NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 2 luglio 2020

Conservare l’Italia, Attualità' Di Filippo Turati


di Aldo A. Mola

Il governo del plin-plin
Conservare il poco che resta dello Stato d'Italia. Il governo indossa mascherine nere. Ultima moda, quella dei pirati. La ministra dell'“Istruzione” la usa di rado. Preferisce il rossetto. Questa è l'Italia del San Pietro e San Paolo 2020. Ha Capo dello Stato un ex ministro della Pubblica Istruzione. Eppure è l'Italia che ha preso sottogamba la Scuola, declassata a parcheggio multipiano con banchi a castello se i metri quadri non bastano a ospitare pupi e pupazzi. E se poi proprio occorresse, che vadano tutti in palestra (a studiare o a fare flessioni?), nei parchi (coperti?), nei musei (attenti: vi si aggira Vittorio Sgarbi!), sulle nuvole...
Ci sono volute le prime manifestazioni di presidi, docenti, genitori e ragazzi per far capire a Sua Emergenza  Conte e all'Aiutante Gualtieri che non si scherza con 10 milioni di cittadini coinvolti nell'odierno tritacarne della Pubblica Istruzione: da moltiplicare per quattro o cinque per via di genitori, madri costrette a lasciare il lavoro per occuparsi dei bambini, zii, nonni e via continuando. Quei 10 milioni per quattro sono gli unici che, a differenza del governo e della ministra, sentono a pelle che il fallimento della Scuola risucchierà l'Italia per un paio di generazioni.
Il fallimento del governo di leu-cociti, piddini (coacervo di detriti) e pentastellati (uno vale uno, tutt'insieme sommano zero) certifica che l'Italia è sull'orlo dell'abisso. Il governo in carica dura solo perché nessuno vuole ne vuole davvero l'eredità: una somma di passivi, a cominciare, appunto, dalla Pubblica istruzione. Caso mai ve ne fosse bisogno, ricordiamo che l'Italia è il fanalino di coda per investimenti nella Scuola e nella ricerca, cioè per il “futuro”. E' ridotta a vestibolo di vecchi e di badanti, sorvegliato da sbadati.
Alla radice della crisi in corso da ormai molti decenni vi è quella della “cultura”, retrocessa a mix di gastronomia, paesaggio, addobbi, acconciature.  Mera apparenza. Usa e getta. Tanto entra, tanto esce: plin-plin e plon.plon...
Il governo dell'auricolare
Quando il governo non sa decidere che cosa fare ascolta. E' un Esecutivo auricolare. Non per caso all'Istruzione ha una ministra che arriva dalla città dell'Orecchio di Dionisio. Un tiranno feroce. Nulla di nuovo. Il governo nomina confessori, travestiti da esperti, e li mette in ascolto. Poi si fa raccontare: “Quante volte? Come? Con chi?”. Impartisce piccole espiazioni (qualche mese senza stipendio, un po' di cinghia, stare in casa, stare in casa, stare in casa, uscire solo per i bisogni non dei figli o nipoti ma del cane...) e tira a campare in attesa degli euro-coriandoli (usa e getta anche essi, senza progetti certificati, “la c'è la provvidenza...”). 
L'attuale è una malattia antica. Il ritornello ripetuto da mesi ha esattamente un secolo: “Rifare l'Italia”. Un refrain antico. A conferma è stato riproposto all'attenzione il discorso il 26 giugno 1920 pronunciato alla Camera dei deputati da Filippo Turati (Canzo, Como, 26 novembre 1857-Parigi, 29 marzo 1932)  all'insediamento del V governo Giolitti. Come tutta l'Europa, l'Italia faticava a uscire dalla Grande Guerra. Aveva vinto la guerra sul piano militare, ma l'aveva persa al proprio interno: oberata dal debito pubblico, dal discredito di governo e parlamento e dal collasso dell'economia.

