia o repubblica) a decidere non è, non può essere “un uomo solo al comando”, se non in  preda a delirio di onnipotenza. Men che meno in regime costituzionale il presidente del Consiglio può pretendere di riprendere il sentiero sassoso dei decreti “motu proprio”, già sonoramente bocciati da tutti i costituzionalisti e, ciò che più conta, dall'opinione della stragrande maggioranza dei cittadini, esasperati da misure coercitive e vessatorie, tipiche di sistemi autocratici. 
   Certo, governare non è mai stato facile. Ma non dovrebbe essere impossibile in una democrazia parlamentare quale l'Italia odierna sin dall'adesione alla Nato consentì “a condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Costituzione), mettendosi così al riparo dal rischio di aggressioni e di iniziative stravaganti o autolesionistiche del proprio governo pro tempore o del suo presidente. Perciò la dirigenza (a tutti i livelli) dovrebbe prendere atto a viso aperto della cornice entro la quale l'Italia può muoversi e renderne edotti i cittadini con parole chiare, fatti alla mano. Far credere ai cittadini che lo Stato possa decidere liberamente la propria politica estera e militare e, di conseguenza, quella interna (finanziaria, economica e sociale, a tacere dell'istruzione pubblica) significa alimentare la credulità popolare con promesse da “frate Cipolla”. Questa è purtroppo la linea del governo attuale, che raggira quotidianamente al Paese. Tale condotta ha una spiegazione: far credere agli italiani di potersi permettere il lusso di mandare in Parlamento persone del tutto impreparate, spesso sprovvedute e giullaresche, manifestamente ignare della pesantissima responsabilità che grava sui “politici”, anche quando siano chiamati a fare i proconsoli di Bitinia (come Plinio il Giovane) anziché a reggere un impero (come Marco Ulpio Traiano, al quale Plinio chiedeva consigli per svolgere la propria parte).
   Per meglio comprendere la distanza abissale tra tanta parte del “ceto politico” che attualmente governa e amministra l'Italia e la grandezza di una dirigenza vera giova ricordare quanto avvenne nel 1846-1848 nello “spazio Italia” che il cancelliere imperiale austriaco Clemens von Metternich liquidò come “espressione geografica”. Quel “Quarantotto” per l'Italia fu l'anno della grande prova, ben più impegnativa e complessa di quelle vissute durante e subito dopo la partecipazione alla Prima e alla Seconda Guerra mondiale, le due fasi della Guerra dei Trent'anni del secolo scorso. Dopo il 1918-1919 l'Italia visse i postumi di un trauma i cui precisi termini sfuggono alla percezione comune perché oggi è difficile calarsi nella tragedia di un Paese avvolto nel lutto (un milione e mezzo di morti per causa di guerra e per l'epidemia di febbre detta “spagnola”) e prostrato dalle indicibili sofferenze dei mutilati e dei feriti (curati come all'epoca si sapeva e si poteva) e di quelle dei milioni di combattenti smobilitati nel difficile passaggio dalla produzione di guerra a quella di pace, in un'Europa sconvolta da crolli di istituzioni secolari e da rivoluzioni politiche e sociali. La patetica retorica di Giuseppe Conte sulla pandemia da covid-19 e persino le previsioni di guai nel prossimo autunno, ventilate dal Viminale quasi a scanso di colpa, dànno la misura della modestia della memoria storica di chi al governo è arrivato non per libera scelta degli elettori  ma suffragio  per designazione di “cupole” partitiche e da “piattaforme” estranee alla democrazia parlamentare, sensibili a interessi non sempre coincidenti con il bene comune.
Le lunghe barbe del Quarantotto
Il Quarantotto fu altra cosa. Il suo frutto più durevole scaturì sulla primavera. Maturò il 4 marzo 1848, quando Carlo Alberto di Savoia promulgò lo “Statuto organico” del regno di Sardegna, rimasto formalmente valido anche dopo il cambio della forma dello Stato d'Italia (19 giugno 1946): sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Nell'impossibilità di rievocarne analiticamente genesi e contenuti, studiati da oltre un secolo e mezzo da costituzionalisti e storici di vaglia come Carlo Ghisalberti e Gian Savino Pene Vidari, va ricordato che esso sintetizzò due opposte esigenze.
   Nel Preambolo il Re affermò di aver deliberato gli 84 articoli della Carta “prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del (suo) cuore” per “conformare” le sorti dei regnicoli “alla ragione dei tempi, agl'interessi e alla dignità della Nazione”. Lo Statuto, tuttavia, venne definito “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Il Re sottoscrisse, seguito dai ministri (Borelli, Avet, De Revel, Des Ambrois, E. di San Martino, Broglia, C. Alfieri). Così vincolò sé e impose ai successori di giurare fedeltà alla Carta al loro insediamento.
   Re “per grazia di Dio”, Carlo Alberto lasciò trasparire che lo Statuto, deliberato “di sua certa scienza, Regia autorità e avuto il consenso del suo Consiglio”, fosse nato anche su sollecitazione esterna (“in mezzo agli eventi straordinari che circondavano il paese”), al di là della sua propria ed esclusiva volontà, fermamente rivendicata nel Preambolo. In tal modo veniva tacitata l'avversione di quanti (anzitutto gran parte del clero, avverso al teologo Vincenzo Gioberti) lo ritennero cedimento della Monarchia alla pressione di forze ostili alla Tradizione. In realtà, come ampiamente documentato e argomentato da Narciso Nada nell'insuperata storia del regno di Sardegna, il cinquantenne Carlo Alberto aveva percepito e assecondato da tempo la “svolta” anche prima dell'8 febbraio 1848, quando vennero “proclamati” (non semplicemente “annunciati”) i 14 capisaldi della “costituzione” ventura.
   Questi erano il punto di arrivo di un processo per molti aspetti maturato e già tradotto in regi decreti dall'anno precedente. Sarebbe lungo ripercorrere i passi compiuti dal sovrano per dare corpo formale al mutamento del rapporto tra Corona e regnicoli sin dall'inizio degli Anni Quaranta: un cammino scrupolosamente osservato e documentato da molti suoi protagonisti, come Massimo d'Azeglio, diffidente delle sue recondite intenzioni anche quando il Re lo abbracciò assicurandogli che, giungendo l'ora, avrebbe messo se stesso, i figli e i beni a disposizione della libertà dell'Italia. A sua volta Luigi Francesco Des Ambrois de Nevache annotò che nel corso degli anni, non dall'oggi al domani, Carlo Alberto si era circondato di una élite di uomini abili, capaci e decisi, “che seppero svuotare lo Stato dall'interno dei suoi contenuti più arcaici, seppero trasformarlo da Stato militare e semifeudale a Stato moderno e civile”, preparandolo a divenire Stato nazionale.
   Il 1847 fu scandito da eventi premonitori, mentre l'intera Europa viveva agitazioni e persino la quieta Svizzera fu sconvolta dal conflitto armato tra liberali e cattolici. Quasi a coronamento dei Congressi degli Scienziati Italiani, fra il 30 agosto e il 3 settembre si svolse a Casale Monferrato il Congresso Agrario promosso da Pier Dionigi Pinelli (1804-1852), direttore di “Il Carroccio”. Il conte di Castagnetto, suo “portavoce”, vi lesse l'impegnativa lettera di Carlo Alberto, pronto a battersi per l'indipendenza dell'Italia.
