di Aldo A. Mola
Il governo del plin-plin
Conservare il poco che resta dello Stato
d'Italia. Il governo indossa mascherine nere. Ultima moda, quella dei pirati.
La ministra dell'“Istruzione” la usa di rado. Preferisce il rossetto. Questa è
l'Italia del San Pietro e San Paolo 2020. Ha Capo dello Stato un ex ministro
della Pubblica Istruzione. Eppure è l'Italia che ha preso sottogamba la Scuola,
declassata a parcheggio multipiano con banchi a castello se i metri quadri non
bastano a ospitare pupi e pupazzi. E se poi proprio occorresse, che vadano
tutti in palestra (a studiare o a fare flessioni?), nei parchi (coperti?), nei
musei (attenti: vi si aggira Vittorio Sgarbi!), sulle nuvole...
Ci sono volute le prime manifestazioni di
presidi, docenti, genitori e ragazzi per far capire a Sua Emergenza Conte e all'Aiutante Gualtieri che non si
scherza con 10 milioni di cittadini coinvolti nell'odierno tritacarne della
Pubblica Istruzione: da moltiplicare per quattro o cinque per via di genitori,
madri costrette a lasciare il lavoro per occuparsi dei bambini, zii, nonni e
via continuando. Quei 10 milioni per quattro sono gli unici che, a differenza
del governo e della ministra, sentono a pelle che il fallimento della Scuola
risucchierà l'Italia per un paio di generazioni.
Il fallimento del governo di leu-cociti,
piddini (coacervo di detriti) e pentastellati (uno vale uno, tutt'insieme
sommano zero) certifica che l'Italia è sull'orlo dell'abisso. Il governo in
carica dura solo perché nessuno vuole ne vuole davvero l'eredità: una somma di
passivi, a cominciare, appunto, dalla Pubblica istruzione. Caso mai ve ne fosse
bisogno, ricordiamo che l'Italia è il fanalino di coda per investimenti nella
Scuola e nella ricerca, cioè per il “futuro”. E' ridotta a vestibolo di vecchi
e di badanti, sorvegliato da sbadati.
Alla radice della crisi in corso da ormai molti
decenni vi è quella della “cultura”, retrocessa a mix di gastronomia,
paesaggio, addobbi, acconciature. Mera
apparenza. Usa e getta. Tanto entra, tanto esce: plin-plin e plon.plon...
Il governo dell'auricolare
Quando il governo non sa decidere che cosa fare
ascolta. E' un Esecutivo auricolare. Non per caso all'Istruzione ha una
ministra che arriva dalla città dell'Orecchio di Dionisio. Un tiranno feroce.
Nulla di nuovo. Il governo nomina confessori, travestiti da esperti, e li mette
in ascolto. Poi si fa raccontare: “Quante volte? Come? Con chi?”. Impartisce
piccole espiazioni (qualche mese senza stipendio, un po' di cinghia, stare in
casa, stare in casa, stare in casa, uscire solo per i bisogni non dei figli o
nipoti ma del cane...) e tira a campare in attesa degli euro-coriandoli (usa e
getta anche essi, senza progetti certificati, “la c'è la provvidenza...”).
L'attuale è una malattia antica. Il ritornello
ripetuto da mesi ha esattamente un secolo: “Rifare l'Italia”. Un refrain
antico. A conferma è stato riproposto all'attenzione il discorso il 26 giugno
1920 pronunciato alla Camera dei deputati da Filippo Turati (Canzo, Como, 26
novembre 1857-Parigi, 29 marzo 1932)
all'insediamento del V governo Giolitti. Come tutta l'Europa, l'Italia
faticava a uscire dalla Grande Guerra. Aveva vinto la guerra sul piano
militare, ma l'aveva persa al proprio interno: oberata dal debito pubblico, dal
discredito di governo e parlamento e dal collasso dell'economia.