La guerra genera guerre, le utopie non le fermano
Le catastrofiche conseguenze della guerra erano state prospettate dal geniale Norman Angell (pseudonimo di Ralph Norman Angell-Lane,1872-1967), giornalista e saggista. Autore del fortunato Patriottismo sotto tre bandiere: una mozione per il razionalismo in politica (1903), nel 1910 Angell ottenne fama mondiale  con La grande illusione, subito tradotto in venticinque lingue. Vi sostenne che il mondo correva fatalmente contro una guerra devastante perché il militarismo ispirava i governi dei principali Paesi, ormai lontani dal libero scambio, unica vera garanzia di progresso civile ed economico. Il capitalismo genuino non mirava affatto allo sfruttamento delle colonie, in massima parte avviate all'indipendenza, né a programmi bellicistici, dai quali aveva tutto da perdere. Creava profitti da investire e distribuire. Futuro deputato laburista alla Camera inglese e premio Nobel per la pace nel 1933, all'indomani della tempesta Angell criticò severamente lo spirito vendicativo delle paci di Parigi (Versailles e seguenti) e previde che l'umiliazione dei vinti, a cominciare dalla Germania, avrebbe scatenato una nuova guerra generale, più orribile della precedente. Le sue ammonizioni, come quelle di Keynes, si rivelarono tragicamente veridiche ma non ebbero molta fortuna. L'Europa era spazzata dal vento dei neo-nazionalismi, con le varianti dell'internazionalismo sovietico (l'iniziale nazionalismo “di classe” si convertì nel  comunismo in un solo paese: l'URSS di Lenin e di Stalin) e del nazionalsocialismo, ancora in nuce, ma nel volgere di appena dieci anni destinato alle note fortune propiziate dalle ripercussioni della Grande depressione, nata in Europa, passata negli USA e rimbalzata sul Vecchio Continente. 
Altrettanto celebre alla vigilia della guerra fu il libretto profetico di Ernest Nys (Countrai,1851-Bruxelles, 1920) Idee moderne, diritto internazionale e Massoneria, pubblicato nel 1908, tradotto in Italia nel 1914 col pessimo titolo Origini gloria e fini della Massoneria, poi riproposto dal vescovo gnostico Giordano Gamberini (Bastogi,1974). Docente nella prestigiosa Università Libera di Bruxelles, Nys nutriva piena fiducia nella razionalità della politica e nella soluzione pattizia dei conflitti interstatuali. Calcava le orme del Fratello Giuseppe Garibaldi, che aveva proposto di fare di Nizza una “città libera”, sede di un Areopago universale, anticipatore della futura Corte internazionale insediata all'Aja,  nella quale vennero riposte esagerate speranze, soprattutto dai docenti di diritto internazionale, improvvisamente famosi, virologi dei conflitti tra Stati. Come vaticinato da Angell. la guerra prevalse sulle illusioni: due volte a livello planetario, oggi è ogni giorno incombente. E potrebbe essere l'ultima. Perché poi verrebbe la pace eterna.
Turati: come (ri)fare l'Italia
Nel giugno 1920, un anno dopo la Pace di Versailles e nove mesi dopo quella italo-austriaca di Saint-Germain le speranze di quiete tra gli Stati e di quella all'interno di ciascun Paese si stavano affievolendo. Col noto realismo, appena tornato alla presidenza del Consiglio dei ministri Giolitti spiegò che non era il momento di attizzare la politica estera. Prima occorreva riordinare casa. Il 26 giugno Turati espose il suo “piano”, incardinato sul caposaldo”fare l'Italia”. Giorni prima aveva chiesto alla fedele Anna Kuliscioff di trovargli gli scritti economico-politici di Camillo Cavour. Una citazione del Gran Conte sarebbe figurata bene nel discorso. Non avendoli reperiti, la compagna gli suggerì di cercarli nella biblioteca della Camera.
Nel discorso del 26 giugno (poi stampato col titolo Rifare l'Italia e più volte riproposto) Turati deplorò il demagogismo, il ruolo nefasto dell'industria militare tedesca  e l'espansionismo coloniale, la burocrazia e i “lavori improduttivi”, una sorta di reddito di cittadinanza dell'epoca, causa di sperpero del pubblico danaro. Affermò che il governo doveva proporsi un “piano regolatore”, il decentramento regionale, badare all'agricoltura, alle risorse idriche, puntare sull'elettrificazione. Contrappose la classe lavoratrice alla borghesia ignava. A sua detta era venuta l' “ora dell'espiazione”.
Proprio mentre ad Ancona esplodeva l'insurrezione anarcoide. Secondo Carlo Rosselli  quel discorso fu il Manifesto della liberal-socialismo. Però non vi si legge quasi nulla sulla Scuola, che pure era stata il cavallo di battaglia dell'Italia da Cavour alla Sinistra Storica da Crispi e Coppino sino a Giolitti. Turati annunciò il fallimento della “vecchia” Italia e del suo “regime”. Il Re, Vittorio Emanuele III, prese nota. Per l'ennesima volta Turati non raccolse la mano tesa dal democratico Giolitti. Rimase nelle tenaglie di una visione ideologica del socialismo, che di scissione in scissione portò all'isolamento e alla catastrofe della sinistra.  
