NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 30 aprile 2019

25 Aprile 45: considerazioni impolitiche

del Presidente del Circolo Rex Domenico Giglio

Il 25 aprile fu la data della insurrezioni di tutte le forze patriottiche e partigiane deciso dal CLNAI e dal comando militare dello stesso, avendo le forze alleate, delle quali facevano parte anche i Gruppo di Combattimento del Regio Esercito, sferrato l’offensiva definitiva contro le linee germaniche, sfondandole ed avanzando su tutto il fronte, dal Tirreno all’Adriatico, raggiungendo Bologna e puntando verso la pianura lombardo-veneta, In realtà le operazioni belliche terminarono alle ore 14 del 2 maggio, dopo la resa delle truppe tedesche, firmata il 29 aprile nelle Reggia di Caserta.
La data quindi non celebra, come il 4 novembre 1918, la fine delle ostilità, ma, diciamo, lo slancio finale, che avrebbe portato alla completa liberazione del territorio italiano, anche se Trieste e l’Istria videro l’arrivo, non certo liberatorio dei comunisti jugoslavi, prima che vi giungessero gli anglo-americani a ristabilire, parzialmente, la situazione,
Nelle celebrazioni susseguitesi dal 1949, dopo quella iniziale del 25 aprile del 1946, si sono ripetute e si ripetano ancora alcune affermazioni retoriche, per dare lustro alla data, quale ad esempio quella di aver ristabilto la democrazia e di aver dato i natali alla repubblica, affermazioni entrambe false, La prima del ristabilimento delle istituzioni parlamentari con le relative elezioni politiche, risale, non dimentichiamolo, ad un Decreto del Governo Badoglio (RD.L. del 2 agosto 1943-n.175)., dove si stabiliva procedere alla elezione della Camera dei Deputati, quattro mesi dopo la fine della guerra, decreto che fu sostituito con altro D.L.L. del 25 giugno 1944 – n.141, dove era precisato che, sempre dopo la liberazione del territorio nazionale, si sarebbe proceduto alla elezione non più della Camera dei Deputati, ma di una Assemblea Costituente. Quindi nulla mutava od aggiungeva a queste decisioni la sollevazione del 25 aprile. Il ristabilimento della democrazia era già scritto e deciso, e nell’Italia Centro Meridionale, dal giugno 1944 ( liberazione di Roma ), la vita politica ed i partiti avevano ripreso la loro attività,si pubblicavano giornali, si tenevano comizi.
La seconda affermazione, relativa alla repubblica, oltre che falsa era ed è anche offensiva per tutti coloro che parteciparono direttamente od indirettamente alla guerra di liberazione per fedeltà al giuramento prestato per il “bene indissolubile del Re e della Patria”, E questi furono centinaia di migliaia, a cominciare dal ricostituito Regio Esercito, dalla Regia Marina ed Aeronautica, dai Reali Carabinieri,dalle formazioni patriottiche ( non partigiane), sorte subito dopo l’8 settembre 1943, di cui solo a titolo indicativo e non esaustivo ricordiamo le fiamme verdi di Martini Mauri e la “Franchi” di Edgardo Sogno,ed i loro caduti, tra i quali furono generali, ammiragli ed altri alti ufficiali, quando non risultano invece esservi nessun esponente dei partiti politici del CLN, nascosti o protetti in chiese e monasteri. Per precisione e correttezza ne ricordiamo l’unico caduto, Bruno Buozzi, sindacalista e già deputato socialista,fucilato dai tedeschi, il 4 giugno 1944, in località “la Storta”,sulla Via Cassia,quando stavano fuggendo da Roma, ma insieme con lui, ribadiamo, furono fucilati il generale Dodi, ed altri ufficiali, Con l’occasione credo sia opportuno ricordare che Bruno Buozzi, aveva accettato di collaborare con il Governo Badoglio, dopo il 25 luglio, ricevendo l’incarico commissariale degli ex sindacati fascisti.
Abbiamo detto partecipare anche “indirettamente” alla guerra di liberazione, e mi riferisco alle centinaia di migliaia di soldati, oltre 600.000, presi prigionieri dai tedeschi, dopo l’8 settembre, e rinchiusi, in condizioni disumane, nei campi di concentramento, veri lager, E quando agli stessi fu proposto da emissari della repubblica sociale di aderire alla stessa e tornare così in Italia, oltre il 90% rifiutò l’offerta per quel famoso giuramento, di cui oggi si parla, a denti stretti, dimenticando sempre e volutamente a chi fosse prestato.
Sempre in merito all’offesa recata ai monarchici che avevano partecipato alla vera Resistenza ricordiamo che nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, le provincie di Cuneo, Asti e Bergamo dove vi erano stati importanti nuclei di patrioti, dettero la maggioranza alla Monarchia, come la dette Alba, vilmente chiamata “repubblica di Alba”, le cui vicende furono descritte dal “badogliano” Beppe Fenoglio, in un grande romanzo storico che nessuna importante casa editrice ha più ripubblicato,per quella “congiura del silenzio”, su quanto di positivo abbiano fatto i monarchici ed i Savoia.
Domenico Giglio

domenica 28 aprile 2019

Ecco perché la Festa della Liberazione non dovrebbe avere colori politici ma una Bandiera… quella Sabauda.



