NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 10 aprile 2019

IL “CASO CADORNA”


Paradigma del “differend” in italia tra “politici” e forze armate
                     
di Aldo A. Mola

Nel 70° della NATO il presidente degli USA, suo “socio di maggioranza”, richiama ruvidamente l'Italia a investire il dovuto per la difesa, come richiesto dal Trattato. Incontra il consenso del Presidente Mattarella, capo delle Forze Armate, come lo era il Re, che comandava le forze di terra e di mare. I “militari” tacciono. I “politici” si voltano da un'altra parte. Nulla di nuovo sotto il sole italiano. Dall'Unità i governi hanno sempre speso il meno possibile per lo “strumento militare”, salvo imporgli imprese al limite dell'impossibile. Crispi pretese troppo nella prima rovinosa guerra d'Africa (1893-1896), Giolitti sottovalutò la durata dell'impresa di Libia (1911-1912). Peggiori furono Salandra e Sonnino che nell'aprile-maggio 1915 gettarono l'Italia nella grande fornace della guerra europea sbagliando tutte le previsioni. Anch'essi chiesero al Capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, di farsi carico di condurre una guerra offensiva, senza mettergli a disposizione lo stretto necessario: armi, magazzini, crediti... e, ciò che più conta, una condotta lineare della politica estera, indispensabile per un Paese che nel conflitto entrò dopo essere stato per una settimana alleato di tutti, salvo poi denunciare un'alleanza che durava dal 1882.    
  Elevato a Comandante Supremo, Cadorna era destinato a divenire il primo e principale capro espiatorio in caso di sconfitta o anche solo di qualche ripiegamento. Il “caso Cadorna” è il paradigma del secolare “différend” tra “politici” e Forze Armate. Perciò è stato ancora una volta demonizzato nei molti recenti libri sulla Grande guerra o largamente eluso, a parte alcune relazioni del convegno “La Guerra di Cadorna”, i cui Atti sono ora pubblicati dall'Ufficio Storico dello SME. A gettare più luce sulla vicenda è la “Giornata Cadorna”, organizzata dai Comuni di Verbania e di Miazzina con la collaborazione della Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti” (Cavour), in programma oggi, 7 aprile 2019, al Mausoleo e nel salone di Villa Giulia, a Pallanza, culla della Famiglia Cadorna, le cui vicende sono state minuziosamente ricostruite da studiosi illustri, quali Marziano Brignoli e Silvia Cavicchioli.   
   Verbania è un luogo unico nella geostoria d'Italia. Altre aree del Paese sono una sorta di vivaio di militari illustri. È il caso dell'Alessandrino, che dette i natali, fra altri, ai Capi di Stato maggiore generale e marescialli d'Italia Pietro Badoglio, originario di Grazzano, e Ugo Cavallero, di Casale Monferrato, mentre di Spigno Monferrato fu Paolo Spingardi, comandante del Corpo dei Carabinieri e ministro della Guerra con Giolitti. Verbania fece di più. In due sue frazioni nacquero i due militari più emblematici dell'Esercito italiano nella prima guerra mondiale: Luigi Cadorna, appunto, e Luigi Capello. Difficile immaginare due personalità così diverse, unite dalle Stellette nella devozione allo Stellone d'Italia, ma al tempo stesso differenti per formazione e vocazione. Cadorna, di schiatta patrizia, nacque in una famiglia che aveva dato al Regno di Sardegna suo zio Carlo, avvocato liberale, apprezzato da Camillo Cavour, ministro, senatore, e suo padre, Raffaele, generale, comandante dell'Esercito che il 20 settembre 1870 irruppe in Roma e debellò lo Stato Pontificio.
Avviato alla carriera militare da quando entrò a soli dieci anni nella Scuola Theulié di Milano, monarchico e liberale, Luigi Cadorna fu cattolico osservante ed esigente verso sé stesso e i suoi stretti collaboratori, sempre nella rigorosa separazione tra Stato e Chiesa, in linea con i Re d'Italia. Luigi Capello, di famiglia piccolo borghese, a sua volta fu  allievo da adolescente in un Convitto militare, e poi scrisse articoli e saggi pesantemente critici contro l'ordinamento dell'Esercito, proponendone la sostituzione con la “nazione armata”, antico sogno più mazziniano che garibaldino. Entrambi si guadagnarono gradi e ruoli grazie alle competenze e al valore mostrati “sul campo”. Come per congiunzione astrale i due si trovarono nei ruoli apicali dell'Esercito italiano nel corso della Grande Guerra. Cadorna, come già detto, da capo di Stato maggiore e poi da Comandante Supremo;  Capello quale generale divisionario, poi di corpo d'armata e infine della II Armata, la più grande mai esistita dall'Unità a oggi: circa 900.000 uomini, un’immensa “città militare”. Cadorna (come bene argomenta suo nipote Carlo in “Caporetto, risponde Cadorna”, ora edito da Cesmedia) era lo stratega: vedeva l'esercito italiano nell'ambito della guerra europea. Ne conosceva a fondo ogni minimo aspetto. Quando gliene venne addossato il comando esso aveva 750.000 fucili modello 1891 e 1.200.000 altri arnesi antiquati, con scarse munizioni. L'unica fabbrica abilitata a produrne, la Terni, ne sfornava 2.500 al mese. In vista dell'intervento bisognò armare oltre 800.000 uomini in poche settimane; nel prosieguo, ne vennero inquadrati cinque milioni e mezzo. In quotidiano conflitto con il governo, che gli lesinava tutto, Cadorna fu l'artefice dello “strumento militare”. Poiché fu l'Italia a dichiarare guerra all'impero austro-ungarico egli dovette condurre l'offensiva, con riserva di arretrare quando necessario perché il confine, risalente al lontano 1866, era lunghissimo e svantaggioso: un cannone ogni chilometro, mitragliatrici del tutto insufficienti, uomini esposti al fuoco del nemico arroccato su posizioni munitissime e pronto da mesi a rintuzzare ogni assalto.
Capello, invece, era ansioso di “agguantare” l'avversario e di batterlo. Proiettato all'offensiva: tattico molto più che stratega.

