di Aldo A. Mola
Il fardello della classe dirigente
Non è vero che “gli italiani” non sappiano
decidere. Farlo, però, non tocca ai “cittadini” ma a chi ha e deve esercitare
il Potere: dal Capo dello Stato al governo e alla dirigenza, sia quella
favorevole all'immobilismo o persino alla reazione, sia quella che si erge a
interprete del cambiamento e propugna le “riforme”. Il comune cittadino ha
informazioni, opinioni, pulsioni, ma non possiede tutte le cognizioni
necessarie e sufficienti per tradurre le sue personali aspirazioni in decisioni
valide ed efficaci “erga omnes”. Questo compito spetta a chi riveste cariche
pubbliche (munera, dicevano i romani), in corrispondenza e
proporzione con la sua posizione.
E'
comunque chiaro che in un sistema parlamentare (qualunque sia la forma dello
Stato, monarchia o repubblica) a decidere non è, non può essere “un uomo solo
al comando”, se non in preda a delirio
di onnipotenza. Men che meno in regime costituzionale il presidente del
Consiglio può pretendere di riprendere il sentiero sassoso dei decreti “motu
proprio”, già sonoramente bocciati da tutti i costituzionalisti e, ciò che più
conta, dall'opinione della stragrande maggioranza dei cittadini, esasperati da
misure coercitive e vessatorie, tipiche di sistemi autocratici.
Certo,
governare non è mai stato facile. Ma non dovrebbe essere impossibile in una
democrazia parlamentare quale l'Italia odierna sin dall'adesione alla Nato
consentì “a condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni” (art. 11 Costituzione), mettendosi così al riparo dal rischio di
aggressioni e di iniziative stravaganti o autolesionistiche del proprio governo
pro tempore o del suo presidente. Perciò la dirigenza (a tutti i
livelli) dovrebbe prendere atto a viso aperto della cornice entro la quale
l'Italia può muoversi e renderne edotti i cittadini con parole chiare, fatti
alla mano. Far credere ai cittadini che lo Stato possa decidere liberamente la
propria politica estera e militare e, di conseguenza, quella interna
(finanziaria, economica e sociale, a tacere dell'istruzione pubblica) significa
alimentare la credulità popolare con promesse da “frate Cipolla”. Questa è
purtroppo la linea del governo attuale, che raggira quotidianamente al Paese.
Tale condotta ha una spiegazione: far credere agli italiani di potersi
permettere il lusso di mandare in Parlamento persone del tutto impreparate,
spesso sprovvedute e giullaresche, manifestamente ignare della pesantissima
responsabilità che grava sui “politici”, anche quando siano chiamati a fare i
proconsoli di Bitinia (come Plinio il Giovane) anziché a reggere un impero
(come Marco Ulpio Traiano, al quale Plinio chiedeva consigli per svolgere la
propria parte).
Per
meglio comprendere la distanza abissale tra tanta parte del “ceto politico” che
attualmente governa e amministra l'Italia e la grandezza di una dirigenza vera
giova ricordare quanto avvenne nel 1846-1848 nello “spazio Italia” che il
cancelliere imperiale austriaco Clemens von Metternich liquidò come
“espressione geografica”. Quel “Quarantotto” per l'Italia fu l'anno della
grande prova, ben più impegnativa e complessa di quelle vissute durante e
subito dopo la partecipazione alla Prima e alla Seconda Guerra mondiale, le due
fasi della Guerra dei Trent'anni del secolo scorso. Dopo il 1918-1919 l'Italia visse
i postumi di un trauma i cui precisi termini sfuggono alla percezione comune
perché oggi è difficile calarsi nella tragedia di un Paese avvolto nel lutto
(un milione e mezzo di morti per causa di guerra e per l'epidemia di febbre
detta “spagnola”) e prostrato dalle indicibili sofferenze dei mutilati e dei
feriti (curati come all'epoca si sapeva e si poteva) e di quelle dei milioni di
combattenti smobilitati nel difficile passaggio dalla produzione di guerra a
quella di pace, in un'Europa sconvolta da crolli di istituzioni secolari e da
rivoluzioni politiche e sociali. La patetica retorica di Giuseppe Conte sulla
pandemia da covid-19 e persino le previsioni di guai nel prossimo autunno,
ventilate dal Viminale quasi a scanso di colpa, dànno la misura della modestia
della memoria storica di chi al governo è arrivato non per libera scelta degli
elettori ma suffragio per designazione di “cupole” partitiche e da
“piattaforme” estranee alla democrazia parlamentare, sensibili a interessi non
sempre coincidenti con il bene comune.