Ieri guardavo con attenzione le immagini delle Piazze Italiane, in festa, per celebrare quella liberazione che una buona metà dei giovani presenti alle relative manifestazioni non comprende neanche lontanamente.
Ho trovato accecante la presenza di soli rappresentanti di una sinistra italiana che, usurpando un pezzo di storia (della Nostra storia), sta consegnando alle generazioni a venire una visione di quella che fu la resistenza ben lontana dalla verità.
Mi fanno pensare le immagini di quei ragazzi con le magliette “Chi tace, acconsente” corredate dallo stemma di Casa Savoia.
Ragazzi che non sanno, e a cui non è stato spiegato, il ruolo che ebbe Casa Savoia nel periodo più buio della nostra storia; non sanno, che un monarca è super partes; non sanno che la Festa della Liberazione fu fortemente voluta da Re Umberto II e fu lui a indirla; non sanno, e alcuni forse non vogliono sapere, di quanto la Regina Maria José si impegnò per supportare i partigiani sia con beni di prima necessità che economicamente durane il suo esilio.



Mi chiedo se oltre il ricordare i partigiani comunisti ieri non avremmo potuto ricordare anche i molti, anzi moltissimi, partigiani monarchici che diedero la vita per la nostra libertà.
Tra i tanti vorrei ricordare Edgardo Sogno, eroe della resistenza, antifascista, anticomunista e convinto monarchico e Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, brutalmente ucciso nelle Fosse Ardeatine.


Mi auguro che, un giorno, qualcuno abbia la forza e il coraggio di raccontare questa storia; che è la storia d’Italia ed è la storia di noi tutti.
Perché, come diceva un Re coraggioso (che combatté già dal 1943 contro il regime fascista assieme alle forze alleate), l’Italia… innanzitutto. 

Pietro Orso Baiardo Virgadamo


venerdì 26 aprile 2019

Pubblicato il Diario Inedito di Federzoni, nel volume saggi del Prof Mola


L'Editore Angelo Pontecorboli (Firenze) ha pubblicato il volume "Luigi Federzoni - Diario Inedito (1943-1944)" a cura di Erminia Ciccozzi, con saggi dello storico cuneese Aldo A. Mola e Aldo G. Ricci.

L'opera esce con l'egida della ASSGG unita all'Archivio Centrale dello Stato (al quale venne donato l'originale del diario), all'Istituto Lino Salvini (Firenze), alla Associazione di studi storici Giovanni Giolitti (Cavour) e all'Associazione di studi sul Saluzzese e alla Consulta dei Senatori del Regno.
Con la promozione della pubblicazione la ASSGG propone all'attenzione la complessa figura e l'opera di Luigi Federzoni (Bologna,1878 -Roma,1967), scrittore, deputato, ministro delle Colonie (due volte) e dell'Interno, presidente della Camera Alta e di Istituzioni culturali apicali, artefice del voto con il quale il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo chiese al Re di esercitare tutti i poteri previsti dallo Statuto Albertino.
L'opera (la cui presentazione verrà curata anche dalla Consulta) documenta anche le fitte relazioni tra Federzoni e Re Umberto II nel dopoguerra. Oltre che nelle librerie (15 x 21, pp. LXXVI+574, euro 24,50) può essere ordinata direttamente all'Editore: via Vittorio Emanuele II, n.115, 50134 Firenze, info@pontecorboli.it.



https://www.cuneocronaca.it/pubblicato-il-diario-inedito-di-federzoni-nel-volume-saggi-dello-storico-cuneese-mola

mercoledì 24 aprile 2019

Il libro azzurro sul referendum - XIII cap - 9 -14


Ordine del giorno del Governo
Voto contrario di Cattani: il dissenso inserito a verbale
(notte dell’11 giugno 1946) 


« Il Consiglio dei Ministri in considerazione della proclamazione dei risultati del referendum, fatta a termini di legge dalla Suprema Corte di Cassazione, e che assicura la maggioranza della repubblica, si è riservato di decidere nella seduta di oggi martedì sui provvedimenti concreti che ne derivano. Il Consiglio confida nel senso di civismo di tutti gli italiani e fa appello al Paese che si è dimostrato nella sua maggioranza repubblicano - perché nella sua forza e nel suo diritto non si presti a provocazioni di elementi faziosi nella sicurezza che nessuno potrà strappargli la vittoria raggiunta nella legalità della consultazione popolare della quale il Governo rimane pienamente garante. In conformità della precedente deliberazione la giornata di oggi, martedì 11 giugno, è considerata festiva a tutti gli effetti ».


Minaccia su Trieste e all’interno - 12 giugno 1946

Da fonte alleata il Gen. Infante riferisce che il rappresentante di una potenza straniera si è fatto tramite fra un partito estremista e il dittatore Tito per provocare un colpo di mano su Trieste nel giro di ventiquattro ore, ove la Corona reagisca all’o.d.g. del governo con un irrigidimento che porti alla rottura. A questa minaccia se ne è aggiunta un’altra : l’intervento armato di una Potenza lungo il confine alpino: si tratta di due azioni che saranno sincronizzate con lo sciopero generale per cui la C.G.I.L. è prontissima...

Il Sovrano in quei giorni più volte ripete « non posso accollare alla Monarchia la responsabilità del sangue... ».

Bandiera Repubblicana 12 giugno 1946

« All’insaputa dell’On. De Gasperi venne alzata la bandiera repubblicana; più tardi fu tolta. Bandiera monarchica al Quirinale, bandiera repubblicana alla Torre delle Milizie ».

Manlio Lupinacci così commentò: « Forse la bandiera più vecchia avrà fatto intendere all’altra, in quel dialogo sul vento, che così senza stemma Sabaudo sul bianco, essa era soltanto la bandiera di altra repubblica. E che celebrare la repubblica italiana con l'esotico vessillo di una repubblica che non gode gran fama di ordine e stabilità, non era cosa opportuna e indovinata ».



