NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 30 giugno 2017

Monarchia Sociale e Comunità Nazionale



PROBLEMI IN SEDE PARLAMENTARE

AFFIDATO COSI' AGLI ORGANI ED AI GRUPPI PARLAMENTARI DEL PARTITO IL MANDATO DI REALIZZARE LA SUDDETTA LINEA SOCIALE ED ECONOMICA CHE ESSO REPUTA CONFACENTE AGLI INTERESSI SUPREMI DELLA NAZIONE ED A QUELLI DELLA CAUSA, E DI ASSUMERE LE CONSEGUENTI POSIZIONI POLITICHE E PARLAMENTARI, IN ORDINE A QUESTE IL CONGRESSO NAZIONALE INDICA PARTICOLARMENTE Al GRUPPI PARLAMENTARI LE SEGUENTI SPECIFICAZIONI DELLA LINEA SU STABILITA:

POLITICA EDILIZIA

l) Sul disegno di legge sul blocco dei fitti urbani, e sulla politica edilizia in generale, è da respingersi il disegno di legge governativo attualmente all'esame del Parlamento così come ogni altro che muova dal principio dell'aumento non discriminato dei fitti bloccati per le case di abitazione, giacché a tale aumento, sia pure graduale, si potrà giungere soltanto quando sarà stata iniziata e sarà divenuta operante una politica edilizia capace di assicurare veramente la casa decorosa, a costo di larga sopportabilità per gli attuali bilanci familiari, ai ceti popolari e medii del popolo Italiano. Quello della casa è un diritto; ed è in questo campo che la proprietà privata deve esercitare massimamente la propria funzione sociale.

Per attuare tale politica non è possibile contare esclusivamente sull'iniziativa diretta dello Stato e su quella degli, Istituti a ciò istituzionalmente deputati, anche per evitare, la creazione di un pericoloso monopolio dell'edilizia ad equo costo. Al contrario, pur con la collaborazione di codesta iniziativa diretta o indiretta dello Stato, bisogna puntare stilla iniziativa privata la quale potrà assolvere tale compito solo che lo Stato sappia indirizzarla e proteggerla. A tale fine è necessaria una politica fiscale che - coerentemente alla nuova strutturazione auspicata per tutto il sistema fiscale - scoraggi la costruzione di case di lusso e incoraggi al massimo la costruzione di case per i ceti più numerosi e bisognosi.

Ma soprattutto è necessaria una legislazione energica, rapida, efficiente per stroncare la speculazione sulle aree fabbricabili nei centri urbani grandi e medii, giacché il poter fornire alla iniziativa privata di costruzione aree fabbricabili a prezzo equo e controllato - quando si pensi che oggi il costo dell'area incide sul costo di costruzione della casa per aliquote che vanno dal 45 al 60 per cento - significa dimezzare i prezzi del mercato edilizio. Quella delle aree è una tipica speculazione di usura capitalistica che va stroncata in nome di supremi principii morali e giuridici prima ancora che per pressanti ragioni economiche e sociali.

A questo fine è auspicabile che tutti i Comuni imitino l'esempio del Comune di Torino che - primo fra i maggiori centri urbani - ha con deliberazione del 5 novembre u.s. stabilita una imposta sul plusvalore delle aree fabbricabili, sia pure con aliquote che in altri centri sono notevolmente maggiorabili. Ma soprattutto è necessario un provvedimento di legge che autorizzi i Consigli Comunali - ed, in. mancanza di loro iniziativa, i Prefetti - a stabilire dei demanii comunali di aree, fabbricabili in base alle norme vigenti per le espropriazioni di pubblica utilità e facendo base per il prezzo di esproprio come valore commerciale delle aree il loro valore commerciale al 1948, anno in cui l'usura capitalistica in questo campo si è pronunciata. La differenza tra il prezzo di esproprio ed il valore commerciale 1948, al quale le aree dovrebbero oggi esser cedute dagli auspicati demanii comunali all'iniziativa privata di costruzione, dovrebbe essere dai Comuni iscritta in un bilancio speciale ed adoperata per la costruzione ad iniziativa comunale di case popolarissime da cedersi gratuitamente in proprietà, attraverso gli ECA e con il controllo dell’Autorità Tutoria, ai ceti più miserevoli e più bisognosi di abitazione, come profughi, sinistrati totali di guerra, disoccupati permanenti per invalidità ecc. Particolari provvidenze si auspicano per le cooperative di profughi della Venezia Giulia e dell'Africa.
Nel frattempo una equa soluzione del problema posto dal permanere del blocco dei fitti, la quale contemperi le prevalenti ragioni sociali con quelle economiche e giuridiche, non può essere ricercata che attraverso una discriminazione che contempli:

a) lo sblocco degli appartamenti appartenenti a proprietari di una o due abitazioni locate i quali possano dimostrare di avere in esse investite, prima del 1939, almeno la metà dei loro risparmi;
b) un moderatissimo aumento dei fitti bloccati, graduato per almeno un decennio e tale da raddoppiare, al massimo, alla fine del decennio i fitti attuali per tutti gli appartamenti non compresi nella prima e nella terza categoria;

c) un provvedimento di riscatto ventennale, sulla base della capitalizzazione del fitto attuale, per tutti gli appartamenti appartenenti a Enti o Istituti parastatali per i quali l'attività edilizia non rientri nei diretti fini istituzionali od a Società -private il cui fine costitutivo, o generalmente accertabile, sia la speculazione edilizia e che detengano appartamenti sottoposti al blocco dei fitti.

Il libro azzurro sul referendum - VI cap. 4-6


Eccezioni alle privazioni del diritto di voto



«La circolare n. 2030 P. diramata dal Ministero dell'Interno - Servizio elettorale - in data 21 maggio 1946 a tutte le amministrazioni comunali e per conoscenza a tutte le Prefetture relativa alle eccezioni applicabili alle privazioni del diritto di voto è stata da molti Comuni ignorata, in particolare da quello di Roma, e comunque non applicata entro il 23 maggio, termine utile ai fini della introduzione nelle liste elettorali dei nominativi non compresi nella liste stesse.


Risulta che alle proteste degli elettori lesi nei loro diritti, alcune amministrazioni hanno risposto assicurando che la circolare sarà applicata a tutti gli effetti per la correzione delle liste dopo le elezioni del 2 giugno».




Rinvio dei comizi elettorali nella Venezia Giulia e provincia di Bolzano


In contrasto coll'articolo 1 del D.D.L. 25 giugno 1944 n. 151 l'articolo I del D.L.L. 1 marzo 1946 n. 74 - Norme per l'elezione dei Deputati all'Assemblea Costituente, comma secondo - stabilisce che i comizi elettorali per il «referendum» nella Venezia Giulia e nella provincia di Bolzano saranno convocati con successivo provvedimento. Tale disposizione deve essere messa in rapporto coll'art. 1 del D.L.L. 25 giugno 1946 n. 151 del decreto sul «referendum» che enuncia il principio fondamentale che «il popolo» sarà chiamato a decidere sulla forma istituzionale dello Stato. Oltre all'esclusione dei prigionieri di guerra, degli italiani all'estero, in colonie ecc., colla esclusione dal voto della Venezia Giulia e della provincia di Bol7-ano, la volontà del «popolo » non fu giuridicamente perfetta, poiché il soggetto di tale volontà non risultò di tutti gli elementi dei quali, per espressa disposizione di legge, doveva essere costituita, perché la volontà manifestata avesse valore giuridico.