   La diversità di vedute fu all'origine di quello che Cadorna definì il “disastro” di Caporetto: la sconfitta nella dodicesima battaglia dell'Isonzo, costata circa 30.000 morti, altrettanti feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati e l'arretramento del fronte sino “alla Piave e al Grappa”: non una “rotta” (a differenza di come è stata e ancora viene narrata), ma una battaglia come tante se n’erano combattute nella Grande Guerra. In venti giorni, il 9 novembre, essa si risolse nell'arresto del nemico, grazie alle misure da tempo studiate da Cadorna, nella lunga riorganizzazione delle file e nella riscossa dell'anno seguente, culminata nella vittoria, coronata con la resa degli austro-ungarici il 3 novembre 1918.
   Nelle settimane precedenti l'offensiva austro-germanica (24 ottobre 1917) Cadorna impartì ordini perentori: il passaggio alla difensiva in vista della possibile stasi invernale; ma Capello continuò a rimanere sino all'ultimo sbalestrato in avanti, pronto a scatenare la contro-offensiva.
  
   L'immagine del generale Luigi Cadorna è in massima parte debitrice di quanto ne scrisse Angelo Gatti nel “Diario”, dall'autore lasciato inedito e pubblicato nel 1964 a cura di Alberto Monticone (il Mulino). Collaboratore della “Gazzetta del Popolo” di Torino e poi del “Corriere della Sera”, conferenziere brillante e saggista di successo, Gatti (Capua, 1875-Milano, 1948) aspirò a scrivere una storia della partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra, un'opera su Caporetto (prima avallata poi vietata da Mussolini, perché “non era tempo di storia ma di miti”) e una biografia del Comandante Supremo, che nel marzo 1917 lo aveva chiamato a dirigere l'ufficio storico dell'Esercito. Dopo l'improvvisa morte della giovane moglie, Emilia Castoldi (1927), Gatti passò dalla storiografia alla narrativa, con romanzi autobiografici di successo (Ilia e Alberto, 1931; Il mercante del sole, 1942; L'ombra della terra, 1945). Non sappiamo se e come avrebbe dato alle stampe il “Diario”, talora indulgente ad affermazioni molto più che discutibili e persino a pesantissime insinuazioni, per esempio a proposito della “non riuscita del matrimonio” di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. 
Nella sua superiore discrezione lo avrebbe certo emendato dal superfluo e dal vano. Indigna leggervi il ritratto di Vittorio Emanuele III (“piccolo, magrolino, bianco-grigio, come un uccellino scodinzolante”, con “salterelli improvvisi di cutrettola” e l'infame cenno alla regina Elena (“non è la donna che ci vuole per lui, e, forse, non è nemmeno una buona donna”), su cui Monticone ricamò. Sappiamo invece con certezza che il suo racconto non sempre risponde ai fatti, com’è ovvio per chi vive gli eventi da un osservatorio circoscritto anziché da storico. Mentre Gaetano Salvemini, esigente quanto umorale, lo valutò “mirabile per equilibrio e chiarezza” (come viene ripetuto in Angelo Gatti, E' la guerra. Diario. Maggio-Agosto 1915, ed. il Mulino, 2018), nel “Diario” egli risulta non di rado ridondante, omissivo e vago. Per esempio