Non si vuole con questo
affermare che tutti gli errori furono degli alleati. No, vi furono errori anche
nostri; inesplicabili incertezze, assurde, ma pur diffuse speranze di una
inoffensiva partenza dei tedeschi e, quindi, il desiderio di ammansirli, di non
compiere atti che potessero apparire provocatori. Questo nostro atteggiamento
era provocato anche in molti Comandi da un eccesso di coscienza morale; si,
voleva, sì, uscire dalla guerra, ma sparare contro l'alleato di ieri, no. Tutto
ciò è comprensibile, è umano, ma condusse a gravi conseguenze perché i tedeschi
presero l'iniziativa dovunque e si guardarono bene dall'obbedire ad analoghe
preoccupazioni morali. L'iniziativa, in guerra, dà, in genere, grossi vantaggi,
ma nella lotta per il controllo di una città assicura quasi sempre la vittoria.
Vi furono anche gravi ritardi nelle misure da adottare e inesplicabili deficienze
(si pensi al difetto di carburante per il corpo motocorazzato). Infine vi
furono circostanze avverse e impreviste come l'assenza di Ambrosio nella notte
tra il sette e l'otto settembre all'arrivo del generale Taylor che doveva
portare la sua divisione aviotrasportata per partecipare alla battaglia per
Roma. Vi fu, insomma, la sorpresa morale che paralizzò l'azione di comando
nella fase delicata della preparazione dell'azione prevista per la metà circa
del mese. Perché poi non fu diramato immediatamente a tutte le unità sul
territorio nazionale e fuori l'ordine di eseguire l'op. 44 e perché esso venne
dato solo il giorno undici? Perché infine non fu lasciato alla stazione radio di
Roma un disco da mettere in onda a regolari intervalli, contenente il preciso
ordine di combattere contro i tedeschi appena nascesse il sospetto di un loro
atteggiamento ostile o appena essi prendessero l'iniziativa della lotta?
Perché non fu convocato un
consiglio dei ministri nella notte per dare a Roma la sensazione che v'era una rappresentanza
del Governo e perché non fu diffuso un bando che affidasse ad una autorità
militare il Comando della città e la sua difesa? A quest'ultima domanda qualcuno
risponderà che era inutile un tale bando dato che la città non doveva essere
difesa. t facile rispondere che non è vero perché per ore e ore i comandi di
posti isolati e dei posti attorno alla città non seppero a chi rivolgersi e furono
rinviati dall'uno all'altro comando con le conseguenze morali e disciplinari
che è facile immaginare. Ed è anche chiaro che così facendo nessuno avrebbe
potuto parlare di una fuga, ma di un piano predisposto, certamente assai grave
e doloroso, ma evidentemente dettato dalla ferrea necessità della nuova guerra.
Detto tutto ciò, e molto,
altro probabilmente vi sarebbe da dire (perché, ad es. non fu posto in salvo
tempestivamente l'oro della Banca d'Italia, perché non fu predisposto
l'allontanamento preventivo della Famiglia Reale per evitare l'impressione di
una fuga), torniamo a domandarci: come questi avvenimenti, senza dubbio gravi e dolorosi, ma rispondenti alla imperiosa
necessità, da tutti accettata e sollecitata, di un rovesciamento dell'alleanza
di guerra, come essi possono toccare la responsabilità del Sovrano?
Quando il Governo, su
suggerimento dell'Alto Comando, decise, nella notte tra l'otto e il nove
settembre di non difendere più la capitale e di trasferirsi lontano dal campo
di azione tedesco, il Re non poteva che aderire, a malincuore, alla richiesta
del Governo e trasferirsi in località italiana (distante dalla minaccia
tedesca) ove potesse trattare l'armistizio con gli anglo-americani.
Forse che il Presidente della
Repubblica francese, Lebrun non ha lasciato Parigi, nel giugno 1940, quando il
Governo, per consiglio di Weygand, decise di non difendere la capitale e di
trasferirsi a Bordeaux? E non avvenne la stessa cosa nella Francia nel 1914?
Forse che Re Hakoon non ha lasciato, per lo stesso motivo, la Norvegia e la
Regina Guglielmina, l'Olanda? E al re Leopoldo del Belgio non si fa, invece,
l'accusa di essere rimasto? Quale legittimità avrebbe avuto il Governo Badoglio
senza Re Vittorio a petto del Governo illegittimo di Mussolini e dei tedeschi?
Chi e con quale autorità avrebbe potuto dare ordini agli ufficiali, ai soldati,
ai funzionari, ai civili di non collaborare con i tedeschi?
È inaudito che in un paese di alta
civiltà si debbano discutere argomenti così elementari. Ciò è forse dovuto alla
tendenza inguaribilmente provinciale della nostra politica, a quella tale
natura amorosa del nostro popolo che porta il sentimento e il culto della
persona nell'esame e nel giudizio dei fatti politici. Si formarono subito i mussoliniani
e i badogliani come in tempi lontani e altrettanto feroci v'erano stati
palleschi e piagnoni. Deriva da ciò una concezione medioevale e anacronistica
della funzione monarchica. Il Re doveva, ieri, montare a cavallo e caricare con
le sue guardie le milizie del dittatore e avrebbe dovuto', nel settembre del
1943, portarsi con la spada mozza di Garibaldi sulle mura di Roma e al Vascello
per difendere la capitale del suo Regno. Verrà giorno in cui l'aver dovuto
portare la discussione su questo tema apparirà a noi, o agli studiosi che
verranno, per lo meno grottesco: ma a ciò si è giunti per il carattere
tristemente fazioso assunto in Italia dalla lotta politica. In un paese
anglosassone ò scandinavo ci si preoccuperebbe di accertare una cosa sola. E
cioè: Roma poteva o no essere difesa? È interessante il giudizio lasciato a
questo proposito dal vecchio maresciallo Caviglia che in, quei due giorni prese
il comando, come ufficiale più anziano e di grado più elevato, della città.