L'ormai anziano esponente del riformismo si contrappose a Giolitti (erroneamente considerato un Nitti molto più attempato, una cariatide del liberalismo). Il suo discorso è di grande attualità perché non affrontò affatto il problema di fondo dello Stato d'Italia: la convergenza della rappresentanza nazionale in un governo di ampia maggioranza (liberali, cattolici, socialisti riformisti) per conservare il Paese al sicuro dalla deriva populista eterodiretta. Turati si preoccupò soprattutto del proprio partito. Tentò invano di esorcizzare i due nemici profondi che insidiavano il socialismo democratico: l'anarchismo e il miraggio del socialismo sovietico succubo della Terza Internazionale di Mosca.
Anarchia e opposti estremismi
L'Italia del giugno 1920 ricominciava da dove si era fermata sei anni prima Nel giugno 1914 era stata sconvolta dalla “settimana rossa”, studiata da Luigi Lotti e da Marco Severini. Dalle Marche alle Romagne anarchici, socialisti rivoluzionari e repubblicani misero tutto a soqquadro. Occuparono edifici pubblici, interruppero la circolazione dei treni, presero in ostaggio militari e personalità di alto rango. Da tre mesi presidente del Consiglio e ministro dell'Interno era il burbanzoso e autoreferenziale Antonio Salandra. A suo modo fortunato, mentre i carboni di una rivolta senza capo né coda ancora erano ardenti, il 28 giugno a Sarajevo i criminali della “Mano Nera” (ben manipolati, come poi emerse dal processo a loro carico) assassinarono l'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo: detonatore della Grande Guerra.
Giusto sei anni dopo, alle 2.30 del 26 giugno 1920 un gruppo di bersaglieri destinato all'Albania intraprese una sommossa col sostegno dei militanti locali socialisti, repubblicani,  radicali, anarchici, alcuni iniziati in loggia. Nel pomeriggio si registrarono scene di ferocia selvaggia. Rientrato l'ammutinamento, la plebaglia spadroneggiò. Alcuni uomini della Guardia Regia furono linciati. Le loro salme vennero oltraggiate: sputi, orina e altro. Per domare la rivolta Giolitti inviò il prefetto Cesare Mori, che usò mano di ferro. Il bilancio (provvisorio) fu di 24 morti, incluse 9 Guardie. Settantuno persone si fecero curare le ferite negli ospedali; molte preferirono provvedere alla meglio per non scoprirsi. Uno sciopero ferroviario impedì al governo di inviare l'Esercito a sedare immediatamente la rivolta. Questa in breve si esaurì. Ma il cattivo esempio ormai era dato. In tanti volevano “fare come in Russia”: annientare la forma dello Stato (la monarchia) e lo Stato stesso, identificato con il suo Capo.
Che fare oggi?
Il limite del “codice Turati” è lì. Il suo proclama si fermò sulla soglia del problema dei problemi: governare. Non bisognava affatto né “fare” né “rifare” l'Italia. L'Italia c'era, con la serqua dei problemi irrisolti da secoli. Li portava sulle spalle dalla unificazione del 1859-1870 e dalla Grande Guerra: le compagnie di Santa Fede, il grande brigantaggio, la malavita organizzata, una macchina statuale unitaria ancora in rodaggio. I clericali non avevano mai dimenticato Porta Pia. I papi rimanevano asserragliati nei Sacri Palazzi come prigionieri di guerra. In Italia tanta parte dei socialisti rimaneva “contro” a differenza di quanto accadeva in Gran Bretagna, Germania, Austria e Francia. Perciò il discorso di Turati è di grande attualità. Indica quello che un partito “democratico” dovrebbe fare per conservare quel che resta dello Stato: lasciata ai retori l'esaltazione della occupazione delle fabbriche del settembre 1920 (centenario incombente!), una forza di governo ha un solo obbligo: governare.
Ma va anche constatato che il partito democratico odierno (stinto approdo di tanti partiti estinti) conta circa il 20% dell'intenzione di voto degli elettori. Nel 1919 , messi a frutto suffragio universale e  “maledetta proporzionale” il PSI (coacervo di “tendenze”, come ammise l'onesto Turati) raggiunse il 32, 3%  dei voti validi (sul 56% degli elettori) contro il 20,5% del Partito popolare. Ma non seppe  farne buon uso. Cinque anni dopo scomparve.

Il passato qualche cosa dovrebbe insegnare. Anziché fare o rifare, urge conservare quanto rimane dello Stato d'Italia.
Aldo A. Mola  
       



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