Lettera del Re all’On. De Gasperi

« Signor Presidente, ritengo opportuno confermarle ancora una volta la mia densa volontà di rispettare il responso del popolo italiano espresso dagli elettori rotanti, quale risulterà dagli accertamenti del giudizio definitivo della Suprema Corte di Cassazione chiamata per legge a consacrarlo. Poiché questo proposito è di certo comune a tutti, come il desiderio di apportare il massimo contributo alla pacificazione degli spiriti, sono sicuro che possiamo ancora continuare in quella collaborazione intesa a mantenere quanto è veramente indispensabile: l’unità d’Italia.

Accolga, signor Presidente, i miei sentimenti.
Umberto »
Roma, 12 giugno 1940.


Discorso dell’On. Romita a Piazza del Popolo

«Cittadini della repubblica italiana, avrei dovuto parlare in qualità di ministro ufficialmente delegato dalla repubblica italiana. Mi limito invece a parlare come ministro del popolo repubblicano italiano, perchè se la repubblica è un fatto ormai acquisito e una realtà storica, manca ancora la registrazione dell’anagrafe politica... ».


L’Ambasciatore inglese e l’Ammiraglio Stone

L’On. De Gasperi ha alcuni colloqui al Viminale: l'Ambasciatore Inglese Charles e l'Ammiraglio Stone dichiarano che bisogna aspettare la decisione definitiva della Suprema Corte. 

domenica 21 aprile 2019

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

Il nostro regalo per la Santa Pasqua agli amici che ci seguono.

Poche parole del Re a proposito di una trasmissione televisiva del 1979, "Il piccolo Re", titolo che non piacque al Sovrano in esilio, condotta da Nicola Caracciolo, lo stesso giornalista che lo aveva intervistato nel 1976, con grande rispetto, in occasione dei trenta anni della sua partenza dall'Italia.




Chiediamo scusa per l'aver diradato i post in questo ultimo mese ma l'ostracismo improvviso da parte di facebook ci ha creato notevoli difficoltà nella loro diffusione. Ostracismo apparentemente terminato ma siamo sicuri di essere sorvegliati speciali.

A tutti i lettori Buona Santa Pasqua!
E buona lettura!


mercoledì 17 aprile 2019

Caporetto, risponde Cadorna

Caporetto, risponde Cadorna è il titolo del libro di Carlo Cadorna, in uscita in questi giorni nelle librerie, edito da Bcsmedia, che il 7 Aprile scorso è stato presentato a Pallanza (Verbania), in occasione della giornata dedicata alla figura del Generale Luigi Cadorna, suo nonno.
Il libro, con l’autorevole prefazione del Prof. Aldo A. Mola, direttore dell’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti, ripropone in chiave critica le “Pagine polemiche” del Comandante supremo dell'esercito italiano durante la Prima guerra mondiale, scritte nel 1926 in risposta alla Commissione d’inchiesta e pubblicate successivamente nel 1950 da Garzanti, tramite il figlio Raffaele, per volontà dello stesso Generale.
Con l’aiuto del nipote Carlo, si potranno comprendere meglio le parole del Generale Cadorna, di carattere strettamente militare e riferite esclusivamente a quelli che erano i suoi compiti esecutivi, l’organizzazione dell’esercito e la strategia, attualizzate alla storiografia moderna, per dare finalmente una corretta interpretazione di come sono andati i fatti a Caporetto.
La Storia, ha precisato l’autore, si fa contestualizzando gli avvenimenti dell’epoca nella quale si sono svolti i fatti, così come emergono dai documenti.
Come dimostra il documento inedito del Generale Dal Fabbro, scritto nel 1922 su richiesta del Capo Ufficio Storico dell’esercito, Gen. Alberti, che con il suo giudizio tecnico sulla visione strategica del "Capo Supremo" chiude definitivamente una polemica tuttora viva.
Con questo libro, la figura e l’opera di Luigi Cadorna sono affidate alla storiografia, al di là di ogni disputa contingente.
Un primo positivo segnale di inversione di tendenza.
Il libro viene distribuito in tutte le librerie online, oltre che su Amazon e su store.farsiunlibro.it

CAPORETTO - Risponde Cadorna
di Carlo Cadorna
ISBN 978-88-96480-51-9
Pagine 474 - copertina rigida
contiene mappe storiche
Prezzo 32,00 euro

Per info: 06 92939175
info@bcsmedia.it

Ai seguenti link è possibile scaricare la biografia dell'autore con un breve abstract del volume:
http://www.bcsmedia.it/public/biografia.pdf
http://www.bcsmedia.it/public/abstract.pdf

