Un vecchio professore, che insegnava
all’università di Trieste, mi diceva spesso che
l’interesse per le opere letterarie di uno scrittore, si affievoliva con
la sua morte. Un innamorato della letteratura dovrebbe ogni giorno leggere una
pagina di uno scrittore: sarebbe un bel contributo alla sua memoria. Sempre a
Trieste dove visse uno degli scrittori più grandi del nostro Novecento, Italo
Svevo, si diceva che ogni giorno sarebbe bello che nascesse un innamorato di
Svevo. Gli scrittori sono i maestri che
ci hanno preceduto, e dovrebbero essere immortali grazie alle loro opere. I
loro scritti, spesso, rimangono solo nelle biblioteche, e i loro libri hanno le
pagine incollate, perché nessuno le consulta.
Uno degli scrittori che dovrebbe essere letto con più frequenza da parte
degli studenti è Alfredo Panzini. Il
critico letterario Carlo Bo, teneva una rubrica nel settimanale Gente. In
questa pagina che aveva chiamato Vita
culturale ricordava gli scrittori del nostro Novecento che aveva conosciuto. Su
Panzini scrisse: “ Forse di Alfredo Panzini (1863-1939) i lettori d’oggi
conosceranno appena il nome, i più informati arriveranno al massimo al dizionario
moderno che è stato ristampato
recentemente ma è certo che ben pochi avranno una memoria chiara del
narratore. Eppure è stato scrittore di grande fama nei primi anni del secolo e
poi si è arrestato su posizioni onorevoli
fra le due guerre. Coetaneo del d’Annunzio, in qualche modo ne è
l’esatto contrario: il primo era uno spirito audace e sempre all’inseguimento
del nuovo, se non della moda, il Panzini
preferiva invece restare attaccato al passato, alle stagioni lontane, fra
rievocazione e nostalgia”. In una foto di quelle che un tempo gli scrittori
donavano a qualche ammiratore, Panzini
vi scrisse alcune parole che spiegano la sua vita letteraria: “ Dopo aver letto
molti libri, sto ancora cercando il libro che mi spieghi “ perché”… Lo scrittore
Panzini era un uomo legato alla
letteratura da un grande amore, le radici di questa passione gliele può aver
trasmesse il Carducci di cui fu suo allievo all’università. Il poeta Carducci gli era molto legato, e questo dimostra che
aveva visto in lui quello scrittore brillante che sarebbe diventato. La vita di
Alfredo Panzini è contraddistinta dall’insegnamento che lo tenne occupato per
quaranta lunghi anni. Prima come insegnante nelle scuole medie, poi al
Politecnico di Milano ed infine a Roma. Ai giovani il Panzini aveva cercato di insegnare l’amore per la
vita semplice, per le piccole cose, per la terra ed i suoi profumi, tale da
essere considerato uno scrittore agreste. Lo paragonerei allo scrittore
trevigiano Giovanni Comisso, proprio per l’amore che entrambi nutrivano per la
terra, e i grandi benefici che essa dona a chi se ne innamora; l’amore per la
natura e tutto ciò che appartiene alla vita rurale con le sue intoccabili
tradizioni. Anche se l’uomo crede di bastare a sé stesso, e la tecnologia ha fatto
passi da gigante, esso si deve inchinare alla natura se vuole sopravvivere.