Maggiore e quattro signori in
abito civile. Lasciamo a lui la parola:
«Furono fatti entrare in due
stanze separate, ed io andai subito da Calvi di Bergolo. Lo trovai col suo capo
di stato maggiore, colonnello Giaccone, e col tenente colonnello Cordero dì
Montezemolo.
Calvi mi portava un "ultimatum"
di Kesselring. Per le ore 16 doveva essere accettato; in caso contrario
Kesselring avrebbe fatto saltare gli acquedotti di Roma già minati, e fatto
bombardare la città da 700 aeroplani. Io calcolavo mentalmente che gli
aeroplani potevano essere 70, ma bastavano. Le condizioni erano: disarmare le
divisioni intorno a Roma e scioglierle mettendo in libertà gli ufficiali ed i
soldati. Ai primi si lasciava l'onore dell' arma.
I tedeschi avrebbero occupato
l'Ambasciata tedesca, la centrale telefonica e l'Eiar. Tutte le truppe tedesche
sarebbero rimaste fuori Roma.
Non v'era che chinare la
testa. Consigliai Calvi di mandare il suo capo di stato maggiore da Kesselring
a portargli l'accettazione dell' "ultimatum". Dolorosa decisione! In quel momento triste ebbi una
buona impressione di quei tre uomini: bravi soldati, forti, onesti, e risoluti.
Formavano un insieme serio e fedele: si completavano. Giaccone rappresentava il
metodo disciplinato e rettilineo; Montezemolo lo spirito aperto, pronto e multiforme.
Mi lasciarono, ed io passai
all'altra stanza, dove trovai Ivanoe Bonomi, il senatore marchese Casati, l'on.
avv. Ruini, ed il Ministro delle Corporazioni Piccardi. Bonomi cominciò a
parlare, ma io l'interruppi: « Scusa
Bonomi, se ti interrompo, e scusatemi tutti, se vi ho fatto aspettare : vi era
Calvi di Bergolo con un ultimatum e la minaccia per il caso che non fosse accettato
».
Dopo ciò aggiunsi: — Cosa
avrebbe fatto ognuno
di Voi?
Essi mi risposero ad una voce:
- Avremmo accettato.
- E così ho fatto io.
Allora essi si alzarono e si
congedarono. Tutti conoscono quelle quattro brave persone. Uomini politici, parlamentari
onesti, ognuno guidato da idee proprie; concordi però tutti e mossi dagli
interessi dell'Italia e non dai propri interessi ed ambizioni».
Il Maresciallo Caviglia e i
membri più influenti del Comitato di liberazione concordavano dunque sulla opportunità
della resa. Ma il maresciallo Caviglia dice di più. Dopo i colloqui predetti
egli ritornò al Ministero: vide De Bono e poi alcuni ministri, tutti furiosi
contro Badoglio che non li aveva preavvisati della sua partenza (in tutto il
diario del vecchio Caviglia sono contenute delle violente puntate contro
Badoglio e nessuno che conosca i suoi libri sulla guerra del 1915-18 se ne
mera-viglierà) e poi, vide anche Carboni. Racconta Caviglia:
« Ritornò il generale Carboni.
Lo pregai di leggermi l'ordine che aveva ricevuto da Roatta, per cui le divisioni
del corpo d'armata erano dislocate ai quattro venti. Era presente De Bono.
L'ordine terminava con il consiglio di non difendere Roma. Certo Roatta
conosceva la situazione delle forze nostre e tedesche, ed era necessariamente
venuto a quella conclusione. Purtroppo alla stessa conclusione avevo dovuto
venire io, non appena ebbi conoscenza dei vari elementi che componevano la
situazione. Ora appariva chiaro che il Capo del Governo ed i capi militari
avevano dovuto mettersi in salvo, appunto perché sapevano che non vi era altro
da fare. E nella loro fuga avevano trascinato il Re e la Famiglia Reale Caviglia
dice anche, nel suo diario, che egli spedì un telegramma al Re per essere
investito dell'autorità di Governo e che non-gli pervenne nessuna risposta (probabilmente,
egli dice, la risposta fu intercettata). La risposta fu invece inviata e riportiamo
qui di seguito i due telegrammi :
Maresciallo Caviglia al Re -
Prego Vostra Maestà data la situazione che si è determinata nella Capitale
volermi concedere temporaneamente poteri che mi permettano di far funzionare il
Governo durante l'assenza del Presidente del 'Consiglio. - CAVIGLIA.
Risposta del Re al Maresciallo
Caviglia — In risposta suo telegramma, Vostra Eccellenza è da me investita
potere mantenere funzionamento Governo durante temporanea assenza Presidente
del Consiglio che si trova con me e ministeri militari. — VITTORIO EMANUELE.
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