  Nel Consiglio di Conferenza del 30 ottobre 1847 Carlo Alberto sanzionò il nuovo codice di procedura penale e altre importanti riforme giudiziarie e annunciò l'elettività dei consigli comunali e provinciali, regolamentata con il Regio Editto del 27 novembre che sancì il gradimento da parte della Corona del “lavoro che da tempo si stava preparando” per stringere i vincoli tra la monarchia e una dirigenza diffusa. Migliaia e migliaia di cittadini sarebbero stati scelti dagli elettori quali propri rappresentanti per amministrare i loro interessi generali in una stagione caratterizzata dall'espansione rapidissima delle infrastrutture (strade, ferrovie, nuovi canali irrigui), del sistema bancario (anche con la moltiplicazione delle casse di risparmio) e dell'informazione. Le regie patenti sull'elettività dei consigli locali si accompagnò infatti a quelle sulla libertà di stampa, già precedute dalla nascita di periodici politici influenti e in breve salutate dalla proliferazione di nuove testate, protagoniste del dibattito culturale e politico.
In pochi mesi il regno di Sardegna mutò volto, prima che a Palermo scoppiasse la rivoluzione del 12 gennaio 1848 e che il 24 febbraio a Parigi venisse cacciato Filippo d'Orléans e fosse proclamata la seconda Repubblica, di lì a poco presieduta dal poeta Alfonso Lamartine.
Lo Statuto, pilastro della monarchia rappresentativa 
Tra l'ottobre 1847 e la fine del gennaio 1848 crebbero di intensità le pressioni dei fautori di un mutamento più profondo e netto, da realizzarsi mediante la promulgazione della costituzione: cortei, manifestazioni, banchetti politici (a imitazione di quelli in uso in Francia: fu il caso dei commercianti con la partecipazione di Camillo Cavour; dei mastri e garzoni carrozzai, presente Roberto d'Azeglio…) e “feste” apparentemente spontanee, ma di fatto organizzate e tollerate da chi ne aveva bisogno per accelerare la svolta dalla monarchia amministrativa e consultiva a quella propriamente rappresentativa, precorsero il “congedo” del conte Clemente Solaro della Margarita da segretario di Stato per gli Affari Esteri e del marchese di Villamarina da ministro di Guerra e Marina.
  Il 4 novembre 1847 il conte Ilarione Petitti di Roreto scrisse a Michele Erede: “I retrogradi sono avviliti. Primo d'essi il conte La Torre, in casa del quale da alcuni giorni si piange e si prega, non però Pio IX. I Gesuiti non si vedono più”. Il “cambio” mutò rapidamente volto. Dopo l'elettività alle cariche amministrative, furono posti al centro antichi diritti di libertà, destinati a fare del Regno di Sardegna lo Stato guida del processo di unificazione nazionale. In primo luogo la piena libertà di culto e la parità dei diritti civili e politici dei cittadini non cattolici, anzitutto i valdesi e protestanti in genere, poi gli israeliti, e, di concerto, l'offensiva contro la Compagnia di Gesù, elevata a simbolo della reazione antiliberale.
   All'inizio del gennaio 1848 circolò voce che il Re stesse per istituire una Consulta di Stato con voto deliberativo e decretare la responsabilità dei ministri nella gestione degli affari dei dicasteri loro affidati, l'emancipazione degli israeliti, la diminuzione del prezzo del sale, la guardia civica, un'amnistia (per reati “politici”) e l'espulsione dei gesuiti dal regno.
Il Consiglio di Conferenza (istituito il 1 maggio 1815 e ulteriormente regolamentato il 9 ottobre 1841) su sollecitazione del ministro dell'Interno, conte Borelli, prese in esame la “crisi politica” del regime ormai al bivio: precorrere le pressioni con l'emanazione di una costituzione od opporvisi con tutti i rischi conseguenti. Nel primo caso, bisognava preparare tutto “avec le plus de dignité possibile pour la Couronne, avec le moins de mal possibile pour le pays. Bisogna concederla, non farsela imporre: dettare le condizioni, non subirle...”.
   Dopo il già ricordato Proclama dell'8 febbraio, il Consiglio di Conferenza iniziò una corsa contro il tempo: “préparer lo Statut organique et les différents lois qui s'y rapportent, entre autres la loi electorale, la loi sur la presse et celle concernante la Milice Communale”.
Per arginare, il 17 febbraio il Consiglio fissò per il 27 successivo la festa per le nuove “concessioni accordate dal Re”, tra cui spiccano le Lettere patenti che da quel medesimo giorno riconobbero ai valdesi tutti i diritti civili e politici.
   Lo stesso 17 febbraio il Consiglio iniziò l'esame dello Statuto organico (sempre in francese, ma il testo della Carta fu scritto in italiano, come risulta dai verbali redatti dal conte Radinati), a cominciare dalla successione al trono, “que l'on a cru devoir laisser régler par la loi salique selon les principes fondamentaux de l'Etat”. La monarchia di Savoia era e rimaneva incardinata sulla successione di maschio in maschio e sulle Regie Patenti che subordinavano le nozze dei componenti della Casa all'assenso del sovrano: leggi immutabili, come Umberto II scrisse ripetutamente al figlio, mettendolo in guardia dalle conseguenze perpetue della loro violazione.
   Devoto alla Tradizione e sicuro di essere strumento della Provvidenza, l'“italo Amleto” (quale Carlo Alberto fu appellato da Giosue Carducci nell'ode “Piemonte”) firmò.  Decise la storia. Saldò con i nodi di Savoia la monarchia sabauda e le onde tumultuose di un'Italia nel pieno di trasformazioni politiche: le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo), che cacciarono gli Austriaci; la fuga  di Francesco V d'Asburgo da Modena, quella di Carlo Ludovico II di Borbone da Parma e Piacenza. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra a Ferdinando II d'Asburgo, imperatore né romano, né sacro, ma d'Austria, che di lì a poco passò la mano al nipote, Francesco Giuseppe. Con i plebisciti del 29 giugno Milano e Piacenza vollero Carlo Alberto Re statutario. Da un capo all'altro l'Europa era sconvolta da insurrezioni e rivoluzioni. In febbraio Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il “Manifesto del partito comunista”. Lo stesso anno comparve l'opera più importante di John Stuart Mill. Da poco Louis Blanc (fautore degli Ateliers Nationaux: sempre meglio che l'elemosina per esistenza in vita, spacciata come “reddito di cittadinanza”) e Jules Michelet iniziarono a pubblicare le rispettive storie della Rivoluzione francese, mezzo secolo dopo “i fatti”.
  Lo Statuto albertino sopravvisse alla sconfitta militare del Regno di Sardegna (lasciato solo da alleati fedifraghi: Pio IX, Ferdinando II di Borbone, Leopoldo II di Asburgo-Lorena..) e all'avvicendarsi di sette governi in meno di due anni (Balbo, Casati, Alfieri, Perrone, Gioberti, Chiodo, de Launay), al ripetuto scioglimento della Camera, alla “brumal Novara” (23 marzo 1849), all'esilio del Re, morto ad Oporto a fine luglio. Dieci anni dopo suo figlio, Vittorio Emanuele II, entrò vittorioso in Milano e a fine 1870 in Roma, ove rievocò il Magnanimo genitore e celebrò l'unione tra istituzioni e “popoli d'Italia”. La base dell'Unità nazionale era antica e nuova: venne fusa al calor bianco in sole quattro sedute del Consiglio di Conferenza, sempre presente Re Carlo Alberto, pallido, assorto, attento a ogni parola, conscio di avere sulle spalle non solo otto secoli e mezzo della sua Casa ma il suo ruolo nella costruzione della Nuova Europa, con equilibrio, lungimiranza e determinazione, “a qualunque costo”. Lo Statuto durò cento anni. La Costituzione vigente ne ha 72. Il caos politico, economico e sociale ci ricorda che la Storia è sempre questione di classe dirigente, della sua capacità di coniugare istituzioni e cittadini.
Aldo A. Mola