Protesta dell'U. M. I. di Bolzano


L'U.M.I. di Bolzano ha inviato all'Amm. Stone le sue ufficiali proteste per l'esclusione dal voto.

Noi stiamo con Charlie

mercoledì 28 giugno 2017

TORELLI, LO SCRITTORE DALL’ANIMO BUONO CON LA MISSIONE DI REGALARE SPERANZA



Raffinato nello stile, per lungo tempo ha curato sul «Giornale» di Montanelli la rubrica «Cosa nostra» È tra i pochi a usare la penna in modo garbato. Nel 1976 Bettiza scrisse: «La sua lingua? Casalinga e ardita»



Torelli con il Re durante l'intervista dell'Agosto del 1963

Emilio Del Bel Belluz

da La Verità di domenica 25 giugno 2017

«Sento improvviso e afferro con voluttà il profumo fluttuante delle foglie di pioppo, quellamorevole che un rovescio di pioggia autunnale ha forse provocato e poi esaltato, le foglie bagnate odorose, pervase dei giorni lontani della mia vita in provincia, unasprezza vegetale che può essere subito sollecitata alla memoria. Sono gonfio di pioppi nel ricordo, sfrondati dalle nostre mani giovani, la tenerezza dei rami recisi dal colpo di quelle roncole ripiegabili che portavamo nelle tasche dei pantaloni corti e rammendati. In una tasca la roncola, in una tasca la fionda (sfròmbla, da noi), i suoi gommini di elastico quadrato, la forcella di faggio tornita a mano libera, il tassello di pelle ricavato da un guanto» (Giorgio Torelli, Il Giornale, 21 ottobre 1980).

Ci sono scrittori che hanno lanimo buono: sono nati con la missione di donare alle persone una parola che possa rischiarare le ombre della vita. Quando penso a costoro, il primo che mi viene in mente è lo scrittore Giorgio Torelli, nato a Parma nel 1928. Leggevo puntualmente ogni domenica la sua rubrica («Il diario di sette giorni») che veniva pubblicata sul Giornale di Indro Montanelli, e come tanti suoi ammiratori sapevo che avrebbe portato un piccolo raggio di sole. Grande giornalista, collaborò ai maggiori quotidiani e curò per molti anni la rubrica «Cosa nostra». La raffinatezza del suo scrivere era notevole. Sapeva usare la penna in modo garbato e mai offensivo, come testimoniano alcune opere da lui pubblicate: Gli Arcinoti, Pagine di un passaporto, I provocatori, Il buco della Giacoma, Cosa nostra appunto, I giorni della merla, La magnolia padronale e La Parma voladora. Torelli è per me come un amico, a cui mi sento legato per le sue descrizioni e i suoi articoli semplici e penetranti. Da anni li conservo con cura, rileggendoli spesso e riassaporando ogni volta la sua lingua «inventiva, piccante, casalinga e ardita insieme», come scrisse nel 1976 Enzo Bettiza presentando il volume Avanti adagio, quasi indietro. Cosa nostra 2.

Quello che ho sempre apprezzato di Torelli, al di là del suo palese talento giornalistico, è sempre stata la sua radice autenticamente cattolica, la sua concezione cristiana della vita e la continua apertura su orizzonti familiari e quotidiani. Il lettore vero è quello che si innamora di uno scrittore, lo segue, e si affeziona così tanto da considerarlo un punto di riferimento nella vita. Le sue parole sembrano cesellate come quelle di un filosofo. Anche la vita di Torelli è un esempio da imitare. Dopo la pubblicazione di un suo libro autobiografico, fu intervistato da Stefano Rotta, il 23 gennaio 2016, e alla domanda su cosa fosse il giornalismo per lui, rispose: «Ho detto a me stesso: caro Giorgio, sei stato testimone dei testimoni. La mia occasione è stata questa... Suscitare speranza con la mia stessa persona non solo raccontando la storia di chi fa il bene comune, che tanto faceva felici i direttori che mi hanno ospitato, Montanelli in particolare. Lo devo essere io stesso, un testimone di speranza... Ciascuno di noi evangelicamente è un servo inutile. A ognuno è dato un carisma, una dote, una qualità, per il bene comune. La mia è portare speranza con le parole».

Un vecchio professore di lettere amava Torelli: nella sua biblioteca cera uno spazio dedicato ai suoi libri. Lo avvicinava al grande Giovannino Guareschi (che aveva conosciuto durante la prigionia) per il modo semplice e garbato che avevano nellaffrontare la vita nellintendere la professione di scrittore. Li amava, come si ama un maestro diventato la stella polare da seguire.

Tra i tanti libri che ha scritto Giorgio Torelli, uno può legare il lettore per sempre: La Parma voladora, edito da Camunia. Può essere considerato un viaggio storico e letterario nel periodo tra le due guerre mondiali. Inizia con la storia di una famiglia padana: sintrecciano le vicende del nonno granatiere, dei suoi undici figli, dei nipoti, delle sorelle e degli amici. Un viaggio in cui il lettore si incolla ai personaggi, e che si avvicina alle pagine storiche di Bacchelli nel Mulino del Po. Lasciatevi trasportare da un libro di Torelli: non vi deluderà. 


In uno ho rinvenuto un suo articolo, datato 6 marzo 1983. Racchiude quanto di meglio sia stato scritto sulla figura di Umberto II, ultimo re d
Italia, morto qualche giorno dopo la pubblicazione del pezzo: «Ora io voglio fare un augurio al re, che conosco e di cui ho avuto modo di apprezzare lo stile discreto e colmo di tatto. Che la vigilia gli sia lieve e la sua salute rifiorisca proprio in virtù di questa medicina; la terra promessa lo riaccoglie e la gente lo aspetta e vuole rivedere. Al di là di ogni cronaca dalla Svizzera, misurata o enfatica, i miei frequenti pensieri vanno a Umberto smagrito sul cuscino di sofferenza e a questa sua battaglia di re contro il tempo, perché non gli sia negata la più legittima delle glorie: tornare a casa dopo tanto sonare di Atlantico, incontrare le mani tese e rivedere tutto ciò che appartenga al suo sentire, il cielo, gli alberi, le acque, la città, la lingua, i giovani che lo rispetteranno e i vecchi carichi di memorie anche difficili». Nel leggere parole come queste, sale spontaneo alle labbra un grazie.