DALL ‘IMPERO DELLO ZAR ALLA FEDERAZIONE RUSSA SORVOLANDO L’UNIONE SOVIETICA

di Domenico Giglio
La chiara simpatia che alcune parti politiche, giunte oggi al Governo, nutrono per il presidente russo Putin, non so quanto provenga dalla conoscenza della storia russa da Pietro il Grande ( 1672-1725) ad oggi, intrecciata con quella europea, quanto dall’autoritarismo dell’attuale leader, sia pure derivante dal voto popolare ottenuto in elezioni abbastanza regolari . Che questo atteggiamento contrasti con la posizione ufficiale del governo italiano fino ad oggi e con le sanzioni economiche verso la Russia non deve fare velo al nostro giudizio perché che l’odierna Russia vada recuperata all’Europa, nel nostro interesse, credo sia una esigenza storica, tanto più urgente, anche da un punto di vista strettamente numerico, in quanto i suoi circa 150 milioni di abitanti, con il suo P.I.L., andrebbe a sommarsi ai 515 milioni dell’Unione Europea, in evidente crisi demografica, surclassati dall’Africa e l’Asia, con i due giganti Cina ed India, ciascuno con oltre un miliardo di abitanti, e facenti parte di quel gruppo di paesi, il BRICS, le cui economie sono pure in sviluppo.
Guardare anche oggi sulla carta geografica la Russia estesa per migliaia di chilometri con la Siberia confinante in particolare con la Cina, anche se la popolazione di quella vasta area è meno di un terzo di quella complessiva, ed anche l’economia è ancora poco sviluppata ed i trasporti terrestri si reggono ancora sulla centenaria Transiberiana, potrebbe dare all’Europa una certa tranquillità, anche sul terreno economico se avvenisse un maggiore sfruttamento di parte di queste enormi estensioni. Ma recuperare e reinserire la Russia, fermo restando le nostre tradizionali alleanze e la NATO,sarebbe il ritorno a quel grande concerto europeo dove l’impero zarista ebbe, fino al tragico 1917, un ruolo estremamente importante toccando il culmine nel 1815 con la sconfitta di Napoleone, l’ingresso a Parigi dell’Imperatore Alessandro I ( 1777-1828 ) ed il successivo Congresso di Vienna, per non parlare delle sue vittoriose guerre contro l’Impero Ottomano, che portarono alla indipendenza della Grecia, della Serbia, della Bulgaria,dell’Albania e della Romania, tutte via via sottratte al dominio turco nel corso dell’ottocento. Ruolo imperiale e di patrocinio su tutto il mondo slavo ed ortodosso, che fu in parte bloccato dalle altre potenze europee, vedi la guerra di Crimea, nella quale seppe intelligentemente inserirsi anche il Regno di Sardegna, gelose di una eccessiva espansione russa e di un suo sbocco nel Mediterraneo, ma che dopo il 1878 ed il Congresso di Berlino assicurò all’Europa fino al 1914, 36 anni di pace e di sviluppo in tutti i settori.
Ed in questo periodo coincidente con il XIX secolo, la sua cultura, specie nel campo letterario e musicale si intreccia con le altre culture europee, avendo autori la cui fama oltrepassa le frontiere ed i suoi Puskin (1799-1837), Gogol’ (1809-1851), Turgenev ( 1818-1883), Dostoevskj (1821-1881 ), e poi Tolstoi (1828-1910) e Cechov ( 1860-1904), forse superano anche i grandi contemporanei inglesi, francesi e tedeschi, come romanzieri e commediografi, ed egualmente i Glinka (1804-1857), Borodin (1833-1887 ), Balakirev (1837-1910 ),Cajkovskj (1840-1893), Musorgskj ( 1839-1881 ), e poi Rimskj – Korssakov (1844-1908) e infine Stravinskij (1882- 1917) nel campo musicale si battono quasi alla pari con i musicisti francesi, italiani e tedeschi.
 Solo con la caduta dello Zar ed il sanguinoso avvento del comunismo, la Russia divenuta Unione Sovietica, esce dal concerto europeo, ne diventa estranea, anzi avversaria, costituisce una alternativa ed una minaccia alle altre potenze ed anche quando deve nuovamente allearsi nel 1941 con Regno Unito e Stati Uniti, per respingere l’offensiva hitleriana, dopo l’ alleanza del 1939, e vinta la guerra allarga il suo potere dispotico sull’Europa Orientale compreso anche parte della Germania ponendosi dovunque nel mondo,come rivale degli USA, divenuti potenza egemone dell’Occidente .
La caduta del regime sovietico, nel 1991, perciò ha riaperto la possibilità di questi rapporti, anche se dobbiamo riconoscere la difficoltà, dopo 74 anni di comunismo, di una vita parlamentare e democratica eguale a quella dei principali paesi europei . Inoltre per capire il suo attuale nazionalismo è da considerare lo “shock” subito dal normale cittadino russo, dopo il 1991, con la libertà ed indipendenza ripresasi dalle tre repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia,Lituania, che avevano vissuto appena un ventennio da stati sovrani dal 1918 al 1939, la indipendenza di alcuni antichi stati caucasici cristiani, nonché delle repubbliche mussulmane, vecchio frutto delle conquiste zariste, il distacco successivo, ancor più doloroso, della Ukraina e le rivolte terroristiche e secessioniste della Cecenia, di fronte alle quali non poteva non esserci una durissima repressione da parte del governo.
E’ invece da apprezzare e sottolineare che in Russia, caduto il regime comunista, i resti della Famiglia Imperiale Romanov,lo Zar Nicola II, la Zarina Alessandra Fedorovna, lo Zarevic Alessio,di 14 anni, e le quattro principesse Olga, Tatiana, Maria ed Anastasia, sono stati dissepolti da Ekaterinburg, dove erano stati trucidati dai bolscevichi il 17 luglio 1918 e solennemente traslati e sepolti a San Pietroburgo, nella Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo,evento che andrebbe ricordato a questi loro amici italiani.
Su di un altro piano a non facilitare i rapporti si sono aggiunte più recentemente il distacco della Crimea dall’Ukraina, la lacerazione nella stessa Ukraina tra fautori della indipendenza e nostalgici dell’antica unione, alcuni attentati alla vita di oppositori della attuale presidenza, ma tutto questo se non va sottovalutato e se deve essere rimarcato, non può e non deve impedire il discorso a più largo raggio per il ritorno a rapporti amicali con la Russia, che non deve sentirsi assediata ad Occidente quando ha da sorvegliare migliaia di chilometri di frontiere ad Oriente.
Domenico Giglio
P.S. Il recente incontro ad Helsinski Trump- Putin potrebbe essere un inizio di distensione nella quale l’Unione Europea dovrebbe inserirsi

domenica 14 aprile 2019

giovedì 11 aprile 2019

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA REX


“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

A CONCLUSIONE DEL 71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
***
“Grazie alla vittoria italiana e la conseguente dissoluzione dell’impero austro-ungarico , nasce un nuovo stato multietnico e multi religioso le cui ambizioni verranno a contrastare le nostre legittima aspirazioni. 
Da qui trattative e compromessi per raggiungere un equilibrio nell’Adriatico”