Antonio Beltramelli, Accademico d’Italia


di Emilio Del Bel Belluz 

Antonio Beltramelli  era uno scrittore romagnolo, nato a Forlì l’ 11 gennaio 1874, e morto a Roma il 15 marzo 1930. Il titolo che più gli fece onore è quello di essere stato nominato Accademico d’Italia nel 1929, un anno prima della sua morte, avvenuta a soli 50 anni. Amico di Mussolini,  alla sua morte il duce ne fu molto dispiaciuto. Lo scrittore aveva pubblicato una biografia sul Duce che aveva avuto molto successo, dal titolo L’uomo nuovo. 
Mussolini, personalmente, aveva chiesto all’ amico Giuseppe Prezzolini di scrivergli la sua biografia, ma lo scrittore toscano non lo aveva accontentato. Anche la scrittrice Margherita Sarfatti pubblicò una biografia su Mussolini. E’ difficile capire, oggi, perché le case editrici non ristampino questi preziosi documenti. Mi dispiace  che Beltramelli, a novant’ anni dalla sua scomparsa, non sia stato ricordato da nessun articolo sui giornali. Questo può anche essere considerato un grande onore, perché sta a significare che non piace all’attuale cultura di sinistra. 
Giuseppe Ravegnani, uno scrittore che lo conosceva molto bene e di cui era  amico, scrisse a ventuno anni dalla sua morte dalle colonne del giornale, credo  Il Tempo : “ Ventuno anni fa, in una stanza dell’albergo Flora di via Veneto, a Roma, moriva Antonio Beltramelli. Beltramelli da due mesi aveva compiuto i cinquantuno anni, ma era bastata per ucciderlo una settimana di sofferenze atroci, di torture, per quel cancro al cervello. Io, in quel tempo, abitavo a Roma; e quella morte, così improvvisa e crudele, mi lasciò più solo che mai e più abbandonato. Romagnoli, di Forlì tutt’e due, lui della piana e io della collina, l’amicizia tra me e Beltramelli era di un buon legno stagionato, anzi meglio dire l’affettuosa fraternità, anche se io ero di sedici anni più giovane di lui. Beltramelli, specialmente d’inverno, veniva giù dalla Romagna,  e in tutta fretta, quasi che qualcuno lo fruconasse alle spalle, scendeva all’albergo Flora in Via Veneto, con la sorella Maria; ma appena la primavera tinteggiava di tenero verde gli alberi, risaliva di gran corsa alla sua terra  e ridiventava il “ signore della Sisa”.  
La casa in campagna “Sisa” dove viveva gran parte dell’anno era il suo mondo ideale, vicino alla natura che per ogni scrittore è una musa ispiratrice e dalla terra Beltramelli attingeva la linfa per vivere in armonia con se stesso. In quella casa attorniata da grandi tigli, sentiva il canto degli uccellini, viveva con la sorella e riceveva gli amici. Era come per Gabriele d’Annunzio il suo Vittoriale, il luogo sacro dove le sue pagine prendevano anima. In quella solitudine gli era caro vivere, spesso, sentendo il rumore della penna stilografica che scorreva sulla carta, e il profumo della natura che si mescolava con il profumo dell’inchiostro. La sua casa era sempre aperta agli amici, posta vicina al fiume Ronco. Ancora Ravegnani, scrive: “Romantico, romanticissimo il nostro Tugnàss, ma di un romanticismo nella sostanza tutto romagnolo e frenetico anche se nell’apparenza un po’ Dannuziano e decadente, egli aveva fatto della Sisa la sua Capponcina: una Capponcina rustica e alla buona e in fondo borghese, senza smancerie estetizzanti e senza calchi di statue, con i polli che razzolavano per il prato attorno a casa, con il buon odore di pane casalingo per le camere, e poi epigrafi, terrecotte, foto con dediche, ricordi di mezzo mondo, trofei e giapponeserie a non finire…  ”. 
Sulla porta d’ingresso aveva fatto collocare la scritta: “Sii benvenuto  ospite nella mia casa serena”. Era alla fine un notevole scrittore con un grande animo, che si poteva paragonare a quegli alberi che danno sempre un buon frutto. L’animo generoso e romagnolo lo aveva nel sangue. Nella sua vita di scrittore aveva pubblicato numerosi libri e novelle, anche su giornali nazionali. Fu collaboratore al Corriere della Sera dal 1907 al 1910. La sua produzione letteraria divenne come un fiume in piena, e la sua fama crebbe. Beltramelli continuò la sua vita modestamente, e leale verso lo stato. Nel 1925 firmò il manifesto di Giovanni Gentile, degli intellettuali fascisti, poi divenne Accademico nel 1929. Uno scrittore che lo conosceva molto bene era Orio Vergani, pure lui Accademico d’Italia. 
Il Vergani gli dedica alcune pagine nel suo diario Misure del Tempo. In questo diario ci spiega anche il rapporto speciale che Beltramelli aveva con il fascismo e con Benito Mussolini. Quando venne nominato Accademico d’Italia non possedeva nemmeno i soldi per comprarsi la divisa, fu ,pertanto, Mussolini a provvedere a tutto. Il Duce nel 1923 diceva di Beltramelli :” Siete uno dei rari scrittori che scrivono in italiano, e siete, naturalmente, una gloria della Romagna, vecchia cara Romagna!”.

Dopo la morte di Beltramelli, uscirono in tre volumi, la sua opera letteraria, volumi corposi che raccoglievano i suoi romanzi e novelle,  editi dalla Casa Editrice Mondadori nella collana degli “Omnibus”. La sorella di Antonio Beltramelli  prega Arnaldo Mussolini di scrivere la prefazione alle novelle del fratello.

 “ Ma quale prefazione si può scrivere all’opera di uno scrittore come Antonio Beltramelli, che si è già tutto pienamente espresso nei suoi libri? L’opera sua - ardente, profonda, incisiva- la rievocazione degli uomini forti della nostra terra, si è ben disegnata e affermata mentre egli viveva; e oggi sopravvive alla sua tragica fine immatura. Non scrivo, dunque, una prefazione, ma dedico una parola di ricordo, un pensiero di rimpianto alla memoria del camerata ed amico. Povero Beltramelli! Se qualcuno apre d’improvviso la porta del mio studio, ho l’impressione che posa essere ancora Lui, a volta a volta gaio e triste, cordiale ed iracondo, pronto al giudizio severo e tagliente - sempre amico e fratello d’anima; col suo spirito vivo e giovanile, acceso dai più nobili entusiasmi, capace di impeti generosi e di bontà infinita. Romagnolo del tipo antico, tempra d’acciaio, fede che non tentenna. Egli non può presentarsi più al suo Giornale. L’ultima immagine che mi resta di Lui è quella di una povera spoglia, raccolta nella spietata fissità della morte. Ma Egli vive nella memoria che ha lasciato tra i suoi fratelli di lotta e di ideale, fra gli amici e i camerati; vive nella sua opera colorita ed ardente, che i critici malinconici non riescono a scalfire; vive in un esempio di probità laboriosa che egli ha lasciato agli scrittori dell’Italia nuova. Beltramelli ha saputo essere, come il suo grande fratello spirituale, Alfredo Oriani, artista e politico  ad un tempo. Ha dato l’esempio suggestivo di uno scrittore che considera l’arte come milizia e tiene la penna come si tiene la spada. Questo esempio rimane, per la gloria della sua terra e per la nobiltà della nostra fede fascista”. 
La vita di uno scrittore vorremmo non finisse mai, specialmente quando lo scopriamo per la prima volta. L’amico scrittore ha il compito di portarci con le sue pagine a mostrarci il suo animo e il mondo a lui caro.  Ho la consapevolezza che tutto non finisca dopo la sua morte, le pagine hanno una grande anima, un respiro. Lo scrittore cerca nel lettore il suo migliore alleato, e spera che lo porti con sé.  Beltramelli, morì novant’anni fa. La sua fine fu contraddistinta da una grave sofferenza fisica. 
Come disse un poeta, non è facile morire, lasciando quelli che abbiamo amato. Beltramelli lasciò una sorella che gli voleva bene e continuò ad abitare nella sua  casa,  sempre aperta a tutte le ore agli amici, alle persone semplici. Lo scrittore lasciò anche una moglie che mantenne sempre vivo il suo ricordo. Beltramelli lasciò un caro amico che gli  voleva bene, il critico letterario Giuseppe Ravegnani, che scrisse belle pagine su di lui, che hanno contribuito a farlo conoscere. La prematura morte di Beltramelli gli risparmiò  di vedere Benito Mussolini, appeso a Piazzale Loreto, e la fine di tutto quello in cui aveva creduto. La vita è fitta di sconfitte, ma spesso una sconfitta vale mille vittorie.