Il sogno di un Re in esilio, pubblicato su Grazia, agosto 1963

martedì 27 giugno 2017

Gli eroi di Montecassino

Il libro è uscito già da un po', lo segnalammo a suo tempo ma adesso abbiamo avuto il tempo di leggerlo con la dovuta attenzione e lo riproponiamo. Dobbiamo dire che l'impostazione di Garibaldi non può che giungere come musica alle nostre orecchie.
Chi scrive ha sentito la necessità di andare a leggere le ultime pagine del libro una mattina presto al Cimitero di Guerra dei soldati Polacchi di Montecassino. Posto visitato tante volte da bambino ma adesso rivisto con occhi nuovi alla luce del racconto di Luciano Garibaldi. Che ringraziamo.
Di seguito la prefazione del libro affidata al Professor Massimo De Leonardis*




Giovanni Paolo Il, figlio di un ufficiale dell'Esercito austroungarico, il 2 aprile 1989, visitando la città militare della Cecchignola a Roma, osservò che «fra i militari e Gesù Cristo [ ... ] ci sono stati incontri molto significativi. Pensiamo alle parole che ogni volta ripetiamo avvicinandoci alla santa comunione:

“Io non sono degno…”. Esse sono parole di un militare, di un centurione romano che così ha espresso la sua fede [ ... ] Ma non solo questo. Se prendiamo gli Atti degli Apostoli, è significativo che il primo convertito sotto l'influsso dello Spirito Santo - convertito non ebreo ma pagano - sia stato un militare, un centurione romano che si chiamava Cornelio».

Nel giugno 1991, durante una delle visite nella sua patria, il Beato Pontefice, riferendosi a chi parlava della necessità di «entrare in Europa», diceva: «Prima di tutto noi non dobbiamo affatto entrarci, perché in essa siamo già [ ... ] Non abbiamo bisogno di entrarci, perché noi l'abbiamo costruita e la costruiamo con fatica maggiore di altri ai quali se ne attribuisce, o si attribuiscono da soli, questa patente».

Egli aveva di certo in mente, oltre al Re di Polonia Jan III Sobieski che nel 1683 liberò Vienna dall'assedio dei turchi, il generale Anders e il suo corpo d'armata. Giovanni Paolo II, come si ricorda dettagliatamente in questo volume, aveva legami particolari con questi combattenti polacchi, li ricordò più volte e l'inizio e la fine del suo pontificato videro gesti significativi a loro riguardo.
Anders e i suoi soldati ben possono essere annoverati tra coloro che si batterono per l'Europa contro le forze del male, il comunismo e il nazionalsocialismo. Negli anni '50 del secolo scorso Jules Monnerot aveva definito il comunismo «Islam del XX secolo»; oggi Ernst Nolte scrive che «l'islamismo [è] il comunismo del XXI secolo». Il loro nemico è la civiltà cristiana. Sobieski e Anders appaiono due condottieri della stessa battaglia.

Il destino della Polonia in età contemporanea è stato tragico. Risorta dopo la Grande Guerra, dovette difendersi dalla Russia bolscevica, sconfiggendola nella battaglia della Vistola, affrescata in una cappella della Basilica di Loreto, dedicata alla Madonna, «Regina della Polonia». Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la Polonia fu soffocata dalla morsa nazi-sovietica, efficacemente raffigurata nelle scene iniziali del film Katyn. Il punto 2 del protocollo segreto del Patto firmato da Molotov e von Ribbentrop il 23 agosto 1939 recitava: «La questione se sia nell'interesse delle due Parti o meno la conservazione di uno Stato polacco indipendente e di quali confini debba avere quello Stato potrà essere risolta solo nel corso di futuri sviluppi degli avvenimenti politici». Debellata la Polonia, con il trattato di frontiera e di amicizia del successivo 28 settembre, Germania e Unione Sovietica si accordarono per la spartizione del paese. In una dichiarazione aggiuntiva segreta a tale trattato, Berlino e Mosca si riferirono in maniera surreale allo «sfacelo dello Stato polacco», come se esso fosse scomparso per cause interne. Come è noto, finché sopravvisse l'URSS Mosca negò ostinatamente l'autenticità dei protocolli segreti ai due Patti - il cui testo era ben noto fin dal 1945 perché ritrovato negli archivi tedeschi - con quell'esercizio sistematico della menzogna che è connotazione tipica del comunismo e che trovò espressione, sempre riguardo alla Polonia, anche nel negare la responsabilità del massacro di Katyn.

Il generale Anders sfuggì al massacro di Katyn, ma subì due anni di carcere duro alla Lubianka, trovandosi poi a combattere lontano dalla patria in una guerra scoppiata perché Gran Bretagna e Francia si erano impegnate a difendere la Polonia, e conclusa con l'oppressione politica di tale paese.

Il libro di Luciano Garibaldi ripercorre con passione e precisione le vicende di Anders e del suo corpo d'armata. Nessuno poteva raccontarne la storia meglio di lui che, oltre a investigare e descrivere in diverse opere i crimini del nazionalsocialismo e del comunismo, ha anche narrato le vicende della campagna d'Italia dal 1943 al 1945. Durante quest'ultima il 2° Corpo Polacco, inquadrato nell'VIII Armata britannica, partecipò a molte importanti battaglie ed entrò per primo in Bologna, precedendo di poche ore i reparti italiani del gruppo di combattimento Friuli del Regio Esercito, a loro volta seguiti da quelli del Legnano. I caduti italiani e polacchi riposano vicini, nei sacrari di Monte Lungo e di Monte Cassino.

I militari polacchi, come i nostri esuli giuliano-dalmati, furono insultati dai comunisti italiani e abbandonati dagli inglesi. Anders offrì la sua spada al Re Umberto II che, come molti sovrani, ben diversi da tanti presidenti e dittatori, non volle però versare il sangue del suo popolo per conservare il trono. Finirono entrambi la loro vita in esilio, ma la loro coscienza era tranquilla. Fu un grande pontefice, Pio XII, a rendere meno amaro l'esilio di entrambi, da un lato prestando al Re, partito dall'Italia senza mezzi e donando allo Stato i gioielli della Corona, una somma per le prime spese, dall'altro ricevendo nel dopoguerra in commossa udienza Anders, al quale già nel 1944 aveva consegnato la medaglia di Defensor Civitatis.