Su questi temi
Domenica 14 aprile alle ore 10.30 , parlerà il

Professore MICHELE D’ELIA

 “ 1-12-1918: 
NASCE IL REGNO DEI SERBI, DEI CROATI E DEGLI SLOVENI”

Sala Italia presso Associazione “Piemontesi a Roma”


Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) 
e 16/B (ingresso con ascensore) 
raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” 
ed autobus “910”,”223”, “53” e “52”


INGRESSO LIBERO



Io difendo la Monarchia - cap VII - 2


Se Mussolini si esprimeva con tanta insolenza di linguaggio all’indirizzo del Sovrano è evidente che questi non approvava e non apprezzava più l’indirizzo politico del Primo Ministro. Ma poteva in quel momento liberarsene? E con l'appoggio di quale corpo politico? -Se almeno il Senato avesse fatto un solo gesto di allarme se non proprio di opposizione!
Ma qualcuno incalza: « Si poteva per uno scrupolo costituzionale fare arrivare il popolo alla guerra? ». Non si trattava neppure di questo. Mussolini fìngeva di non voler la guerra. Meglio ancora: Mussolini era oscillante ed oscuro: un giorno voleva distruggere la Francia, un giorno voleva salvarla. Una mattina affermava la sua fedeltà all’alleanza con la Germania e la sera dello stesso giorno, al primo annuncio sgradevole, bestemmiava contro la Germania e prometteva che a suo tempo avrebbe saldato anche quel conto. Nell’estate del 1939 era però quasi costantemente incline alla pace. Si legga nel diario Ciano alla data del 9 agosto: (Erano giunte nei giorni precedenti notizie gravi e allarmanti sui preparativi tedeschi da parte dell’ambasciatore a Berlino Attolico e dell’addetto militare generale Marras. Ciano aveva domandato di vedere Ribbentrop per discutere con lui un progetto di Mussolini per una conferenza mondiale della pace). Ciano scrive: « g agosto — Decido di partire domani sera per Salisburgo. Il duce è ansioso di dimostrare ai tedeschi con documenti che in questo momento la guerra sarebbe una follia. La nostra preparazione non è tale da permetterci di essere sicuri della vittoria. Le probabilità sono del cinquanta per cento pensa il duce Fra tre anni saranno dell ottanta per cento ». 
Chi faceva questi calcoli e che fondamento avevano? Ciano va a Salisburgo (n-12 agosto 1939) e apprende che i tedeschi non gradiscono nessuna  proposta di conferenza e nessun'intervento diplomatico da parte nostra.

Essi sono decisi alla guerra e lo dicono apertamente (1). I tedeschi parlano di Danzica e del corridoio, ma in realtà essi vogliono ben altro : essi vogliono la guerra per prendere la rivincita che attendevano da 20 anni. Essi hanno preparato la guerra totale per il dominio dell'Europa e del mondo. Tutte le memorie e le testimonianze dell'epoca concordano su questo punto. Durante la crisi dell'agosto 1939 non si può accusare Mussolini di volere la guerra. Alla fine del mese ripeterà il tentativo dell'anno prima a Monaco, ma questa volta inutilmente.
Il tre settembre riunirà il Consiglio dei Ministri per annunciare solennemente «al popolo italiano che l'Italia non prenderà l'iniziativa di operazioni belliche ».
Sulla condotta di Mussolini nei nove mesi della neutralità dovrebbe pronunciarsi assai più uno studioso o uno specialista di malattie mentali che un cultore di studi storici e politici. Nello stesso giorno egli passa dall'uno all'altro estremo. Vorrebbe la vittoria tedesca, ma già nel primo mese della guerra è geloso dei successi tedeschi in Polonia e vorrebbe che essi si fermassero.

L'accordo tedesco con la Russia lo rende furioso. Vuol conservare la pace, ma odia la parola neutralità perché li ricorda il neutralismo giolittiano e il suo antico interventismo. Detesta la Francia ma vorrebbe che la linea Maginot facesse sanguinare fortemente i tedeschi.

Insomma è un uomo che ha smarrito il suo equilibrio morale e intellettuale: soprattutto ha smarrito la fiducia nel suo destino. Sente che la sua ora sta per passare. 
Egli non agisce sulla base di un piano attentamente preparato e logico in tutte le sue parti, ma obbedisce a impulsi discordanti e molteplici. Cerca di aggrapparsi all’intuizione e all’istinto poiché la ragione degli avvenimenti gli sfugge. Sono questi tra il 1938 e il 1943 gli anni della lucida follia (2). Questo giudizio generale su Mussolini è venuto però maturando lentamente nella coscienza comune, solo dopo l’inizio della guerra. Il suo prestigio era giunto così in alto tra il 1926 e il 1938 che resisteva agli attacchi della voce pubblica. Si aggiunga la scarsità e tendenziosità delle informazioni, il regime di censura e il regime di stampa e si comprenda la difficoltà di demolire Mussolini nei pochi mesi trascorsi fra il settembre 1939 e il giugno 1940. A queste difficoltà interne si aggiunsero le sciagurate vittorie tedesche di Polonia, di Norvegia e di Francia. La forza germanica pareva irresistibile ; gli eserciti e le nazioni crollavano come castelli di carta sotto l’impeto delle panzer divisionen. Molti italiani pensavano che Mussolini avesse avuto ancora una volta ragione nel puntare sul cavallo tedesco. Tutti coloro che guardavano alla guerra con I'esperienza del 1914; e giuravano sull’eccellenza dello Stato Maggiore francese e sul tradizionale valore di quelle truppe; tutti coloro che ricordavano la battaglia della Marna e la rivincita di Joffre e di Gallieni, tutti coloro che avevano visto nei documentari parigini le formidabili difese della Maginot e sapevano che i francesi avevano speso dopo il 1919 alcune centinaia di miliardi per la loro difesa e gli inglesi, a differenza del 1914, avevano predisposto tempestivamente la loro coscrizione obbligatoria e la mobilitazione ed erano rimasti per nove mesi con le armi al piede: tutti trattennero il respiro alla notizia dell’offensiva tedesca il 10 maggio del 1940. Ma già quattro giorni dopo si aveva la trouée Sédan. E poi la penetrazione inesorabile, l'Olanda e il Belgio cadevano; gli inglesi erano respinti al mare, ributtati inermi nella loro isola. Parigi occupata dopo trentaquattro giorni di offensiva; il popolo francese tra lo sbigottimento e il terrore divenuto quasi apatico: il governo in fuga, l'esercito sbandato e, dove era ancora intatto, incapace di entrare in azione: Weygand, ultima speranza
del genio militare gallico, sfiduciato per sè e per gli inglesi (« I tedeschi — egli giudicò — torceranno il collo all'Inghilterra in quindici giorni come ad una gallina »). 