Le lunghe barbe del Quarantotto
Il Quarantotto fu altra cosa. Il suo frutto più
durevole scaturì sulla primavera. Maturò il 4 marzo 1848, quando Carlo Alberto
di Savoia promulgò lo “Statuto organico” del regno di Sardegna, rimasto formalmente
valido anche dopo il cambio della forma dello Stato d'Italia (19 giugno 1946):
sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione della
Repubblica italiana. Nell'impossibilità di rievocarne analiticamente genesi e
contenuti, studiati da oltre un secolo e mezzo da costituzionalisti e storici
di vaglia come Carlo Ghisalberti e Gian Savino Pene Vidari, va ricordato che
esso sintetizzò due opposte esigenze.
Nel
Preambolo il Re affermò di aver deliberato gli 84 articoli della Carta “prendendo
unicamente consiglio dagli impulsi del (suo) cuore” per “conformare” le sorti
dei regnicoli “alla ragione dei tempi, agl'interessi e alla dignità della
Nazione”. Lo Statuto, tuttavia, venne definito “legge fondamentale, perpetua ed
irrevocabile della monarchia”. Il Re sottoscrisse, seguito dai ministri
(Borelli, Avet, De Revel, Des Ambrois, E. di San Martino, Broglia, C. Alfieri).
Così vincolò sé e impose ai successori di giurare fedeltà alla Carta al loro
insediamento.
Re
“per grazia di Dio”, Carlo Alberto lasciò trasparire che lo Statuto, deliberato
“di sua certa scienza, Regia autorità e avuto il consenso del suo Consiglio”,
fosse nato anche su sollecitazione esterna (“in mezzo agli eventi
straordinari che circondavano il paese”), al di là della sua propria ed
esclusiva volontà, fermamente rivendicata nel Preambolo. In tal modo veniva
tacitata l'avversione di quanti (anzitutto gran parte del clero, avverso al
teologo Vincenzo Gioberti) lo ritennero cedimento della Monarchia alla
pressione di forze ostili alla Tradizione. In realtà, come ampiamente
documentato e argomentato da Narciso Nada nell'insuperata storia del regno di
Sardegna, il cinquantenne Carlo Alberto aveva percepito e assecondato da tempo
la “svolta” anche prima dell'8 febbraio 1848, quando vennero “proclamati” (non
semplicemente “annunciati”) i 14 capisaldi della “costituzione” ventura.
Questi
erano il punto di arrivo di un processo per molti aspetti maturato e già
tradotto in regi decreti dall'anno precedente. Sarebbe lungo ripercorrere i
passi compiuti dal sovrano per dare corpo formale al mutamento del rapporto tra
Corona e regnicoli sin dall'inizio degli Anni Quaranta: un cammino
scrupolosamente osservato e documentato da molti suoi protagonisti, come
Massimo d'Azeglio, diffidente delle sue recondite intenzioni anche quando il Re
lo abbracciò assicurandogli che, giungendo l'ora, avrebbe messo se stesso, i
figli e i beni a disposizione della libertà dell'Italia. A sua volta Luigi
Francesco Des Ambrois de Nevache annotò che nel corso degli anni, non dall'oggi
al domani, Carlo Alberto si era circondato di una élite di uomini abili, capaci
e decisi, “che seppero svuotare lo Stato dall'interno dei suoi contenuti più
arcaici, seppero trasformarlo da Stato militare e semifeudale a Stato moderno e
civile”, preparandolo a divenire Stato nazionale.
Il
1847 fu scandito da eventi premonitori, mentre l'intera Europa viveva
agitazioni e persino la quieta Svizzera fu sconvolta dal conflitto armato tra
liberali e cattolici. Quasi a coronamento dei Congressi degli Scienziati
Italiani, fra il 30 agosto e il 3 settembre si svolse a Casale Monferrato il
Congresso Agrario promosso da Pier Dionigi Pinelli (1804-1852), direttore di
“Il Carroccio”. Il conte di Castagnetto, suo “portavoce”, vi lesse l'impegnativa
lettera di Carlo Alberto, pronto a battersi per l'indipendenza dell'Italia.