*Professore ordinario di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e Direttore dei Dipartimento di Scienze Politiche presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

domenica 25 giugno 2017

Vittorio Veneto La vera vittoria della Grande guerra che molti vogliono «dimenticare»

Per anni celebrata, fu poi offuscata dalla retorica della Resistenza e del 25 aprile Eppure fu una affermazione tutta italiana, anche se gli alleati (e molti storici anglosassoni) hanno cercato di sminuirla
di Massimo De Leonardis
In entrambe le guerre mondiali, le ostilità terminarono in Italia prima che nel resto dell'Europa: il 4 novembre 1918 invece dell'11, il 2 maggio 1945 invece dell'8. Ancora fino all'inizio degli anni '60 del secolo scorso, il 4 novembre era certamente una festa di popolo, la più sentita del calendario civile. A scuola si studiavano il Risorgimento e la Grande guerra fin troppo agiograficamente.
Già allora però il 4 novembre non aveva più la denominazione originaria del 1922, «anniversario della vittoria», dal 1949 era la «festa dell'unità nazionale»; oggi è «festa dell'unità nazionale e giornata delle Forze armate». Nulla da dire sui due concetti, ma è evidente l'offuscamento della vittoria, l'unica che l'Italia unitaria possa vantare e potrebbe rivendicare (certo sarebbe pretendere troppo ricordare quelle nelle guerre di Etiopia e di Libia). Altre retoriche sono prevalse: quelle della Resistenza partigiana festeggiata il 25 aprile e della Costituzione «più bella del mondo». Così si celebra una sconfitta, perché partorì la Repubblica e fece rinascere la democrazia, mentre si sorvola sulla vittoria, poiché si ritiene, erroneamente, che quella guerra vittoriosa abbia portato al fascismo.


In entrambe le guerre mondiali, il fronte italiano fu però considerato secondario. Nella Grande guerra l'opinione prevalente all'estero era che lo sforzo militare italiano fosse stato per nulla essenziale ai fini della vittoria finale. Di ciò il Comando supremo italiano era consapevole già nei giorni stessi dell'armistizio, come risulta dal messaggio che il generale Armando Diaz inviò il 4 novembre 1918 al presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando: «Vi sono tentativi di svalutazione dei risultati della nostra vittoria». Anche per l'ignoranza delle opere in lingua italiana, tale pregiudizio è rimasto poi in gran parte della storiografia straniera, compresa la migliore, che ricorda più facilmente la sconfitta di Caporetto della vittoria di Vittorio Veneto. Un esempio di ciò è la peraltro eccellente opera di Paul Kennedy Ascesa e declino delle grandi potenze, che scrive infatti a proposito dell'Italia: «La sua vittoria finale nel 1918, come la sconfitta finale e la disgregazione dell'impero asburgico, dipesero essenzialmente da iniziative e decisioni prese altrove», salvo poi contraddirsi più avanti, ove parla di «splendide vittorie (stavolta senza virgolette) in Siria, Bulgaria e Italia».
Vediamo i fatti. La battaglia di Vittorio Veneto, o terza battaglia del Piave, seguendo quelle del novembre 1917 di arresto dell'avanzata nemica dopo la sconfitta di Caporetto, e del giugno 1918, detta anche battaglia del solstizio, che bloccò l'ultima offensiva austriaca, fu combattuta tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918.
Dall'estate gli alleati dell'Italia sollecitavano un'offensiva sul nostro fronte, ma il generale Diaz aveva respinto le pressioni, richiedendo anche un consistente concorso di truppe americane, che venne però rifiutato. Il 26 settembre riprese l'offensiva dell'Intesa sul fronte occidentale, il 29 la Bulgaria firmò l'armistizio di Salonicco uscendo dalla guerra e il 4 ottobre anche gli Imperi centrali fecero i primi sondaggi per una cessazione delle ostilità. Era evidente il rischio che la guerra finisse senza che l'Italia avesse conseguito una vittoria, con la possibile messa in discussione dei territori promessi dal Patto di Londra del 26 aprile 1915. Il presidente del Consiglio Orlando incalzò Diaz perché attaccasse, dichiarando di preferire «all'inazione la sconfitta» e ventilandone la sostituzione con il generale Gaetano Giardino.
Un piano d'attacco fu preparato dal colonnello Ugo Cavallero, capo dell'Ufficio operazioni del Comando supremo e futuro Capo di Stato maggiore generale dal dicembre 1940 al gennaio 1943, e rivisto dal generale Enrico Caviglia, comandante dell'8a Armata. L'ordine definitivo delle operazioni fu comunicato il 21 ottobre. Si fronteggiavano circa (i dati precisi divergono alquanto) un milione di uomini da entrambe le parti: 58 divisioni di fanteria austro-ungariche con 7.000 pezzi d'artiglieria, divise in due gruppi di armate, comandati sulla linea del Piave dal generale Svetozar Borevic von Bojna (soprannominato «il leone dell'Isonzo») e in Trentino dall'Arciduca Giuseppe (fino al 26 ottobre), contro 4 divisioni di cavalleria e 57 di fanteria dell'Intesa (51 italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 di fuoriusciti cecoslovacchi, più un reggimento americano) con 7.700 pezzi di artiglieria. La 10a Armata italo-britannica era comandata da Lord Cavan e la 12a franco-italiana da Jean César Graziani. La costituzione di due armate miste sotto il comando di generali stranieri era strategicamente inutile e motivata da ragioni politico-diplomatiche; fu criticata da Caviglia e Giardino e diede poi modo ai nostri alleati di enfatizzare il loro ruolo, tanto più che fu l'Armata di Lord Cavan ad attuare il primo sfondamento decisivo. Va comunque ricordato che come pegno della solidarietà inter-alleata nel giugno 1918 era stato inviato in Francia (dove già si trovavano 79.000 truppe ausiliarie italiane) il II Corpo d'Armata del Generale Alberico Albricci, forte di 25.000 uomini.
Prima ad attaccare nella zona del Monte Grappa, all'alba del 24 ottobre, fu la 4a Armata del generale Giardino che incontrò la tenace resistenza del nemico. Lo stesso giorno, sul Piave mentre i reparti italiani non riuscivano a passare il fiume anche a causa della piena, Lord Cavan occupò l'isola delle Grave di Papadopoli e l'isola Maggiore, in mezzo al corso d'acqua. Il 26 Giardino, che non aveva conseguito alcun risultato, sospese l'offensiva e il giorno successivo gli austriaci contrattaccarono con efficacia. Nella giornata del 27 reparti italiani, francesi e inglesi traversarono il Piave e Caviglia decise di sfruttare le teste di ponte create. Il 28 e il 29 la situazione sul Grappa restava bloccata, anche con contrattacchi austriaci, e si decise di sospendere l'offensiva italiana in attesa degli sviluppi sul Piave. Qui Caviglia esortò le sue truppe al massimo sforzo dichiarando che entro le successive ventiquattro ore la battaglia sarebbe stata decisa e dal suo esito sarebbe dipesa la storia d'Italia «forse per un secolo».
Nel frattempo da Vienna l'Imperatore Carlo aveva chiesto al Presidente americano Wilson un armistizio e una pace separata. Mentre le truppe di prima linea si battevano ancora tenacemente, nelle retrovie l'evoluzione della situazione politica all'interno dell'Impero diede luogo a defezioni e ammutinamenti dei reparti non austriaci e cominciò la ritirata dell'Esercito imperiale. Un ufficiale italiano descrisse la difesa austriaca come «un budino con crosta» (una crème brûlée), rotta la quale si incontrava poca resistenza. A metà del 30 ottobre gli italiani entrarono a Vittorio Veneto. Nel 1866 i comuni di Ceneda e Serravalle erano stati uniti in quello di «Vittorio» in onore di Vittorio Emanuele II; l'appellativo «Veneto», usato abitualmente soprattutto dopo la battaglia, fu ufficializzato nel 1923. Il 1° novembre tra i generali Viktor Weber von Webenau e Pietro Badoglio, Sottocapo di Stato Maggiore, iniziarono le trattative di armistizio, che fu firmato a Padova nella Villa Giusti del Giardino alle 18.20 del 3, con effetto dalle 15 del giorno successivo. Il quartier generale austriaco aveva già ordinato di cessare i combattimenti nella notte sul 3, aggiungendo confusione alla situazione già compromessa e gli italiani approfittarono dell'intervallo di tempo per avanzare, facendo il massimo numero di prigionieri ed impadronendosi di materiali nemici. Sempre il 3, furono conquistate le città «irredente», Trento e Trieste, senza incontrare resistenza. Nelle dieci giornate di combattimenti gli italiani (e i loro alleati) ebbero circa 37.000 tra morti, feriti e dispersi; gli austriaci circa 30.000 tra morti e feriti e, naturalmente, un altissimo numero di prigionieri, catturati soprattutto negli ultimi tre giorni.
Come si diceva all'inizio, la «battaglia di Vittorio Veneto» è stata oggetto di vari giudizi, talvolta sprezzanti e non privi di errori, pure da storici britannici di chiara fama come John Keegan e A. J. P. Taylor. Un dissacratore come Indro Montanelli ha scritto che Vittorio Veneto non fu una vera battaglia, ma «una ritirata che abbiamo disordinato e confuso». Giuseppe Prezzolini a sua volta scrisse di «una battaglia ideale» alla quale «è mancato il nemico» e che l'Esercito austro-ungarico perse «per ragioni morali». Soprattutto gli inglesi esaltarono oltremodo la brillante azione di Lord Cavan, che invece le fonti ufficiali italiane ridussero alle sue giuste proporzioni. Erich Ludendorff, già quartiermastro generale dell'Esercito tedesco, che pure a fine settembre aveva consigliato al Kaiser di sollecitare un armistizio, anch'egli influenzato da un punto di vista nazionale, attribuì grandi conseguenze alla sconfitta austriaca, affermando, con poca credibilità, che senza di essa la Germania avrebbe potuto resistere fino alla primavera 1919, ottenendo così migliori condizioni.
La Grande guerra non conobbe brillanti strateghi e grandi vittorie; sia sul fronte italiano sia su quello italo-austriaco prevalse la guerra di trincea e di attrito. Diversa fu la situazione sul fronte orientale tra Russia e Imperi centrali. Si può senz'altro ammettere che il cedimento austriaco fu dovuto più a cause interne politiche, la crisi dello Stato multinazionale, ed economiche, la grave penuria di generi alimentari, che a una brillante strategia militare italiana. Tuttavia ciò non può portare a sminuire la vittoria; il Regno d'Italia dimostrò di saper risorgere da una grave sconfitta, resistere e passare al contrattacco fino alla vittoria.