Gli Stati Uniti sembravano allora terribilmente lontani. Gli amici della Francia, della libertà, della democrazia, del pensiero e del genio dell’Occidente offrirono in quei giorni indicibili pene. Ascoltarono i notiziari inglesi con avvilimento e con impotente furore ansiosi di apprendere la notizia di un colpo d’arresto in una battaglia di incontro; poi furono vinti dall’abbattimento e si abbandonarono ad un cupo fatalismo. I pochi fascisti convinti e i molti interessati nella dittatura furono pronti a rialzare la testa: la massa dei creduli, dei deboli, degli incerti tornò a giurare su Mussolini che unico aveva visto e aveva compreso. Tra il venti maggio e il dieci giugno si deve riconoscere che l’opinione pubblica italiana subì una oscillazione violenta che consentì a Mussolini di entrare in guerra contro il parere di tutti i corpi tecnici dello Stato: Stato Maggiore, diplomazia, alta burocrazia, polizia, magistratura, confederazione degli industriali, confederazioni operaie, categorie del commercio e della banca; senza dire della Corte, del Vaticano, del clero. Il gran Consiglio non fu convocato; all'ultimo Consiglio dei Ministri non si parlò di guerra. Solo al momento di alzarsi Mussolini disse col tono consueto: « Questa è l’ultima riunione del Consiglio dei Ministri in condizioni di pace ».

(1) Vedi in Politica Estera (1945, n. 8) un ottimo studio di Viator sull’incontro di Salisburgo.


(2) Nel giornale La Capitale del 13 settembre si legge una deposizione di un ex questore di Roma. Egli afferma che già nel 1942 il Direttore Generale della Polizia Senise, succeduto a Bocchini, lo chiamò a Roma da Milano ove si trovava come ispettore dell’Ocra e gli confidò «che bisognava liquidare Mussolini perché oltre tutto era pazzo. Il Re era informato e approvava ».


mercoledì 10 aprile 2019

IL “CASO CADORNA”