La guerra genera guerre, le utopie non le
fermano
Le catastrofiche conseguenze della guerra erano
state prospettate dal geniale Norman Angell (pseudonimo di Ralph Norman
Angell-Lane,1872-1967), giornalista e saggista. Autore del fortunato Patriottismo
sotto tre bandiere: una mozione per il razionalismo in politica (1903), nel
1910 Angell ottenne fama mondiale con La
grande illusione, subito tradotto in venticinque lingue. Vi sostenne che il
mondo correva fatalmente contro una guerra devastante perché il militarismo
ispirava i governi dei principali Paesi, ormai lontani dal libero scambio,
unica vera garanzia di progresso civile ed economico. Il capitalismo genuino
non mirava affatto allo sfruttamento delle colonie, in massima parte avviate
all'indipendenza, né a programmi bellicistici, dai quali aveva tutto da
perdere. Creava profitti da investire e distribuire. Futuro deputato laburista
alla Camera inglese e premio Nobel per la pace nel 1933, all'indomani della
tempesta Angell criticò severamente lo spirito vendicativo delle paci di Parigi
(Versailles e seguenti) e previde che l'umiliazione dei vinti, a cominciare
dalla Germania, avrebbe scatenato una nuova guerra generale, più orribile della
precedente. Le sue ammonizioni, come quelle di Keynes, si rivelarono
tragicamente veridiche ma non ebbero molta fortuna. L'Europa era spazzata dal
vento dei neo-nazionalismi, con le varianti dell'internazionalismo sovietico
(l'iniziale nazionalismo “di classe” si convertì nel comunismo in un solo paese: l'URSS di Lenin e
di Stalin) e del nazionalsocialismo, ancora in nuce, ma nel volgere di appena
dieci anni destinato alle note fortune propiziate dalle ripercussioni della
Grande depressione, nata in Europa, passata negli USA e rimbalzata sul Vecchio
Continente.
Altrettanto celebre alla vigilia della guerra
fu il libretto profetico di Ernest Nys (Countrai,1851-Bruxelles, 1920) Idee
moderne, diritto internazionale e Massoneria,
pubblicato nel 1908, tradotto in Italia nel 1914 col pessimo titolo Origini
gloria e fini della Massoneria, poi riproposto dal
vescovo gnostico Giordano Gamberini (Bastogi,1974). Docente nella prestigiosa
Università Libera di Bruxelles, Nys nutriva piena fiducia nella razionalità
della politica e nella soluzione pattizia dei conflitti interstatuali. Calcava
le orme del Fratello Giuseppe Garibaldi, che aveva proposto di fare di Nizza
una “città libera”, sede di un Areopago universale, anticipatore della futura
Corte internazionale insediata all'Aja,
nella quale vennero riposte esagerate speranze, soprattutto dai docenti
di diritto internazionale, improvvisamente famosi, virologi dei conflitti tra
Stati. Come vaticinato da Angell. la guerra prevalse sulle illusioni: due volte
a livello planetario, oggi è ogni giorno incombente. E potrebbe essere
l'ultima. Perché poi verrebbe la pace eterna.
Turati: come (ri)fare l'Italia
Nel giugno 1920, un anno dopo la Pace di
Versailles e nove mesi dopo quella italo-austriaca di Saint-Germain le speranze
di quiete tra gli Stati e di quella all'interno di ciascun Paese si stavano
affievolendo. Col noto realismo, appena tornato alla presidenza del Consiglio
dei ministri Giolitti spiegò che non era il momento di attizzare la politica
estera. Prima occorreva riordinare casa. Il 26 giugno Turati espose il suo
“piano”, incardinato sul caposaldo”fare l'Italia”. Giorni prima aveva chiesto
alla fedele Anna Kuliscioff di trovargli gli scritti economico-politici di
Camillo Cavour. Una citazione del Gran Conte sarebbe figurata bene nel
discorso. Non avendoli reperiti, la compagna gli suggerì di cercarli nella
biblioteca della Camera.
Nel discorso del 26 giugno (poi stampato col
titolo Rifare l'Italia e più volte riproposto) Turati deplorò il
demagogismo, il ruolo nefasto dell'industria militare tedesca e l'espansionismo coloniale, la burocrazia e
i “lavori improduttivi”, una sorta di reddito di cittadinanza dell'epoca, causa
di sperpero del pubblico danaro. Affermò che il governo doveva proporsi un
“piano regolatore”, il decentramento regionale, badare all'agricoltura, alle
risorse idriche, puntare sull'elettrificazione. Contrappose la classe
lavoratrice alla borghesia ignava. A sua detta era venuta l' “ora
dell'espiazione”.
Proprio mentre ad Ancona esplodeva
l'insurrezione anarcoide. Secondo Carlo Rosselli quel discorso fu il Manifesto della
liberal-socialismo. Però non vi si legge quasi nulla sulla Scuola, che pure era
stata il cavallo di battaglia dell'Italia da Cavour alla Sinistra Storica da
Crispi e Coppino sino a Giolitti. Turati annunciò il fallimento della “vecchia”
Italia e del suo “regime”. Il Re, Vittorio Emanuele III, prese nota. Per
l'ennesima volta Turati non raccolse la mano tesa dal democratico Giolitti.
Rimase nelle tenaglie di una visione ideologica del socialismo, che di
scissione in scissione portò all'isolamento e alla catastrofe della
sinistra.