Deve amare la terra dei padri, che custodisce le sue radici. L’indiano Alce
Nero diceva: “ Tutto quello che hai visto, ricordalo/perché tutto quello che dimentichi/ritorna a volare nel vento/. In una antologia stava
scritto: “ Io credo che Panzini avrebbe accettato volentieri il titolo di
scrittore agreste. Non che solo dei campi abbia scritto, ma certo egli aveva
due predilezioni : il libro e la terra; e si può dire che tutta la sua vita
cercasse di mettere insieme dolcemente questi due amori. Lo vedi anche qui:
apre gli occhi incantati sui campi da mietere
e intanto è tentato d’aprire ancora una volta i cari poemi omerici - e i contadini diventano gli antichi guerrieri
astanti”. Un tempo Mussolini attuò per
gli italiani la campagna del grano, e questa sua iniziativa fu come una
scintilla per molti scrittori che riempirono pagine che descrivevano il momento
della mietitura. Famosa la foto di Mussolini che raccoglieva il grano, con
entusiasmo, perché bisognava dare l’esempio. Risulta difficile pensare, oggi, a
un politico che condivida, anche per breve tempo, il duro lavoro degli
agricoltori. Panzini scriveva le sue
amate pagine al mattino presto. Alle cinque, scendeva nel suo studio, e dopo
aver bevuto il suo caffè, fatto con la moKa napoletana, si metteva al tavolo a
scrivere. La finestra aperta, faceva entrare il profumo del mare. Alle cinque
si alzavano i contadini per andare a lavorare sui campi, dopo avere governato
il bestiame. Partivano con i buoi, e la giornata iniziava sempre con il segno
della croce. Qualcuno dirà che erano altri tempi, ma lo sfruttamento ad
oltranza della terra non ci porterà lontano. Panzini uomo sempre dedito al
lavoro e alla famiglia ebbe l’onore e il privilegio di essere nominato nel
1929, Accademico d’Italia, e questo conferimento lo premiava dopo tanta strada
che aveva percorso con umiltà e rispetto verso il Paese. Era stato firmatario
assieme ad altri letterati del Manifesto degli intellettuali fascisti. Un
lavoratore instancabile che si era costruito la sua casa con sacrifici. Lo
scrittore Enzo Biagi in una visita che fece alla moglie scrisse : “ Gli piaceva
vivere da queste parti: c’erano i suoi pochi amici, sensali, pescatori,
ortolani, andava volentieri in piazza a trattare la compera di un paio di buoi
o a vendere una nidiata di maiali. Veniva a trovarlo in bicicletta Marino
Moretti, il solo letterato con il quale aveva confidenza. A Milano e a Roma si
sentiva in esilio, fuori dal suo mondo. Indossò, forse con un certo orgoglio,
la divisa di Accademico d’Italia con le frange d’argento e la feluca, perché
stava ad indicare una delle poche vittorie della sua vita: lo avevano umiliato
come insegnante, bocciandolo ai concorsi, e qualche volta stroncato come
scrittore. Ha detto: “ Ho mutato il dolore in quello che qualcuno, benevolo,
chiama umorismo”. Spesso sono proprio
questi scrittori capaci di scrivere pagine e pagine di letteratura, che con il
tempo diventano un prezioso tesoro. Non esiste nessun strumento capace di far
conoscere la storia come le pagine sofferte di uno scrittore. Nel momento in
cui le leggiamo, ci si cala in quel periodo storico. L’Accademico Alfredo
Panzini, amato dai suoi lettori, nutriva un forte rispetto verso la patria e quegli eroi che l’hanno costruita versando il
loro sangue, rendendoli immortali. Carlo Bo scrisse: “ Panzini appartiene alla
grande famiglia degli scrittori romagnoli, Alfredo Oriani, Antonio Beltramelli,
Marino Moretti. Fu tra i primi a riconoscere il genio critico di Renato Serra e
di Serra ci ha lasciato un altro dei suoi ritratti memorabili. In effetti era
piuttosto una rievocazione del giovane Serra che era andato a trovarlo nella
sua casa di Bellaria, prima di tornare al fronte e di morire”. Ripensando alla
morte dell’eroe Renato Serra, cito una frase di Orazio: “ Dulce et decorum est pro patria mori.
Mors et
fugacem persequitur virum. Nec pascit imbellis iuventae. Poplitibus timidove tergo”. “ Come è dolce e bello
morire per la patria. Ma la morte
incalza anche l’uomo che si dà a fuggire, né risparmia i garetti e il tergo
pieno di paura di una gioventù imbelle. Chi muore in battaglia guardando il
nemico è degno d’essere detto un eroe.
Non per nulla sentenzia Tacito: “ In fuga foeda mors est, in vittoria gloriosa”
“ Vergognosa è la morte di chi fugge,
gloriosa invece di chi combatte per vincere”. Alfredo Panzini aveva nel cuore
la sua patria. La servì come professore e Accademico. L’Italia ha sempre avuto bisogno di grandi
uomini, che l’hanno onorata con la letteratura. Sarebbe stato contento di
vedere i suoi romanzi stampati nella Collezione Omnibus, dalla Mondadori, ma lo
scrittore era già morto. Strano destino gli capitò. Quanto sarebbe bello che la
sua opera potesse essere ristampata in questo tempo, che ha bisogno di vera
letteratura. A frenare questo ritorno, forse la sua nomina ad Accademico. Ci
sono dei suoi scritti che meriterebbero una nuova luce, penso a cosa scrisse
sulla sua patria :“ La parola patria vorrebbe dire la terra dei padri, perché
sotto la terra stanno i padri e le madri, e vi scenderanno alla loro volta i
figli, secondo l’ordine che natura diede. I frutti della terra di cui ci
nutriamo, contengono anche le ceneri dei padri. Sacra e santa è dunque la
patria; così fu scritto :” E’ bello morir per la patria”. Fu scritto in poesia
e fu anche una realtà”
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