domenica 26 luglio 2020

Il Veltro dantesco



di Domenico Giglio

Alcuni amici e conoscenti mi hanno chiesto perché fossi così sicuro che la (Divina) Commedia fosse proprio il veltro indicato da Dante. Premetto che ho fatto il liceo classico, con un grande professore d’italiano, il gesuita Padre Raffaele Salimei, mi piaceva la storia e la letteratura italiana, ma poi ho scelto ingegneria affascinato a mia volta dalla architettura e dai progetti e poi dalle foto, anche in fase costruttiva, dei numerosi palazzi della Banca d’Italia, progettati e diretti da mio padre (Imperia, San Remo, Savona, La Spezia, Cremona, Viterbo, Livorno, Rieti, Civitavecchia, Ragusa, Enna e Trapani). Quindi non sono un professore di lettere, ma mi sono limitato, oltre a leggere Dante, a soffermarmi sui commenti ai versi in diverse edizioni, con diversi commentatori, a studiare alcune storie della letteratura, tra cui Francesco Flora, ma su alcuni punti controversi ho cercato semplicemente di ragionare. “Cogito ergo sum”. Allora mi sono posto il quesito di ordine generale sulla Divina Commedia : perché Dante la scrisse ? L’Alighieri era un poeta già conosciuto ed apprezzato, era un importante scrittore in prosa, latina ed italiana, poteva scrivere di tutto,anche un poemetto dedicato a Beatrice, ma perché proprio nelle difficoltà dell’esilio ha posto mano al “poema sacro “ che “ m’ha fatto per più anni macro “ (Paradiso - c. XXV- v. 1-3), rischiando anche l’accusa di eresia con tutte le eventuali gravissime conseguenze ?
Dante, a mio avviso, lo scrisse perché voleva adempiere ad una “missione”, e non certo solo a schivare le tre belve ed a rendere postumo omaggio a Beatrice, ed una missione è ben diversa da una “profezia”. La missione è “immediata”, contemporanea anche se il suo effetto può continuare nel tempo. Ancora oggi leggiamo testi di grandi predicatori, ed anche il semplice, ma stupendo “Cantico” di San Francesco o lettere di Santa Caterina da Siena, per cui la lettura della Divina Commedia è proseguita nei secoli ed il suo studio sono giustamente materia d’insegnamento scolastico, da quando l’Italia ha raggiunto la sua unità con il Regno d’Italia il 17 marzo 1861, e questa unità era effettivamente un vaticinio dantesco. Quindi una missione poteva anche essere svolta, ma il testo,ripeto, lo esclude, da un personaggio contemporaneo, ma di cui in quel secolo non vi è tracia e Dante era buon conoscitore degli uomini del suo tempo per pensare ad un Cangrande della Scala ( 1291-1329 ), o ad un imperatore. Pensare che fosse un personaggio di secoli dopo è di una tale illogicità, che meraviglia avere alcuni scrittori in epoche successive attribuito a personalità anche importanti, e sempre italiani, il ruolo del veltro, ma di cortigiani, “vil razza dannata”, è piena la storia. Pensare alla terza età dello Spirito Santo, del “calavrese abate Gioacchino, di spirito profetico dotato” (Paradiso – c. XII. v. 140), è egualmente assurdo perché il tra “feltro e feltro” indica sempre dei fogli di carta e quindi una opera scritta. E se opera scritta doveva essere è appunto la Commedia.
Ecco perché “la sua nazion “, e la “sapientia, amore e virtute”, sono i cento canti della Divina Commedia e la sua missione contro cupidigia, corruzione, avarizia, ricchezza e potere temporale della Chiesa ( questo però cessato il 20 settembre 1870 ) è sempre valida ed attuale.



venerdì 24 luglio 2020

Paolo Boselli (1838-1932)