sabato 24 giugno 2017

Marcia su Roma, i retroscena rivelati dallo storico Francesco Perfetti





Ci era sfuggito su "Il Giornale". Non ci è sfuggita su "Il Secolo d'Italia" 

Sul Giornale un lungo articolo dello storico Francesco Perfetti  ricostruisce con equilibro una pagina importante come la Marcia su Roma del 28 ottobre del  1922, evidenziando tattica, strategie, retroscena di un capitolo del passato su cui tanti si è scritto e da diversa angolatura. Perfetti, docente alla Luiss, storico del fascismo e direttore  di Nuova Storia Contemporanea, la rivista fondata da Renzo De Felice, di cui lo storico è stato allievo, descrive la cornice politica dell’evento. «Nel tardo pomeriggio del 30 ottobre 1922 verso le 19,30 Mussolini salì le scale del Quirinale per sottoporre a Vittorio Emanuele III il suo primo ministero. Era un governo di coalizione non molto diverso da quelli che lo avevano preceduto. Ne facevano parte tre fascisti, un nazionalista, due popolari, due democratici, un demo sociale, un liberale, un indipendente e due militari. Anche la prassi adottata per la soluzione della crisi non era stata stravolta da un punto di vista formale. Eppure qualche cosa era cambiato (…) Il baricentro del sistema politico si spostava verso destra, dando inizio a una pagina nuova della storia d’Italia». 

Due giorni prima della formazione del primo governo Mussolini, il 28 ottobre, c’era stata quella «marcia su Roma» che, in seguito, il fascismo avrebbe elevato a mito fondante della cosiddetta «rivoluzione fascista», scrive Perfetti che considera l’avvenimento il punto culminante di una crisi istituzionale iniziata già all’indomani della Prima guerra mondiale e «culminata con le agitazioni sociali e le occupazioni di fabbriche e campagne che avevano fatto balenare lo spauracchio di una sovietizzazione. Erano nati i fasci di combattimento, poi si era sviluppato lo squadrismo, infine c’era stata la trasformazione del fascismo da rurale a urbano e da movimento a partito. Si erano susseguite le crisi di governo e si era registrato un attivismo delle squadre fasciste a Ferrara e a Bologna che, in seguito, avrebbe fatto parlare di «prove generali» della marcia su Roma. Le cose stavano altrimenti anche se Italo Balbo, all’indomani dei fatti di Bologna, annotò nel diario: «si marcia verso l’epigono rivoluzionario del fascismo che non può essere altro che la conquista del potere». Certo, l’obiettivo di Mussolini era la conquista del potere, ma la sua vera strategia, più che nel progetto insurrezionale, stava neltessere una «tela di ragno» politico-parlamentare».