L'ormai anziano esponente del riformismo si
contrappose a Giolitti (erroneamente considerato un Nitti molto più attempato,
una cariatide del liberalismo). Il suo discorso è di grande attualità perché
non affrontò affatto il problema di fondo dello Stato d'Italia: la convergenza
della rappresentanza nazionale in un governo di ampia maggioranza (liberali,
cattolici, socialisti riformisti) per conservare il Paese al sicuro dalla
deriva populista eterodiretta. Turati si preoccupò soprattutto del proprio
partito. Tentò invano di esorcizzare i due nemici profondi che insidiavano il
socialismo democratico: l'anarchismo e il miraggio del socialismo sovietico
succubo della Terza Internazionale di Mosca.
Anarchia e opposti estremismi
L'Italia del giugno 1920 ricominciava da dove
si era fermata sei anni prima Nel giugno 1914 era stata sconvolta dalla
“settimana rossa”, studiata da Luigi Lotti e da Marco Severini. Dalle Marche
alle Romagne anarchici, socialisti rivoluzionari e repubblicani misero tutto a
soqquadro. Occuparono edifici pubblici, interruppero la circolazione dei treni,
presero in ostaggio militari e personalità di alto rango. Da tre mesi
presidente del Consiglio e ministro dell'Interno era il burbanzoso e
autoreferenziale Antonio Salandra. A suo modo fortunato, mentre i carboni di
una rivolta senza capo né coda ancora erano ardenti, il 28 giugno a Sarajevo i
criminali della “Mano Nera” (ben manipolati, come poi emerse dal processo a
loro carico) assassinarono l'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo:
detonatore della Grande Guerra.
Giusto sei anni dopo, alle 2.30 del 26 giugno
1920 un gruppo di bersaglieri destinato all'Albania intraprese una sommossa col
sostegno dei militanti locali socialisti, repubblicani, radicali, anarchici, alcuni iniziati in loggia.
Nel pomeriggio si registrarono scene di ferocia selvaggia. Rientrato
l'ammutinamento, la plebaglia spadroneggiò. Alcuni uomini della Guardia Regia
furono linciati. Le loro salme vennero oltraggiate: sputi, orina e altro. Per
domare la rivolta Giolitti inviò il prefetto Cesare Mori, che usò mano di
ferro. Il bilancio (provvisorio) fu di 24 morti, incluse 9 Guardie. Settantuno
persone si fecero curare le ferite negli ospedali; molte preferirono provvedere
alla meglio per non scoprirsi. Uno sciopero ferroviario impedì al governo di
inviare l'Esercito a sedare immediatamente la rivolta. Questa in breve si
esaurì. Ma il cattivo esempio ormai era dato. In tanti volevano “fare come in
Russia”: annientare la forma dello Stato (la monarchia) e lo Stato stesso,
identificato con il suo Capo.
Che fare oggi?
Il limite del “codice Turati” è lì. Il suo
proclama si fermò sulla soglia del problema dei problemi: governare. Non
bisognava affatto né “fare” né “rifare” l'Italia. L'Italia c'era, con la serqua
dei problemi irrisolti da secoli. Li portava sulle spalle dalla unificazione
del 1859-1870 e dalla Grande Guerra: le compagnie di Santa Fede, il grande
brigantaggio, la malavita organizzata, una macchina statuale unitaria ancora in
rodaggio. I clericali non avevano mai dimenticato Porta Pia. I papi rimanevano
asserragliati nei Sacri Palazzi come prigionieri di guerra. In Italia tanta
parte dei socialisti rimaneva “contro” a differenza di quanto accadeva in Gran
Bretagna, Germania, Austria e Francia. Perciò il discorso di Turati è di grande
attualità. Indica quello che un partito “democratico” dovrebbe fare per
conservare quel che resta dello Stato: lasciata ai retori l'esaltazione della
occupazione delle fabbriche del settembre 1920 (centenario incombente!), una
forza di governo ha un solo obbligo: governare.
Ma va anche constatato che il partito
democratico odierno (stinto approdo di tanti partiti estinti) conta circa il
20% dell'intenzione di voto degli elettori. Nel 1919 , messi a frutto suffragio
universale e “maledetta proporzionale”
il PSI (coacervo di “tendenze”, come ammise l'onesto Turati) raggiunse il 32,
3% dei voti validi (sul 56% degli
elettori) contro il 20,5% del Partito popolare. Ma non seppe farne buon uso. Cinque anni dopo scomparve.
Il passato qualche cosa dovrebbe insegnare.
Anziché fare o rifare, urge conservare quanto rimane dello Stato d'Italia.
Aldo A. Mola
Nessun commento:
Posta un commento