Nel
Consiglio di Conferenza del 30 ottobre 1847 Carlo Alberto sanzionò il nuovo
codice di procedura penale e altre importanti riforme giudiziarie e annunciò
l'elettività dei consigli comunali e provinciali, regolamentata con il Regio
Editto del 27 novembre che sancì il gradimento da parte della Corona del
“lavoro che da tempo si stava preparando” per stringere i vincoli tra la
monarchia e una dirigenza diffusa. Migliaia e migliaia di cittadini sarebbero
stati scelti dagli elettori quali propri rappresentanti per amministrare i loro
interessi generali in una stagione caratterizzata dall'espansione rapidissima
delle infrastrutture (strade, ferrovie, nuovi canali irrigui), del sistema
bancario (anche con la moltiplicazione delle casse di risparmio) e
dell'informazione. Le regie patenti sull'elettività dei consigli locali si
accompagnò infatti a quelle sulla libertà di stampa, già precedute dalla
nascita di periodici politici influenti e in breve salutate dalla
proliferazione di nuove testate, protagoniste del dibattito culturale e
politico.
In pochi mesi il regno di Sardegna mutò volto,
prima che a Palermo scoppiasse la rivoluzione del 12 gennaio 1848 e che il 24
febbraio a Parigi venisse cacciato Filippo d'Orléans e fosse proclamata la
seconda Repubblica, di lì a poco presieduta dal poeta Alfonso Lamartine.
Lo Statuto, pilastro della monarchia
rappresentativa
Tra l'ottobre 1847 e la fine del gennaio 1848
crebbero di intensità le pressioni dei fautori di un mutamento più profondo e
netto, da realizzarsi mediante la promulgazione della costituzione: cortei,
manifestazioni, banchetti politici (a imitazione di quelli in uso in Francia:
fu il caso dei commercianti con la partecipazione di Camillo Cavour; dei mastri
e garzoni carrozzai, presente Roberto d'Azeglio…) e “feste” apparentemente
spontanee, ma di fatto organizzate e tollerate da chi ne aveva bisogno per
accelerare la svolta dalla monarchia amministrativa e consultiva a quella
propriamente rappresentativa, precorsero il “congedo” del conte Clemente Solaro
della Margarita da segretario di Stato per gli Affari Esteri e del marchese di
Villamarina da ministro di Guerra e Marina.
Il 4
novembre 1847 il conte Ilarione Petitti di Roreto scrisse a Michele Erede: “I
retrogradi sono avviliti. Primo d'essi il conte La Torre, in casa del quale da
alcuni giorni si piange e si prega, non però Pio IX. I Gesuiti non si vedono
più”. Il “cambio” mutò rapidamente volto. Dopo l'elettività alle cariche
amministrative, furono posti al centro antichi diritti di libertà, destinati a
fare del Regno di Sardegna lo Stato guida del processo di unificazione
nazionale. In primo luogo la piena libertà di culto e la parità dei diritti
civili e politici dei cittadini non cattolici, anzitutto i valdesi e
protestanti in genere, poi gli israeliti, e, di concerto, l'offensiva contro la
Compagnia di Gesù, elevata a simbolo della reazione antiliberale.
All'inizio del gennaio 1848 circolò voce che il
Re stesse per istituire una Consulta di Stato con voto deliberativo e decretare
la responsabilità dei ministri nella gestione degli affari dei dicasteri loro
affidati, l'emancipazione degli israeliti, la diminuzione del prezzo del sale,
la guardia civica, un'amnistia (per reati “politici”) e l'espulsione dei
gesuiti dal regno.
Il Consiglio di Conferenza (istituito il 1
maggio 1815 e ulteriormente regolamentato il 9 ottobre 1841) su sollecitazione
del ministro dell'Interno, conte Borelli, prese in esame la “crisi politica”
del regime ormai al bivio: precorrere le pressioni con l'emanazione di una
costituzione od opporvisi con tutti i rischi conseguenti. Nel primo caso,
bisognava preparare tutto “avec le plus de dignité possibile pour la Couronne,
avec le moins de mal possibile pour le pays. Bisogna concederla, non farsela
imporre: dettare le condizioni, non subirle...”.