di Gianluigi Chiaserotti

Inizio con il presente una serie di articoli dedicati ad illustri personaggi della c. d. “Italia Liberale” che furono creati Senatori del Regno, quando far parte della Camera Alta aveva un valore, una tradizione contro l’attuale degrado in cui è caduta tale istituzione.
Ma dalla nostra repubblica cosa ci aspettiamo?
Paolo Boselli nacque il giorno 8 giugno 1838 in Savona, da Paolo Boselli, di professione notaio, e da Marina Pizzorno.
Il padre, di sentimenti liberali, nel 1821 dovette andare in esilio in Francia, perché accusato di aver favorito la fuga di patrioti come Santorre di Santarosa (1783-1825).
Dopo aver frequentato il collegio degli Scolopi a Savona, Boselli nel 1856 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, dove si laureò nel 1860, avendo illustri docenti come Francesco Ferrara (1810-1900), Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) ed Antonio Scialoja (1817-1877).
Sposatosi con Corinna Cambieri (dalla quale ebbe tre figli, Silvio, Maria e Luisa), Boselli fece una rapida carriera nella divisione amministrativa statale: nel 1862 divenne auditore del Consiglio di Stato, nel 1865 ebbe la nomina a consigliere della prefettura di Milano, mentre successivamente collaborò con l’allora ministro dell’agricoltura, e, su incarico di quest’ultimo, Boselli venne nominato (1867) segretario generale della Commissione italiana all’Esposizione Universale di Parigi.
Nominato membro della Giunta permanente di Finanza (1869) da Quintino Sella (1827-1884), il Boselli fu contemporaneamente professore ordinario di economia politica alla Scuola Superiore di commercio di Venezia.
Nel 1870, quindi, divenne professore universitario della cattedra di scienza delle finanze a Roma, appena istituita, ma abbandonò l’insegnamento nel 1874 per dedicarsi completamente all’attività politica.
Boselli era stato eletto deputato, per il collegio di Savona, nel Parlamento italiano nel 1870 nelle file della Destra storica, partecipò a varie commissioni parlamentari e fu relatore di vari progetti di legge: membro e poi presidente della giunta permanente di finanza, fece parte delle commissioni di riordinamento dell’imposta fondiaria, di quella per il riordino dei tributi locali e di quella consultiva sulle istituzioni di previdenza e del lavoro.
Successivamente, tra il 1872 ed il 1874, il nostro fu membro della commissione d’inchiesta agraria e di quella industriale. Inizialmente liberista (nel dibattito del marzo del 1876 sulla statalizzazione delle ferrovie si schierò dalla parte dei deputati governativi), Boselli si avvicinò successivamente allo statalismo economico propugnato da Francesco Crispi (1818-1901) e dal 1888 ricoprì vari incarichi ministeriali: infatti dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio 1891 fu Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Crispi, scelto per rafforzare con i voti di parte della Destra il ministero.
Vari furono i provvedimenti presi durante tale incarico: tentativo di istituzione della scuola media, miglioramento del regolamento scolastico, valorizzazione e conservazione del patrimonio artistico e culturale italiano attraverso il restauro di vari monumenti (Villa Giulia e le Terme di Diocleziano) e l’istituzione di musei archeologici.
Ministro dell’agricoltura nel terzo governo Crispi nel 1893, fu anche ministro delle Finanze dal 14 giugno 1894, lasciando il dicastero dell’Agricoltura ad Augusto Barazzuoli (1830-1896): come titolare del portafoglio finanziario, Boselli diede il definitivo regolamento alla neonata Banca d’Italia, nata dopo lo scandalo della Banca Romana che aveva fatto cadere il ministero di Giovanni Giolitti (1842- 1928).
Dopo la caduta dell’esecutivo Crispi in seguito alla battaglia di Adua, Paolo Boselli ritornò deputato, ma fu chiamato ad occupare il dicastero del Tesoro nel gabinetto di Luigi Girolamo Pelloux (1839-1924) nel 1899.
Questi, in sintesi, i governi a cui il Boselli partecipo’: Ministro dell’Agricoltura (1893, fino al 14 giugno 1894, sostituito appunto da Augusto Barazzuoli), con
Francesco Crispi (nel suo III governo, 15 dicembre 1893/2 giugno 1895), eppoi ministro del Tesoro con Luigi Girolamo Pelloux e dell’istruzione con Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) (nel suo I, 8 febbraio/29 maggio 1906).
Eletto in nostro varie volte presidente del Consiglio provinciale di Torino, fu a capo del Regio Museo Industriale Italiano dal 1904 al 1907 ed appoggiò in seguito l’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Nel 1906 fu nominato come Presidente onorario della S. P. Lazio, società della quale Boselli rimase sempre socio.
Nel 1910 divenne presidente triennale dell’Accademia delle Scienze di Torino di cui era stato eletto Socio nazionale nel 1888 e nel 1918 divenne Socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Fu presidente dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo dal 1911 alla morte.
Interventista allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1916, caduto il governo di Antonio Salandra (1853-1931) a causa dell’insoddisfazione generale suscitata dagli scarsi risultati ottenuti dalle sanguinose offensive italiane, e dal grave pericolo corso dal fronte trentino a causa della Strafexpedition austriaca, Boselli fu nominato Presidente del Consiglio dei ministri dal re Vittorio Emanuele III (1869-1947), rimanendo in carica dal 18 giugno 1916 al 30 ottobre 1917.
Il suo fu un esecutivo di coalizione nazionale, dal quale però rimasero esclusi i socialisti. Il primo ministro italiano fu contrario all’intromissione parlamentare sulla conduzione della guerra e diede sempre fiducia al generale Luigi Cadorna (1850-1928), approvando l’ottima visione strategica dello stesso ed i suoi metodi tattici. Ciò fu la sua fine, perché, dopo la battaglia di Caporetto, dovette presentare le dimissioni; al suo posto il sovrano nominò Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952).
Nel 1922, Paolo Boselli fu favorevole all’ascesa del fascismo, al quale lo accomunava l’avversione per il movimento socialista, tanto che nel 1924 ricevette la tessera ad honorem del Partito Nazionale Fascista.
Il Nostro fu creato Senatore del Regno il 10 aprile 1921 ai sensi dei commi 3 (“i deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio”) e 5 (“i Ministri segretari di Stato”) dell’art. 33 dello Statuto Albertino.
L’ultimo suo atto politico di rilievo fu la sua relazione in una commissione che approvò i Patti Lateranensi del 1929 proprio nell’ambito del Senato del Regno.
Paolo Boselli fu anche Presidente della Società “Dante Alighieri” (1906-1932).
Cultore di studi storici, il nostro creò in Roma il Museo del Risorgimento Italiano.
Il Nostro fu anche creato Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata il 31 dicembre 1915, quale creazione numero 739 dall’istituzione dell’Ordine.
Scomparso nel 1932 ad oltre 93 anni, è stato il più longevo primo ministro della storia d’Italia fino al 2013, quando è stato superato da Giulio Andreotti (1919-2013).
Paolo Boselli è sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

giovedì 23 luglio 2020

La campana del fante

di Paolo Casotto


La tragedia di Caporetto, causata da motivazioni di carattere strategico, politico, caratteriale e sociale, determinò un totale sbandamento e perdita di fiducia da parte della massa dei soldati e delle popolazioni residenti lungo il confine orientale del Friuli. La perdita dei territori, delle campagne coltivate, delle stalle con i propri animali e l’assistere alla devastazione delle proprie case e delle chiese dei paesi causarono grande sconforto e la perdita di ogni speranza. 
Il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III, non abbandonò mai il fronte. Durante l’arretramento delle popolazioni e dell’Esercito rivolse sempre parole di conforto verso gli umili soldati e le povere colonne di profughi , ricordando le virtù e il valore italiano. Dopo le prime ore dallo sfondamento del fronte ci si rese subito conto della situazione. Durante la ritirata, la confusione totale dei reggimenti che ripiegavano e i poveri carretti della popolazione civile che scappava, ingorgavano le rotabili e i viottoli fangosi, resi tali dalla pioggia e dal cattivo tempo della stagione. L’artiglieria austro-tedesca bombardava l’esercito italiano in ritirata, i reparti d’assalto austroungarici, senza pietà, aggredivano gli ultimi delle file. La cavalleria italiana cercava di frenare la corsa nemica sulla sponda sinistra del fiume Tagliamento. 
Una compagnia di fanteria, distaccata dal suo battaglione cercava di ripiegare velocemente fra le rovine e i detriti di un paese bombardato. Era difficile anche riconoscere un luogo dalla mancanza di cartelli segnaletici ed indicazioni della zona. L’ultimo gruppetto di fanti ricco solo di tascapane e zaino intravide tra i mattoni di un campanile bombardato una piccola campana di antica fusione. Il più piccolo di questi fanti, proveniente dalla Sardegna, pensò che non poteva lasciare questo importante oggetto in mano al nemico e infagottando la campana in una coperta da campo la mise all’interno del suo zaino. Il peso rese la marcia più dura, ma l’orgoglio di aver salvato l’oggetto lo fece sentire ancora più fiero. 
Il Piave venne oltrepassato grazie a un piccolo e stretto ponte di barche montato dai pontieri del Genio e frettolosamente si rincorse il Reggimento verso ovest e fu raggiunto a Cornuda. Nel piazzale della chiesa venne riordinato e contato con i ruolini di compagnia. In assenza di cucine, soldati e ufficiali mangiarono gallette e scatolette di carne di riserva. Gli ordini arrivarono quasi subito e il Comandante di Reggimento chiamò a rapporto i quattro Comandanti di battaglione per le disposizioni da ottemperare subito. Il Reggimento con tutti i suoi uomini doveva raggiungere Crespano, per poi attraverso la strada Cadorna prendere posizione sul massiccio del Grappa. Prima della partenza il Comandante di Reggimento lesse a tutti i suoi uomini il bollettino di S.M. Re Vittorio Emanuele III. 
Si partì subito e con circa due ore di marcia tutto il Reggimento arrivò alle prime case di Crespano, ai piedi del monte Grappa. Il fante con la campana all’interno dello zaino avrebbe voluto portarla al parroco del paese, don Giobatta Ziliotto, ma il suo Sergente non glielo permise, per evitare che gli uomini si perdessero nella totale confusione del momento. Erano i primi giorni di novembre 1917, il tempo era freddo, il Reggimento si accantonò vicino a una casa con fienile, stalle e pozzo, per riposare qualche ora prima di iniziare la salita. Il fante sardo, ostinato nel suo desiderio di consegnare la campana si rivolse al suo Capitano per poter recapitare la campana al parroco di Crespano, ma la risposta fu ancora di diniego. 
Il Capitano lo osservò e gli diede questo consiglio: “Domani, all’alba, Ti autorizzo a fermarti nella prima casa che incontreremo con la luce accesa per dare in custodia la campana con la consegna di farla recapitare al signor parroco”. Il fante rispose con un sorriso di ringraziamento. La marcia iniziò alle 4 e dopo circa mezz’ora il fante si avvicinò a una casa in località “Gherla” e consegnò la campana con la preghiera che fosse portata alla canonica di Crespano, perché potesse ancora ritornare a suonare. Il Reggimento raggiunse il monte Asolone a mezzogiorno e cominciò subito i lavori di scavo di sistemazione dei reticolati e di difesa. 
Tutti gli Italiani, civili e militari, sopportarono con valore e sacrificio le quattro battaglie del Grappa, fondendo forza e fede per proteggere le proprie famiglie e la propria terra. Alla fine del conflitto, del fante non si seppe più nulla, nessuno passò più per quella casa, in località “Gherla”, ma la vecchia campana con caratteristiche settecentesche fu consegnata al parroco. Fu un segno di rinascita e di pace per tutte le popolazioni europee, il suo suono marcò un richiamo di unità verso la condivisione dei valori comuni fondamentali della vita.