Paradigma del “differend” in italia tra “politici” e forze armate
                     
di Aldo A. Mola

Nel 70° della NATO il presidente degli USA, suo “socio di maggioranza”, richiama ruvidamente l'Italia a investire il dovuto per la difesa, come richiesto dal Trattato. Incontra il consenso del Presidente Mattarella, capo delle Forze Armate, come lo era il Re, che comandava le forze di terra e di mare. I “militari” tacciono. I “politici” si voltano da un'altra parte. Nulla di nuovo sotto il sole italiano. Dall'Unità i governi hanno sempre speso il meno possibile per lo “strumento militare”, salvo imporgli imprese al limite dell'impossibile. Crispi pretese troppo nella prima rovinosa guerra d'Africa (1893-1896), Giolitti sottovalutò la durata dell'impresa di Libia (1911-1912). Peggiori furono Salandra e Sonnino che nell'aprile-maggio 1915 gettarono l'Italia nella grande fornace della guerra europea sbagliando tutte le previsioni. Anch'essi chiesero al Capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, di farsi carico di condurre una guerra offensiva, senza mettergli a disposizione lo stretto necessario: armi, magazzini, crediti... e, ciò che più conta, una condotta lineare della politica estera, indispensabile per un Paese che nel conflitto entrò dopo essere stato per una settimana alleato di tutti, salvo poi denunciare un'alleanza che durava dal 1882.    
  Elevato a Comandante Supremo, Cadorna era destinato a divenire il primo e principale capro espiatorio in caso di sconfitta o anche solo di qualche ripiegamento. Il “caso Cadorna” è il paradigma del secolare “différend” tra “politici” e Forze Armate. Perciò è stato ancora una volta demonizzato nei molti recenti libri sulla Grande guerra o largamente eluso, a parte alcune relazioni del convegno “La Guerra di Cadorna”, i cui Atti sono ora pubblicati dall'Ufficio Storico dello SME. A gettare più luce sulla vicenda è la “Giornata Cadorna”, organizzata dai Comuni di Verbania e di Miazzina con la collaborazione della Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti” (Cavour), in programma oggi, 7 aprile 2019, al Mausoleo e nel salone di Villa Giulia, a Pallanza, culla della Famiglia Cadorna, le cui vicende sono state minuziosamente ricostruite da studiosi illustri, quali Marziano Brignoli e Silvia Cavicchioli.   
   Verbania è un luogo unico nella geostoria d'Italia. Altre aree del Paese sono una sorta di vivaio di militari illustri. È il caso dell'Alessandrino, che dette i natali, fra altri, ai Capi di Stato maggiore generale e marescialli d'Italia Pietro Badoglio, originario di Grazzano, e Ugo Cavallero, di Casale Monferrato, mentre di Spigno Monferrato fu Paolo Spingardi, comandante del Corpo dei Carabinieri e ministro della Guerra con Giolitti. Verbania fece di più. In due sue frazioni nacquero i due militari più emblematici dell'Esercito italiano nella prima guerra mondiale: Luigi Cadorna, appunto, e Luigi Capello. Difficile immaginare due personalità così diverse, unite dalle Stellette nella devozione allo Stellone d'Italia, ma al tempo stesso differenti per formazione e vocazione. Cadorna, di schiatta patrizia, nacque in una famiglia che aveva dato al Regno di Sardegna suo zio Carlo, avvocato liberale, apprezzato da Camillo Cavour, ministro, senatore, e suo padre, Raffaele, generale, comandante dell'Esercito che il 20 settembre 1870 irruppe in Roma e debellò lo Stato Pontificio.
Avviato alla carriera militare da quando entrò a soli dieci anni nella Scuola Theulié di Milano, monarchico e liberale, Luigi Cadorna fu cattolico osservante ed esigente verso sé stesso e i suoi stretti collaboratori, sempre nella rigorosa separazione tra Stato e Chiesa, in linea con i Re d'Italia. Luigi Capello, di famiglia piccolo borghese, a sua volta fu  allievo da adolescente in un Convitto militare, e poi scrisse articoli e saggi pesantemente critici contro l'ordinamento dell'Esercito, proponendone la sostituzione con la “nazione armata”, antico sogno più mazziniano che garibaldino. Entrambi si guadagnarono gradi e ruoli grazie alle competenze e al valore mostrati “sul campo”. Come per congiunzione astrale i due si trovarono nei ruoli apicali dell'Esercito italiano nel corso della Grande Guerra. Cadorna, come già detto, da capo di Stato maggiore e poi da Comandante Supremo;  Capello quale generale divisionario, poi di corpo d'armata e infine della II Armata, la più grande mai esistita dall'Unità a oggi: circa 900.000 uomini, un’immensa “città militare”. Cadorna (come bene argomenta suo nipote Carlo in “Caporetto, risponde Cadorna”, ora edito da Cesmedia) era lo stratega: vedeva l'esercito italiano nell'ambito della guerra europea. Ne conosceva a fondo ogni minimo aspetto. Quando gliene venne addossato il comando esso aveva 750.000 fucili modello 1891 e 1.200.000 altri arnesi antiquati, con scarse munizioni. L'unica fabbrica abilitata a produrne, la Terni, ne sfornava 2.500 al mese. In vista dell'intervento bisognò armare oltre 800.000 uomini in poche settimane; nel prosieguo, ne vennero inquadrati cinque milioni e mezzo. In quotidiano conflitto con il governo, che gli lesinava tutto, Cadorna fu l'artefice dello “strumento militare”. Poiché fu l'Italia a dichiarare guerra all'impero austro-ungarico egli dovette condurre l'offensiva, con riserva di arretrare quando necessario perché il confine, risalente al lontano 1866, era lunghissimo e svantaggioso: un cannone ogni chilometro, mitragliatrici del tutto insufficienti, uomini esposti al fuoco del nemico arroccato su posizioni munitissime e pronto da mesi a rintuzzare ogni assalto.
Capello, invece, era ansioso di “agguantare” l'avversario e di batterlo. Proiettato all'offensiva: tattico molto più che stratega.

   La diversità di vedute fu all'origine di quello che Cadorna definì il “disastro” di Caporetto: la sconfitta nella dodicesima battaglia dell'Isonzo, costata circa 30.000 morti, altrettanti feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati e l'arretramento del fronte sino “alla Piave e al Grappa”: non una “rotta” (a differenza di come è stata e ancora viene narrata), ma una battaglia come tante se n’erano combattute nella Grande Guerra. In venti giorni, il 9 novembre, essa si risolse nell'arresto del nemico, grazie alle misure da tempo studiate da Cadorna, nella lunga riorganizzazione delle file e nella riscossa dell'anno seguente, culminata nella vittoria, coronata con la resa degli austro-ungarici il 3 novembre 1918.
   Nelle settimane precedenti l'offensiva austro-germanica (24 ottobre 1917) Cadorna impartì ordini perentori: il passaggio alla difensiva in vista della possibile stasi invernale; ma Capello continuò a rimanere sino all'ultimo sbalestrato in avanti, pronto a scatenare la contro-offensiva.
  