Dopo
il già ricordato Proclama dell'8 febbraio, il Consiglio di Conferenza iniziò
una corsa contro il tempo: “préparer lo Statut organique et les différents lois
qui s'y rapportent, entre autres la loi electorale, la loi sur la presse et
celle concernante la Milice Communale”.
Per arginare, il 17 febbraio il Consiglio fissò
per il 27 successivo la festa per le nuove “concessioni accordate dal Re”, tra
cui spiccano le Lettere patenti che da quel medesimo giorno riconobbero ai
valdesi tutti i diritti civili e politici.
Lo
stesso 17 febbraio il Consiglio iniziò l'esame dello Statuto organico (sempre
in francese, ma il testo della Carta fu scritto in italiano, come risulta dai
verbali redatti dal conte Radinati), a cominciare dalla successione al trono,
“que l'on a cru devoir laisser régler par la loi salique selon les principes
fondamentaux de l'Etat”. La monarchia di Savoia era e rimaneva incardinata sulla
successione di maschio in maschio e sulle Regie Patenti che subordinavano le
nozze dei componenti della Casa all'assenso del sovrano: leggi immutabili, come
Umberto II scrisse ripetutamente al figlio, mettendolo in guardia dalle
conseguenze perpetue della loro violazione.
Devoto
alla Tradizione e sicuro di essere strumento della Provvidenza, l'“italo
Amleto” (quale Carlo Alberto fu appellato da Giosue Carducci nell'ode
“Piemonte”) firmò. Decise la storia.
Saldò con i nodi di Savoia la monarchia sabauda e le onde tumultuose di
un'Italia nel pieno di trasformazioni politiche: le Cinque Giornate di Milano
(18-22 marzo), che cacciarono gli Austriaci; la fuga di Francesco V d'Asburgo da Modena, quella di
Carlo Ludovico II di Borbone da Parma e Piacenza. Il 23 marzo Carlo Alberto
dichiarò guerra a Ferdinando II d'Asburgo, imperatore né romano, né sacro, ma
d'Austria, che di lì a poco passò la mano al nipote, Francesco Giuseppe. Con i
plebisciti del 29 giugno Milano e Piacenza vollero Carlo Alberto Re statutario.
Da un capo all'altro l'Europa era sconvolta da insurrezioni e rivoluzioni. In
febbraio Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il “Manifesto del partito
comunista”. Lo stesso anno comparve l'opera più importante di John Stuart Mill.
Da poco Louis Blanc (fautore degli Ateliers Nationaux: sempre meglio che
l'elemosina per esistenza in vita, spacciata come “reddito di cittadinanza”) e
Jules Michelet iniziarono a pubblicare le rispettive storie della Rivoluzione
francese, mezzo secolo dopo “i fatti”.
Lo
Statuto albertino sopravvisse alla sconfitta militare del Regno di Sardegna
(lasciato solo da alleati fedifraghi: Pio IX, Ferdinando II di Borbone,
Leopoldo II di Asburgo-Lorena..) e all'avvicendarsi di sette governi in meno di
due anni (Balbo, Casati, Alfieri, Perrone, Gioberti, Chiodo, de Launay), al
ripetuto scioglimento della Camera, alla “brumal Novara” (23 marzo 1849),
all'esilio del Re, morto ad Oporto a fine luglio. Dieci anni dopo suo figlio,
Vittorio Emanuele II, entrò vittorioso in Milano e a fine 1870 in Roma, ove
rievocò il Magnanimo genitore e celebrò l'unione tra istituzioni e “popoli
d'Italia”. La base dell'Unità nazionale era antica e nuova: venne fusa al calor
bianco in sole quattro sedute del Consiglio di Conferenza, sempre presente Re Carlo
Alberto, pallido, assorto, attento a ogni parola, conscio di avere sulle spalle
non solo otto secoli e mezzo della sua Casa ma il suo ruolo nella costruzione
della Nuova Europa, con equilibrio, lungimiranza e determinazione, “a qualunque
costo”. Lo Statuto durò cento anni. La Costituzione vigente ne ha 72. Il caos
politico, economico e sociale ci ricorda che la Storia è sempre questione di
classe dirigente, della sua capacità di coniugare istituzioni e cittadini.
Aldo A. Mola
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