mercoledì 22 luglio 2020

Il libro azzurro sul referendum - XIX cap - 4-6


Ordine del giorno del Governo 18 giugno 1946
Dopo la comunicazione della Suprema Corte sui risultati definitivi del referendum, il Consiglio dei Ministri si riunì immediatamente ed approvò un ordine del giorno nel quale dichiarò: «Il Consiglio dei Ministri prende atto del giudizio definitivo della Corte di Cassazione sulle contestazioni, le proteste e i reclami e rileva che la Magistratura competente ha eliminato ogni dubbio di fatto e di diritto circa la netta decisione repubblicana del referendum e la conseguente perfetta legalità della posizione assunta il 10 giugno dal Governo».

Passaggio di poteri dal 18 giugno 1944
La «Gazzetta Ufficiale della Repubblica» pubblicò il decreto di passaggio dei poteri di Capo dello Stato dall'On. De Gasperi all'On. De Nicola e affermò che l'On. De Gasperi deteneva quei poteri dal 18 giugno dopo il verdetto definitivo (rimane così confermata la prematura assunzione dell'esercizio delle funzioni del 13 giugno).

Commento "De la Voce della Giustizia„
«La Repubblica è nata per volere di 12 milioni e 717 mila elettori circa, mentre altri 10 milioni e 719 mila circa volevano la Monarchia, 1 milione e 498 mila circa non si sono legalmente pronunciati (quelli delle schede nulle), un numero enorme di cittadini, almeno un altro milione non hanno votato perché non hanno ricevuto il certificato elettorale o perché recatisi a votare con il regolare certificato si sona sentiti dire che... avevano già votato (questione dei doppioni) rischiando anche di andar dentro; infine un altro milione circa di elettori non ha votato perché composto di prigionieri, di internati in Jugoslavia e di cittadini residenti sulla Venezia Giulia e nella provincia di Bolzano, per i quali ultimi la legge dice che «la convocazione dei comizi elettorali sarà disposta con successivi provvedimenti». «La repubblica dunque è nata, ma essa non è certo la repubblica di tutti gli italiani». Giovanni Durando; (da « La Voce della Giustizia » anno II n. 25, 22 giugno 1946).
«E' chiaro pertanto anche a prescindere dalla incompletezza delle consultazioni popolari del 2 giugno, cioè anche tenendo conto che in quel giorno furono tenuti lontani tutti i prigionieri (che oggi gli alleati si affrettano a mettere in libertà), tutti i reclusi, delle provincie Giuliane, tutti i «defraudati» del certificato elettorale, anche a prescindere da tutti questi elementi, è chiaro che il «referendum» istituzionale è da ritenersi inficiato dall'imprigionamento morale e fisico dei monarchici durato dal 25 aprile 1945 al 1 giugno 1946 e dalle impossibilità in cui essi si sono trovati di controbattere le menzogne dei repubblicani di occasione». Giovanni Durando; (da « La Voce della Giustizia » anno II n. 28, 12 luglio 1946).
«E' lecito immaginare che cosa sarebbe capitato in questa repubblica appena nata, se la Corte avesse deciso in conformità della richiesta del Procuratore Generale! Basti dire che in tal caso la maggioranza a favore della repubblica sarebbe di 250 mila voti! Il che avrebbe diviso il Paese anche più gravemente di quanto non l'abbia diviso «la repubblica dei due milioni». Giovanni Durando; (da « La Voce della Giustizia », n. 25, giugno 1946).

martedì 21 luglio 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 6


Non si vuole con questo affermare che tutti gli errori furono degli alleati. No, vi furono errori anche nostri; inesplicabili incertezze, assurde, ma pur diffuse speranze di una inoffensiva partenza dei tedeschi e, quindi, il desiderio di ammansirli, di non compiere atti che potessero apparire provocatori. Questo nostro atteggiamento era provocato anche in molti Comandi da un eccesso di coscienza morale; si, voleva, sì, uscire dalla guerra, ma sparare contro l'alleato di ieri, no. Tutto ciò è comprensibile, è umano, ma condusse a gravi conseguenze perché i tedeschi presero l'iniziativa dovunque e si guardarono bene dall'obbedire ad analoghe preoccupazioni morali. L'iniziativa, in guerra, dà, in genere, grossi vantaggi, ma nella lotta per il controllo di una città assicura quasi sempre la vittoria. Vi furono anche gravi ritardi nelle misure da adottare e inesplicabili deficienze (si pensi al difetto di carburante per il corpo motocorazzato). Infine vi furono circostanze avverse e impreviste come l'assenza di Ambrosio nella notte tra il sette e l'otto settembre all'arrivo del generale Taylor che doveva portare la sua divisione aviotrasportata per partecipare alla battaglia per Roma. Vi fu, insomma, la sorpresa morale che paralizzò l'azione di comando nella fase delicata della preparazione dell'azione prevista per la metà circa del mese. Perché poi non fu diramato immediatamente a tutte le unità sul territorio nazionale e fuori l'ordine di eseguire l'op. 44 e perché esso venne dato solo il giorno undici? Perché infine non fu lasciato alla stazione radio di Roma un disco da mettere in onda a regolari intervalli, contenente il preciso ordine di combattere contro i tedeschi appena nascesse il sospetto di un loro atteggiamento ostile o appena essi prendessero l'iniziativa della lotta?
Perché non fu convocato un consiglio dei ministri nella notte per dare a Roma la sensazione che v'era una rappresentanza del Governo e perché non fu diffuso un bando che affidasse ad una autorità militare il Comando della città e la sua difesa? A quest'ultima domanda qualcuno risponderà che era inutile un tale bando dato che la città non doveva essere difesa. t facile rispondere che non è vero perché per ore e ore i comandi di posti isolati e dei posti attorno alla città non seppero a chi rivolgersi e furono rinviati dall'uno all'altro comando con le conseguenze morali e disciplinari che è facile immaginare. Ed è anche chiaro che così facendo nessuno avrebbe potuto parlare di una fuga, ma di un piano predisposto, certamente assai grave e doloroso, ma evidentemente dettato dalla ferrea necessità della nuova guerra.
Detto tutto ciò, e molto, altro probabilmente vi sarebbe da dire (perché, ad es. non fu posto in salvo tempestivamente l'oro della Banca d'Italia, perché non fu predisposto l'allontanamento preventivo della Famiglia Reale per evitare l'impressione di una fuga), torniamo a domandarci: come questi avvenimenti, senza dubbio gravi e       dolorosi, ma rispondenti alla imperiosa necessità, da tutti accettata e sollecitata, di un rovesciamento dell'alleanza di guerra, come essi possono toccare la responsabilità del Sovrano?
Quando il Governo, su suggerimento dell'Alto Comando, decise, nella notte tra l'otto e il nove settembre di non difendere più la capitale e di trasferirsi lontano dal campo di azione tedesco, il Re non poteva che aderire, a malincuore, alla richiesta del Governo e trasferirsi in località italiana (distante dalla minaccia tedesca) ove potesse trattare l'armistizio con gli anglo-americani.
Forse che il Presidente della Repubblica francese, Lebrun non ha lasciato Parigi, nel giugno 1940, quando il Governo, per consiglio di Weygand, decise di non difendere la capitale e di trasferirsi a Bordeaux? E non avvenne la stessa cosa nella Francia nel 1914? Forse che Re Hakoon non ha lasciato, per lo stesso motivo, la Norvegia e la Regina Guglielmina, l'Olanda? E al re Leopoldo del Belgio non si fa, invece, l'accusa di essere rimasto? Quale legittimità avrebbe avuto il Governo Badoglio senza Re Vittorio a petto del Governo illegittimo di Mussolini e dei tedeschi? Chi e con quale autorità avrebbe potuto dare ordini agli ufficiali, ai soldati, ai funzionari, ai civili di non collaborare con i tedeschi?
È inaudito che in un paese di alta civiltà si debbano discutere argomenti così elementari. Ciò è forse dovuto alla tendenza inguaribilmente provinciale della nostra politica, a quella tale natura amorosa del nostro popolo che porta il sentimento e il culto della persona nell'esame e nel giudizio dei fatti politici. Si formarono subito i mussoliniani e i badogliani come in tempi lontani e altrettanto feroci v'erano stati palleschi e piagnoni. Deriva da ciò una concezione medioevale e anacronistica della funzione monarchica. Il Re doveva, ieri, montare a cavallo e caricare con le sue guardie le milizie del dittatore e avrebbe dovuto', nel settembre del 1943, portarsi con la spada mozza di Garibaldi sulle mura di Roma e al Vascello per difendere la capitale del suo Regno. Verrà giorno in cui l'aver dovuto portare la discussione su questo tema apparirà a noi, o agli studiosi che verranno, per lo meno grottesco: ma a ciò si è giunti per il carattere tristemente fazioso assunto in Italia dalla lotta politica. In un paese anglosassone ò scandinavo ci si preoccuperebbe di accertare una cosa sola. E cioè: Roma poteva o no essere difesa? È interessante il giudizio lasciato a questo proposito dal vecchio maresciallo Caviglia che in, quei due giorni prese il comando, come ufficiale più anziano e di grado più elevato, della città.