   L'immagine del generale Luigi Cadorna è in massima parte debitrice di quanto ne scrisse Angelo Gatti nel “Diario”, dall'autore lasciato inedito e pubblicato nel 1964 a cura di Alberto Monticone (il Mulino). Collaboratore della “Gazzetta del Popolo” di Torino e poi del “Corriere della Sera”, conferenziere brillante e saggista di successo, Gatti (Capua, 1875-Milano, 1948) aspirò a scrivere una storia della partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra, un'opera su Caporetto (prima avallata poi vietata da Mussolini, perché “non era tempo di storia ma di miti”) e una biografia del Comandante Supremo, che nel marzo 1917 lo aveva chiamato a dirigere l'ufficio storico dell'Esercito. Dopo l'improvvisa morte della giovane moglie, Emilia Castoldi (1927), Gatti passò dalla storiografia alla narrativa, con romanzi autobiografici di successo (Ilia e Alberto, 1931; Il mercante del sole, 1942; L'ombra della terra, 1945). Non sappiamo se e come avrebbe dato alle stampe il “Diario”, talora indulgente ad affermazioni molto più che discutibili e persino a pesantissime insinuazioni, per esempio a proposito della “non riuscita del matrimonio” di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. 
Nella sua superiore discrezione lo avrebbe certo emendato dal superfluo e dal vano. Indigna leggervi il ritratto di Vittorio Emanuele III (“piccolo, magrolino, bianco-grigio, come un uccellino scodinzolante”, con “salterelli improvvisi di cutrettola” e l'infame cenno alla regina Elena (“non è la donna che ci vuole per lui, e, forse, non è nemmeno una buona donna”), su cui Monticone ricamò. Sappiamo invece con certezza che il suo racconto non sempre risponde ai fatti, com’è ovvio per chi vive gli eventi da un osservatorio circoscritto anziché da storico. Mentre Gaetano Salvemini, esigente quanto umorale, lo valutò “mirabile per equilibrio e chiarezza” (come viene ripetuto in Angelo Gatti, E' la guerra. Diario. Maggio-Agosto 1915, ed. il Mulino, 2018), nel “Diario” egli risulta non di rado ridondante, omissivo e vago. Per esempio non fa alcun cenno alla sua occulta iniziazione alla loggia “Propaganda massonica” (Grande Oriente d'Italia) il 28 giugno 1917, pochi giorni dopo aver affidato un impegnativo “Promemoria” a Cadorna, al generale Luigi Capello (massone) e al colonnello Roberto Bencivenga (anni dopo iniziato da Domizio Torrigiani nella Loggia clandestina “Carlo Pisacane” a Ponza, ove erano entrambi confinati). Cadorna lo ignorò. Il colonnello vi scrisse: “C'è bisogno di rinnovarci nella guerra (...) di ricominciare da capo. È necessario inculcare un nuovo  spirito; fare nuova organizzazione; studiare una nuova tattica; trasformarci col tempo (....) È tutto l'insieme che non va. C'è qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe. La guerra è vecchia: bisogna farla con questa vecchiaia, tener conto di essa; guardare le compagini in faccia come composte d'uomini, non come materia”. Parole. Parole di chi passava ore a scrivere, mentre il Comandante aveva dinnanzi agli occhi la strategia complessiva della guerra che da europea, dopo la rivoluzione in Russia e con l'intervento degli Stati Uniti d'America, era divenuta mondiale. La “tattica”, sulla quale Gatti si disperde, andava inquadrata in quell'ambito, nei calcoli politico-militari dei franco-inglesi che ritirarono dal fronte italiano il loro avaro centinaio di cannoni quando l'offensiva si arenò sulla Bainsizza e il 28 settembre Cadorna ordinò il passaggio alla difensiva.
   La lunghissima narrazione della tragica giornata del 24 ottobre 1917 da Gatti affidata al “Diario” è del tutto contrastante con quanto emerge dalle carte ufficiali di Cadorna e dalle sue lettere ai famigliari, pubblicate nel 1967 dal figlio, Raffaele, già Comandante del Corpo volontari della libertà. Mentre Gatti “scoprì” l'avanzata austro-germanica solo dopo essere andato a cena e al cinema (sic!), da molte ore Cadorna dettava le misure per contenere a oltranza l'offensiva nemica e, se del caso, per ripiegare sulla destra del Tagliamento o, se necessario, sul Piave, come subito previsto anche da Vittorio Emanuele III (proprio il Re lo confidò a Gatti nell'“intervista” concessagli al Quirinale, ora pubblicata in Luigi Cadorna storico della grande guerra, prefazione alla nuova edizione di Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, ed. Bastogilibri, 2019).

L'influenza del “Diario” di Gatti nel giudizio negativo che si è stratificato sul Comando Supremo dagli Anni Sessanta dello scorso secolo è paragonabile alla versione cinematografica di Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu: il famigerato “Uomini contro”,  visione obbligatoria per le scolaresche come poi “Il delitto Matteotti” e altre “narrazioni” filmiche di momenti drammatici della storia nazionale, che manipolarono i fatti ed elevarono un bastione invalicabile tra ricerca storica innovativa, documenti alla mano (liquidata come “revisionismo”), e pregiudizio, spacciato per “verità”.
   Oltre mezzo secolo dopo la pubblicazione del “Diario” di Gatti curato da Monticone tempo è venuto di riaprire il cantiere della ricerca, con una domanda preliminare: come mai tuttora non esiste una biografia scientifica del Comandante Supremo? Eppure i materiali non mancano affatto. Qualche luce emerge proprio dalle “interviste” raccolte da Gatti per scrivere la storia dell'Italia nella grande guerra o del Comando Supremo, il cui “ufficio storico” gli era stato affidato nel marzo 1917. Tra le molte è sconcertante quella rilasciatagli da Vittorio Emanuele Orlando, che rivendica a proprio merito la defenestrazione di Cadorna e la anticipa al 28 ottobre, dieci giorni prima dell'“incontro” di Rapallo (5-6 novembre) tra i vertici politico-militari italiani e quelli anglo-francesi, preludio a quello, parimenti celebre, di Peschiera, ove l'8 seguente Vittorio Emanuele III orgogliosamente garantì che l'Italia avrebbe resistito: un’affermazione molto sminuita da Orlando, al quale il re affidò il governo del Paese durante l'arretramento del fronte dall'Isonzo al Piave (v. box).
Il “caso Cadorna” risulta più che mai attuale, proprio per cogliere le radici remote della perdurante ritrosia dei “politici” a onorare i trattati ai quali lo Stato italiano è vincolato e a investire adeguatamente per la saldezza e le fortune dello strumento militare.