La tattica di Mussolini

Mussolini «coltivava il proposito di conquistare il potere per via parlamentare percorrendo la strada accidentata delle trattative con tutti i possibili partner di governo. Molti mesi furono da lui occupati a tessere una fitta tela di ragno con i politici più in vista della vecchia Italia liberale, da Orlando a Nitti, da Salandra a Giolitti fino a Facta, mentre, sullo sfondo, pesavano come strumento di pressione le iniziative del fascismo estremistico. Nella sua biografia mussoliniana Renzo De Felice ha ricostruito con grande finezza questo aspetto «diplomatico» della conquista del potere facendo vedere come la vera e propria «marcia su Roma» abbia finito per svolgersi su un tessuto la cui trama era stata pazientemente composta con grande abilità da Mussolini», scrive Perfetti sul Giornale. «Quando si giunse al 24 ottobre 1922, alla grande adunata fascista al San Carlo di Napoli, tutto l’ordito era stato tessuto sul piano diplomatico. Il giorno precedente, anzi, Mussolini, di passaggio a Roma, si era incontrato con Salandra cui aveva esposto la richiesta di cinque ministeri per un eventuale ingresso dei fascisti al governo. Per il capo del fascismo l’approccio con Salandra era importante sia perché questi avrebbe potuto determinare una crisi immediata di governo attraverso le dimissioni del suo uomo di fiducia nella compagine ministeriale sia perché egli avrebbe, comunque, rappresentato un ostacolo per una eventuale e paventata ricandidatura di Giolitti. Ciò conferma che la conquista del potere da parte di Mussolini venne programmata minuziosamente sul piano politico e che la «marcia su Roma», il suo lato militare, ne fu, in realtà, un aspetto accessorio se pur importante, forse anche fondamentale, sul terreno psicologico ed emotivo».
Pareto. “Dite a Mussolini: o ora o mai più”
«In occasione dell’apertura dell’adunata napoletana, cui presenziarono fra gli altri il prefetto e Benedetto Croce, a Mussolini venne consegnata una lettera che Vilfredo Pareto aveva mandato a Giovanni Preziosi. Il grande sociologo ed economista, il solitario di Cèligny, ricordava come i socialisti a suo tempo si fossero lasciati sfuggire l’occasione, mai più ripresentatasi, di prendere il potere e concludeva: «Dite a Mussolini: o ora o mai più».L’esortazione era superflua. Il giorno successivo, Michele Bianchi, rivolto ai congressisti, pronunciò una frase rimasta celebre: «Insomma, fascisti, a Napoli piove. Che ci state a fare?». Era l’annuncio della mobilitazione. Mentre il convegno napoletano proseguiva, Mussolini si spostò a Milano prendendo contatti con esponenti del mondo industriale, mentre iniziava un carosello di frenetici colloqui tra esponenti politici della vecchia classe dirigente liberale, fascisti, nazionalisti: Giolitti, Orlando, De Vecchi, Salandra, Federzoni, Facta. La situazione precipitò tra il 27 e il 28 ottobre: la «marcia su Roma» divenne una realtà con le colonne di squadristi dirette verso la capitale, la proclamazione dello stato d’assedio revocato subito da Vittorio Emanuele III, le dimissioni del governo Facta, l’incarico a Salandra e la sua successiva rinuncia e, infine, la mattina del 29 ottobre, il telegramma del Re a Mussolini con l’invito a formare il nuovo governo».

Vittorio Emanuele III non aveva voluto far intervenire l’esercito per fermare le colonne dei fascisti dirette verso la capitale. Era stata una scelta difficile ma ponderata. Il Re aveva voluto evitare il rischio, se non di una guerra civile, dello spargimento di sangue fraterno, tanto più che era consapevole delle simpatie di larghi settori delle forze armate nei confronti del fascismo. Del resto –  continuiamo a leggere nella ricostruzione di Perfetti –  i generali che egli aveva interpellato, da Diaz a Pecori Giraldi fino al grande ammiraglio Thaon de Revel, si erano tutti espressi, più o meno, allo stesso modo: «Maestà, l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova». E, poi, c’era stata una svolta rassicurante per il futuro delle istituzioni. Grazie alla intermediazione di uno dei capi del movimento nazionalista, Luigi Federzoni, i fascisti avevano assicurato che non sarebbe stato toccato il quadro istituzionale esistente. A quel punto le «camicie azzurre», che si erano mobilitate contro i fascisti in difesa «della Patria e del Re», avevano cambiato fronte e si erano schierati a fianco delle «camicie nere» e, insieme, avevano sfilato davanti al Quirinale. Mussolini era così giunto al potere con una «rivoluzione» che, in realtà, era stata poco più di una grande manifestazione di piazza e che era stata, poi, riassorbita nei canali della consueta prassi istituzionale. Non a caso, il futuro Duce aveva potuto costituire un governo di coalizione, che, in qualche misura, si riallacciava alla tradizione parlamentare dell’Italia liberale».


http://www.secoloditalia.it/2017/06/marcia-su-roma-i-retroscena-rivelati-dallo-storico-francesco-perfetti/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=nl

venerdì 23 giugno 2017

Potrebbe tornare la Monarchia in Georgia?


Così pensa il patriarca Ilia II°

Di Paolo Brambilla - Trendiest

Il parlamentare Eka Beselia ha confermato la notizia e ha aggiunto che l'iniziativa del Patriarca della Chiesa Ortodossa Georgiana è un'idea notevole

Il presidente del Parlamento georgiano, Irakli Kobakhidze, ha incontrato lunedì il patriarca monarchico Ilia II° per discutere l'eventuale ripristino della monarchia nella piccola repubblica che si trova al confine tra l'Europa e l'Asia. In effetti durante la conferenza stampa il parlamentare Eka Beselia ha confermato la notizia e ha aggiunto che l'iniziativa del Patriarca della Chiesa Ortodossa Georgiana è un'idea notevole, anche se ancora da valutare e da far comprendere alla popolazione. Del resto il presidente del Parlamento georgiano, Irakli Kobakhidze, ha affermato che una monarchia potrebbe portare stabilità nella politica georgiana e in generale alla Georgia. Inoltre altri membri del parlamento hanno parlato con calore del restauro della monarchia; ad esempio mr. Volski ha detto alla stampa: "La monarchia porterebbe cambiamenti positivi alla Georgia".

IL REGNO DI GEORGIA
Il Regno di Georgia, conosciuto anche come l'Impero georgiano, era una monarchia medievale che è nata nell'anno 1008 e terminata nel 1490. Ad oggi pare ci siano due pretendenti al trono georgiano: David Bagration Mukhrani della dinastia Bagrationi e Nugzar Bagration-Gruzinsky della Casa di Gruzinsky. Non è chiaro quale rappresentante dei due rami diventerebbe re di Georgia se la monarchia fosse restaurata oggi. Ma c'è anche chi sostiene che il ramo Mukhranski non possa rappresentare la nobiltà georgiana né assumere il titolo di re, mentre esiste un legittimo erede al trono del regno georgiano unito, cioè il Principe Nugzar Bagrationi-Gruzinski.
La realtà è che probabilmente né David Bagration Mukhrani né Nugzar Bagration-Gruzinsky hanno buone probabilità di cingere la corona di ​​futuro re in Georgia. Le vere aspettative, o speranze monarchiche, posano più sul figlio di David, figlio anche della figlia di Nugzar, il che finalmente unirebbe i due rami. Comunque il figlio ha oggi solo sette anni...