Maggiore e quattro signori in abito civile. Lasciamo a lui la parola:
«Furono fatti entrare in due stanze separate, ed io andai subito da Calvi di Bergolo. Lo trovai col suo capo di stato maggiore, colonnello Giaccone, e col tenente colonnello Cordero dì Montezemolo.
Calvi mi portava un "ultimatum" di Kesselring. Per le ore 16 doveva essere accettato; in caso contrario Kesselring avrebbe fatto saltare gli acquedotti di Roma già minati, e fatto bombardare la città da 700 aeroplani. Io calcolavo mentalmente che gli aeroplani potevano essere 70, ma bastavano. Le condizioni erano: disarmare le divisioni intorno a Roma e scioglierle mettendo in libertà gli ufficiali ed i soldati. Ai primi si lasciava l'onore dell' arma.
I tedeschi avrebbero occupato l'Ambasciata tedesca, la centrale telefonica e l'Eiar. Tutte le truppe tedesche sarebbero rimaste fuori Roma.
Non v'era che chinare la testa. Consigliai Calvi di mandare il suo capo di stato maggiore da Kesselring a portargli l'accettazione dell' "ultimatum". Dolorosa  decisione! In quel momento triste ebbi una buona impressione di quei tre uomini: bravi soldati, forti, onesti, e risoluti. Formavano un insieme serio e fedele: si completavano. Giaccone rappresentava il metodo disciplinato e rettilineo; Montezemolo lo spirito aperto, pronto e multiforme.
Mi lasciarono, ed io passai all'altra stanza, dove trovai Ivanoe Bonomi, il senatore marchese Casati, l'on. avv. Ruini, ed il Ministro delle Corporazioni Piccardi. Bonomi cominciò a parlare, ma io l'interruppi: «   Scusa Bonomi, se ti interrompo, e scusatemi tutti, se vi ho fatto aspettare : vi era Calvi di Bergolo con un ultimatum e la minaccia per il caso che non fosse accettato ».
Dopo ciò aggiunsi: — Cosa avrebbe fatto ognuno
di Voi?
Essi mi risposero ad una voce:
- Avremmo accettato.
- E così ho fatto io.
Allora essi si alzarono e si congedarono. Tutti conoscono quelle quattro brave persone. Uomini politici, parlamentari onesti, ognuno guidato da idee proprie; concordi però tutti e mossi dagli interessi dell'Italia e non dai propri interessi ed ambizioni».
Il Maresciallo Caviglia e i membri più influenti del Comitato di liberazione concordavano dunque sulla opportunità della resa. Ma il maresciallo Caviglia dice di più. Dopo i colloqui predetti egli ritornò al Ministero: vide De Bono e poi alcuni ministri, tutti furiosi contro Badoglio che non li aveva preavvisati della sua partenza (in tutto il diario del vecchio Caviglia sono contenute delle violente puntate contro Badoglio e nessuno che conosca i suoi libri sulla guerra del 1915-18 se ne mera-viglierà) e poi, vide anche Carboni. Racconta Caviglia:
« Ritornò il generale Carboni. Lo pregai di leggermi l'ordine che aveva ricevuto da Roatta, per cui le divisioni del corpo d'armata erano dislocate ai quattro venti. Era presente De Bono. L'ordine terminava con il consiglio di non difendere Roma. Certo Roatta conosceva la situazione delle forze nostre e tedesche, ed era necessariamente venuto a quella conclusione. Purtroppo alla stessa conclusione avevo dovuto venire io, non appena ebbi conoscenza dei vari elementi che componevano la situazione. Ora appariva chiaro che il Capo del Governo ed i capi militari avevano dovuto mettersi in salvo, appunto perché sapevano che non vi era altro da fare. E nella loro fuga avevano trascinato il Re e la Famiglia Reale Caviglia dice anche, nel suo diario, che egli spedì un telegramma al Re per essere investito dell'autorità di Governo e che non-gli pervenne nessuna risposta (probabilmente, egli dice, la risposta fu intercettata). La risposta fu invece inviata e riportiamo qui di seguito i due telegrammi :
Maresciallo Caviglia al Re - Prego Vostra Maestà data la situazione che si è determinata nella Capitale volermi concedere temporaneamente poteri che mi permettano di far funzionare il Governo durante l'assenza del Presidente del 'Consiglio. - CAVIGLIA.
Risposta del Re al Maresciallo Caviglia — In risposta suo telegramma, Vostra Eccellenza è da me investita potere mantenere funzionamento Governo durante temporanea assenza Presidente del Consiglio che si trova con me e ministeri militari. — VITTORIO EMANUELE.

lunedì 20 luglio 2020

Arturo Farinelli, Accademico d’Italia


 Di Emilio Del Bel Belluz

Uno degli intellettuali che ha dato molto all’Italia si chiama Arturo Farinelli, un nome che non dice molto, ma ha lasciato una traccia letteraria che non può essere dimenticata. Uno dei massimi scrittori italiani, Giovanni Papini, in un suo libro molto importante – 24  Cervelli – uscito nel 1928, delinea con il suo stile inconfondibile, un profilo di intellettuali. In uno di questi racconta del professor Arturo Farinelli, che conosceva bene ai tempi della – Voce – dove vi scrisse degli articoli. Papini dice: “ Arturo Farinelli non è ignoto in Italia – specialmente da che insegna a Torino – ma i più non sanno di lui che il nome e quei pochi che sanno di più arrivano all’erudito, allo storico della letteratura e lì si fermano. E solo gli studenti di Innsbruck e di Torino e gli ascoltatori di Firenze sanno che è maestro pieno d’amore e lettore commosso; e i critici si sono accorti di lui soltanto dopo il libro sul Romanticismo e l’altro più di recente su Habbel “. Basterebbero le parole di questo scrittore molto importante per definire Arturo Farinelli. Papini fa un elogio pieno di riferimenti, Arturo Farinelli, si era fatto onore come studente ed era diventato un professore.  Aveva amato la letteratura come si ama la vita, si era quindi immerso nel mondo universitario con una conoscenza immensa, e totale. Questo accade alle persone che amano il loro lavoro e  sono vissuti all’interno delle biblioteche, non dando importanza al tempo e alla vita, perché immersi in quello che facevano. Per comprendere uno scrittore, molte volte sarebbe importante vedere la sua casa. Si pensi al Leopardi, la sua abitazione immersa nella natura, che lui scrutava dalla finestra , ma il cuore della sua casa era la biblioteca assieme a  quelle stanze tappezzate di libri, libri allineati come soldati che aspettano la battaglia.  La prima volta che vidi una foto del Professore,  lo rappresentava seduto su una poltrona, nella sua biblioteca, ed erano raffigurate altre stanze  stipate di libri fino al soffitto che aveva acquistato nel corso della vita.   Il Professore aveva uno sguardo fiero, i libri che ha scritto potrebbero formare una biblioteca e hanno reso grande l’umanità formando molte menti, perché il compito di un professore universitario è quello di formare uomini forti, capaci, a loro volta,  di far brillare altre menti.

 Uno scrittore scomparso da poco Carlos Ruiz Zafòn  nel suo capolavoro – L’ombra del vento- che ha venduto milioni di copie racconta dei libri  che hanno l’anima.

…” Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’ anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. “

Giovanni Papini di Farinelli scrive: “ Così dell’anima: quando si dice – o almeno io dico – “ il tale ha un’ anima” vuol dire che non ha un’ anima come tutte le altre, e che v’è in lui un fremito, un brivido, un lievito, un fermento di straordinarietà che deve sentire chiunque non sia nato irreparabilmente volgare. Arturo Farinelli ha una di queste anime ….  Generosa come quella dei veri ricchi, e melanconica come quella dei sensitivi, e irrequieta come quella dei pellegrini… ”. Arturo
Farinelli era nato a Intra nel 1867, ed ebbe la fortuna che i genitori lo indirizzassero verso il sapere e la conoscenza.  Ebbe anche tra i suoi maestri un severo sacerdote Don Aghemio, che lo aiutò immensamente nella sua formazione. Insegnò per oltre cinquanta anni, la famiglia universitaria raccolse i suoi scritti, le tante lezioni che fece nelle varie università italiane e straniere. Nel 1920, per il 50° corso di lezioni, lo omaggiarono con la pubblicazione del volume: L’Opera di Un Maestro. Sono scritti, che si dovrebbero studiare anche adesso, perché rappresentano la forza e il destino di un uomo che aveva raggiunto la vetta più alta nella strada più difficile, quella dell’insegnamento. Ferdinando Pasini lo definiva nella prefazione del corposo libro – L’ Opera di un Maestro- come – il maestro degli irredenti-  e dice: “ La prima volta che intesi nominare  Arturo Farinelli  fu da Cesare Battisti, a Firenze, nel 1896. Facendo, una mattina, lo spoglio della posta, nella tranquilla cameretta ove si conduceva insieme la nostra vita di studenti, egli  interruppe il suo lavoro e mi porse a legger un giornale del Trentino: - Una corrispondenza da Innsbruck. Importante! Vi era detto che Arturo Farinelli aveva ottenuto a quell’Università la venia docendi  e gli italiani salutavano il fatto come una loro vittoria. Era , in verità, una vittoria : così degli italiani soggetti all’Austria come della stessa italianità. E celebrammo anche noi quel giorno, a Firenze come uno deigiorni più fausti per la campagna dell’Università italiana a Trieste”.  La fine eroica di Cesare Battisti, la si conosce ma non la si onora come si dovrebbe. l’Italia non ha tempo per gli eroi, troppo spesso impegnata in battaglie che non la riguardano. Questa tendenza ha lo scopo di far dimenticare chi siamo e perché qualcuno ha sofferto per noi. Il dono della vita forse non è un tributo sufficiente per avere un fiore sulla tomba dei soldati? La figura di Farinelli è stata essenziale per molti giovani, e Ferdinando Pasini scrive ancora: “ Per la patria dell’Umanità ; per   l’umanità delle Patrie:-   era il motto di Cesare Battisti, che aveva intuito i valori e propositi di Arturo Farinelli quando molti ancora ne ignoravano l’esistenza. La fine eroica di quel suo discepolo ideale è la confessione più aperta dell’apostolato di Arturo Farinelli fra la gioventù delle terre irredente”.

Un grande omaggio, un grande riconoscimento, lo ebbe dal suo Paese, con la nomina d’ Accademico d’Italia. Questo era il premio che veniva consegnato per il lavoro svolto nelle varie sedi universitarie. Farinelli era un professore, non solo nelle aule universitarie, ma anche nelle altre sfaccettature della vita. Lo scrittore Raimondo Collino Pansa, diceva che il Farinelli parlava aulico e riusciva sempre a essere un grande maestro. Vi è una foto che lo ritrae ai funerali dello scrittore Giovanni Gentile assassinato dai partigiani nel 1944. La storia della Repubblica Sociale ha conosciuto molti atti di una viltà assoluta, come l’assassinio di Giovanni Gentile, a cui negano ancora una lapide che ricordi il suo sacrificio per una patria e per un’ idea. Farinelli era una persona perbene, mai avrebbe immaginato che il suo Paese punisse quelli che cercavano con tutte le loro forze di migliorarlo, di farlo conoscere al mondo. Farinelli con il suo insegnamento aveva fatto conoscere l’Italia, quella vera, la patria della cultura mondiale.

Gli scrittori italiani si distinguevano in tutto il mondo accademico, si pensi a Giuseppe Prezzolini che da anni insegnava alla prestigiosa  Columbia University, ed era amato dagli americani per la sua preparazione, per quel modello di vita che aveva portato. Lo stesso Prezzolini aveva chiesto al Farinelli di venire in America a insegnare. Il rifiuto di questa scelta, penso che sia da attribuire al grande amore per il suo Paese che neanche una soddisfazione economica importante lo fece desistere.  Farinelli fa pubblicare dalla Casa Editrice Garzanti, due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1948, il volume Episodi di una  Vita.  Nell’opera omette di scrivere gli ultimi due anni del periodo fascista, che coincidevano anche con l’attività Accademica, eppure era stimato da Mussolini, come da altri intellettuali, quali Giovanni Gentile,  Giovanni Papini, Salvator Gotta, Lucio d’Ambra e Ada Negri. Non comprendo questa sua scelta. La vita di Farinelli meritava d’essere onorata perché l’onestà intellettuale gli ha consentito d’essere ricordato dal fascismo, come una delle migliori menti. Non si accedeva all’Accademia se non c’era il valore e la forza del sapere.