UNA TENDENZA DA NON SOTTOVALUTARE
Al di là degli aspetti dinastici o dei facili gossip internazionali, va però considerato con attenzione il fatto che i cittadini che si dichiarano monarchici in Georgia oggi costituiscono un enorme gruppo politico. Nel 2013 è stato condotto un sondaggio fra la popolazione per valutare un'eventuale propensione alla forma monarchica nello Stato: il 78,9% degli intervistati ha considerato con favore il passaggio alla monarchia rispetto all'attuale repubblica.


http://www.affaritaliani.it/costume/potrebbe-tornare-la-monarchia-in-georgia-cosi-pensa-il-patriarca-ilia-ii-486311.html?refresh_ce

giovedì 22 giugno 2017

UMBERTO II "O' REY"

Capita che ad un mercatino dell'antiquariato, davanti ad un ritratto autografo dell'allora Principe di Piemonte, due persone si riconoscano una per essere una scrittrice biografa di Casa Savoia e l'altra, più modestamente, componente uno staff di persone che seguono dei siti dedicati a Re Umberto ed alla Monarchia.
Il risultato è che il nostro blog può in anteprima annunciarvi l'uscita di un nuovo libro su Re Umberto II che promette essere molto interessante e che di sicuro non mancherà nelle nostre biblioteche.
Il nostro saluto alla Signora Enrica Magnani Bosio!
A presto rivederci!



Il 13 giugno 1946 un S.M.95 si alzò dall’aeroporto di Ciampino e, dopo aver tracciato - così vuole la leggenda - un nodo di Savoia nel cielo di Roma, si allontanò verso ovest, portando in esilio Umberto II, Luogotenente del Regno per due anni e Re d’Italia per trentacinque giorni, dopo il risultato del Referendum che vide la vittoria della Repubblica. 
Almeno una metà degli italiani di allora vide partire il Re con profondo rimpianto, con la netta sensazione che fosse stata commessa un’enorme ingiustizia. Bello, elegantissimo, raffinato, noto in tutta Europa come il Prince Charmant, Umberto II, fu il quarto e ultimo Re d’Italia: venti anni di dittatura, una guerra rovinosa, l’8 settembre, la fine del conflitto, il breve regno, l’esilio ordirono la trama di una vita che si trasformò in un’amara vicenda umana e privata, intrecciandosi con gli avvenimenti che concorsero a creare l’Italia di oggi. 
Nel gioco delle parti regnò brevemente su un paese devastato e pagò, per colpe non sue, cercando con coraggiosa determinazione e grande umiltà di tutelare la Monarchia. 
Visse con riservatezza e discrezione, secondo un codice morale e religioso assoluto, gli anni dell’esilio in Portogallo - dove divenne per tutti O’ Rey, il Re - lacerato da un’indicibile nostalgia per la Patria che aveva dovuto lasciare, senza peraltro mai abdicare. 
Partendo salvò l’Italia da una sanguinosa e inutile guerra fratricida: gli italiani, di allora e di oggi, gli devono molto ma forse ancora non lo sanno. 
“Non credo sia certo intenzione di questa aggiornata e pregevole nuova fatica/piacere editoriale della Magnani Bosio raccontare quello che “avrebbe” potuto essere Umberto II come Re d’Italia dopo il 2 giugno 1946. 
Piuttosto far conoscere l’Uomo Umberto di Savoia. Conoscerlo e, giunti alla fine di ricerche e pagine scritte dalla competente e abile biografa della Casa Reale italiana, quasi sicuramente, rimpiangerlo. Principale merito di questo volume, nella ampia ma spesso incompleta letteratura già esistente sul Re Umberto, è proprio quello infatti di restituirci la conoscenza su un Principe giovane (coraggioso e affascinante, a giudicare dalle testimonianze dirette qui raccolte) che si trovò sulle spalle colpe non sue e, insieme, il peso di salvare e perpetuare i destini di una Casata con quasi mille anni di storia.” Grand’Ufficiale On. Dott. Riccardo Garosci Ispettore Nazionale dell’Istituto per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon (Roma)

Formato chiuso cm 21x15. Interno composto da 236 pagine. ISBN: 978-88-956289-7-4 Prezzo di copertina: euro 15,00

domenica 18 giugno 2017

L'80° Genetliaco di Re Simeone II di Bulgaria


Vrana, 16 Giugno: Re Simeone e la Regina Margherita con figli, nuore, genero, nipoti e la sorella Principessa Maria Luisa.


In un comunicato era stato annunciato che non erano invitati i Sovrani e i Principi regnanti nelle 10 Monarchie europee a motivo della impossibilità di organizzare il cerimoniale e la sicurezza. 
Pertanto erano invitati, oltre alla Regina Madre di Spagna, solo le Case Reali (non regnanti) dei Paesi dell'Europa Sud Orientale.


Il francobollo delle Poste Bulgare dedicato a Re Simeone II per la ricorrenza.

venerdì 16 giugno 2017

Intervista all'Ambasciatore Camillo Zuccoli


Esce oggi in Bulgaria, in occasione dell'80° genetliaco di Re Simeone II un film documentario a lui dedicato.
Nel Film vi sono interviste a personalità bulgare ed europee.
Pubblichiamo il testo di quella all'Amb. Camillo Zuccoli, dal 2007 Ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta in Bulgaria.


Eccellenza, Signor Ambasciatore, quali ricordi conserva dei giorni, nel 1996, del rientro di Sua Maestà il Re Simeone II in Patria?

La ringrazio di essere venuto nella mia Ambasciata per questa intervista e, anzitutto, desidero dirle il mio apprezzamento per il film che avete realizzato lo scorso anno su Re Ferdinando, che ho visto con grande interesse perché racconta la vita e l’opera di Re Ferdinando in termini di verità e di giustizia, e per questo le rinnovo i miei complimenti.
Sono italiano - gli Ambasciatori dell’Ordine di Malta appartengono a tante nazionalità -  ed io, la mia famiglia così come milioni di italiani, siamo legati da affetto e devozione alla nostra Famiglia Reale, a Casa Savoia.

Ecco i motivi dei miei sentimenti per la Regina Giovanna, sorella del nostro Re Umberto e mamma di Re Simeone.

Una figura molto amata in Italia negli anni trascorsi prima del matrimonio con Re Boris e poi, purtroppo, nel lungo esilio quando tante volte tornava tra noi.

Queste sono state le ragioni affettive che mi hanno portato a Sofia il 24 maggio 1996 per essere presente al ritorno – dopo 49 anni e 10 mesi – di Re Simeone II.

Una esperienza emotivamente molto forte e indimenticabile.

Non immaginavo cosa stesse per accadere, non conoscevo la situazione bulgara come potrei dire di conoscerla oggi dopo tanti anni che sono Ambasciatore. Quello che accadde, che tutti i bulgari ricordano perfettamente, fu un evento di portata storica: il Re ritornava nella sua Patria alla quale aveva dedicato ogni giorno della sua vita nei 50 anni di esilio.

Mi trovai in mezzo ad una immensa folla, una manifestazione spontanea di Popolo che, in festa, dava il bentornato al suo Re.

Quello che vidi, che tutti videro, fu riportato con molto rilievo dai giornali il giorno dopo; ricordo un grande articolo sul "Corriere della Sera" del celebre giornalista italiano Indro Montanelli; ma tutta la stampa internazionale, da "Le Monde" a tanti altri, diede risalto a quel ritorno del Re.

Quel giorno camminai per ore in mezzo ai bulgari che lo acclamavano e, dentro di me, pensavo a cosa il Re, con accanto la Regina Margherita, stesse vivendo nel suo cuore, nel suo animo.

Credo che, nel XX Secolo, sia stato un evento quasi unico, insieme alle calorose accoglienze, in Romania, quando tornò Re Michele.

          Le ho detto i motivi della mia presenza allora e quali sono i miei ricordi oggi.

I motivi di un italiano che, legato alla propria Dinastia, per questi sentimenti, per questo affetto ha voluto essere presente e condividere con i bulgari quel giorno storico quando è stata ricucita una ferita non provocata dalla libera volontà del Popolo bulgaro ma generata dalla violenza, dalla forza imposta da armi straniere e, poi, da un regime che è durato 45 anni i cui risultati sono evidenti a tutti, in Bulgaria e negli altri Paesi sottomessi.

Sappiamo della lunga tradizione di relazioni tra l’Ordine di Malta e la nostra Famiglia Reale. Che cosa ci può dire di queste relazioni e in cosa consistevano?

Come lei sa, l’Ordine di Malta ha quasi mille anni - nel 2048 saranno mille anni dalla fondazione - e nella sua storia vi sono sempre stati, tra i suoi protagonisti e i suoi membri, Sovrani e Principi delle Case Reali cristiane d’Europa.

Sia in Italia sia in altri Paesi europei, i Sovrani sono stati membri dell’Ordine di Malta per una ragione molto semplice: l’Ordine di Malta ha una missione umanitaria, di carattere ospedaliero, sociale, assistenziale, e Principi e Re hanno avuto sempre una sensibilità molto particolare, come cristiani, come cattolici e come Principi, verso i temi umanitari e sociali.

Per queste ragioni, in Italia e negli altri Paesi  europei, sono sempre stati membri attivi dell’Ordine e, con il loro prestigio e il loro impegno, hanno dato un forte impulso alle attività dell’Ordine.

In Bulgaria è avvenuta la stessa cosa nel senso che Re Ferdinando, il costruttore della Bulgaria moderna - dico così perché basta girare per le Città bulgare e guardare i bei palazzi e giardini...tutti portano il pensiero a Re Ferdinando -  era un membro dell’Ordine come la Regina Giovanna che era anche Terziaria Francescana perché legata a San Francesco d'Assisi, la Città dove sposò il Re Boris.

Dunque è una tradizione che unisce le Case Reali cristiane all’Ordine di Malta e questa tradizione si rinnova continuamente: nel 2006, quando il nostro compianto Gran Maestro Frà Andrew Bertie venne in visita di Stato a Sofia, Re Simeone entrò nell’Ordine di Malta con il più alto rango riservato ai Sovrani e ai Capi delle Case Reali cristiane.

Nell’Ordine vi sono anche la Regina Margherita e i Principi Kubrat e Kostantin e, dunque, nelle generazioni si tramanda questa bella tradizione di essere membri attivi dell’Ordine di Malta perché si condividono le sue finalità, cioè aiutare chi ha bisogno che è la radice della nostra missione da mille anni.

Noi siamo cristiani ma siamo, ovviamente, aperti a tutte le esigenze umanitarie che ci sono nel Mondo senza mai domandare, a chi possiamo aiutare, di che fede è, di che idea politica è, di che condizione economica è.

La nostra mano è tesa, senza distinzioni, a tutti coloro che hanno bisogno.

L’aiuto e il sostegno dei Sovrani e dei Principi sono importanti perché incoraggiano e danno un impulso ulteriore alle nostre attività.

Il 1 gennaio 2007 la Bulgaria è stata accolta come membro con tutti i diritti nell’Unione Europea. Che cosa è successo prima di questo atto importante per l’Europa e per la Bulgaria?

Le dirò non la mia opinione personale ma l’opinione condivisa dagli osservatori della politica bulgara a livello nazionale e internazionale.

La Bulgaria ha un passato glorioso, tra i più antichi e importanti d’Europa se pensiamo che 1200 anni orsono era già un Regno che accreditava Ambasciatori all’estero quando quasi tutti gli Stati attuali non esistevano; quindi la storia bulgara è qualche cosa di veramente molto significativo nella vita dell’Europa.

Ma all’Europa di oggi, alla famiglia dei popoli europei, mancava un elemento fondamentale: la Bulgaria.

Quello che ha fatto Re Simeone, quando è stato eletto Primo Ministro, è riconosciuto da tutti: con la sua autorevolezza, con l'esempio di una vita intera dedicata al servizio del suo Paese e del Popolo bulgaro, ha aperto alla Bulgaria le porte dell’Europa.

Non voglio avventurarmi ad immaginare la situazione e i suoi sviluppi, con gli eventi che abbiamo vissuto in questi dieci anni, se non ci fosse stato lui.

I fatti sono che, grazie al suo impegno e alla sua credibilità internazionale, le porte dei Paesi europei si sono spalancate.

Tecnicamente la Bulgaria aveva problemi non ancora risolti ma a volte, come abbiamo visto in altre occasioni della storia europea, ad esempio la riunificazione tedesca,  i problemi devono essere superati con il coraggio e con la volontà di gettare – come si dice – il cuore oltre l’ostacolo.

Questo è stato possibile alla Bulgaria -  e anche alla Romania, che, come noto, era legata al "destino" della Bulgaria - perché gli impegni, i propositi e le assicurazioni di Simeone Primo Ministro, in tutte le capitali europee, hanno avuto un peso decisivo.

Fa piacere constatare che questo viene riconosciuto: a gennaio ho assistito, qui a Sofia, ad una celebrazione per i 10 anni dell’ingresso della Bulgaria nella Unione Europea e sono stato contento di ascoltare dal Presidente Plevneliev – allora era ancora in carica –  davanti ad una platea di ambasciatori, ministri, parlamentari, giornalisti, dire queste parole:  “Maestà, la Bulgaria le deve l'ingresso nell’Unione Europea”.

E il Re, con la generosità e la sensibilità che tutti conosciamo,  ha risposto : “È stato un lavoro di squadra”.

È certamente vero, ma nelle Capitali europee il valore aggiunto del suo prestigio e della sua credibilità ha consentito di fare un salto di qualità e di superare i problemi esistenti con una decisione politica che è stata molto importante e molto positiva,  per la Bulgaria e per l’Europa.

Cosa sarebbe avvenuto, con la lunga crisi economica e sociale di questi anni che ha colpito quasi tutti i Paesi, se la Bulgaria non fosse entrata nell’Unione?

Con i “se”  non si fa la storia; contano i fatti e i fatti sono questi: il 25 aprile 2005 Re Simeone ha firmato l’ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea, il 1° gennaio 2007 esso si è realizzato e porta un solo nome, quello di Simeone II.