non fa alcun cenno alla sua occulta iniziazione alla loggia “Propaganda massonica” (Grande Oriente d'Italia) il 28 giugno 1917, pochi giorni dopo aver affidato un impegnativo “Promemoria” a Cadorna, al generale Luigi Capello (massone) e al colonnello Roberto Bencivenga (anni dopo iniziato da Domizio Torrigiani nella Loggia clandestina “Carlo Pisacane” a Ponza, ove erano entrambi confinati). Cadorna lo ignorò. Il colonnello vi scrisse: “C'è bisogno di rinnovarci nella guerra (...) di ricominciare da capo. È necessario inculcare un nuovo  spirito; fare nuova organizzazione; studiare una nuova tattica; trasformarci col tempo (....) È tutto l'insieme che non va. C'è qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe. La guerra è vecchia: bisogna farla con questa vecchiaia, tener conto di essa; guardare le compagini in faccia come composte d'uomini, non come materia”. Parole. Parole di chi passava ore a scrivere, mentre il Comandante aveva dinnanzi agli occhi la strategia complessiva della guerra che da europea, dopo la rivoluzione in Russia e con l'intervento degli Stati Uniti d'America, era divenuta mondiale. La “tattica”, sulla quale Gatti si disperde, andava inquadrata in quell'ambito, nei calcoli politico-militari dei franco-inglesi che ritirarono dal fronte italiano il loro avaro centinaio di cannoni quando l'offensiva si arenò sulla Bainsizza e il 28 settembre Cadorna ordinò il passaggio alla difensiva.
   La lunghissima narrazione della tragica giornata del 24 ottobre 1917 da Gatti affidata al “Diario” è del tutto contrastante con quanto emerge dalle carte ufficiali di Cadorna e dalle sue lettere ai famigliari, pubblicate nel 1967 dal figlio, Raffaele, già Comandante del Corpo volontari della libertà. Mentre Gatti “scoprì” l'avanzata austro-germanica solo dopo essere andato a cena e al cinema (sic!), da molte ore Cadorna dettava le misure per contenere a oltranza l'offensiva nemica e, se del caso, per ripiegare sulla destra del Tagliamento o, se necessario, sul Piave, come subito previsto anche da Vittorio Emanuele III (proprio il Re lo confidò a Gatti nell'“intervista” concessagli al Quirinale, ora pubblicata in Luigi Cadorna storico della grande guerra, prefazione alla nuova edizione di Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, ed. Bastogilibri, 2019).

L'influenza del “Diario” di Gatti nel giudizio negativo che si è stratificato sul Comando Supremo dagli Anni Sessanta dello scorso secolo è paragonabile alla versione cinematografica di Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu: il famigerato “Uomini contro”,  visione obbligatoria per le scolaresche come poi “Il delitto Matteotti” e altre “narrazioni” filmiche di momenti drammatici della storia nazionale, che manipolarono i fatti ed elevarono un bastione invalicabile tra ricerca storica innovativa, documenti alla mano (liquidata come “revisionismo”), e pregiudizio, spacciato per “verità”.
   Oltre mezzo secolo dopo la pubblicazione del “Diario” di Gatti curato da Monticone tempo è venuto di riaprire il cantiere della ricerca, con una domanda preliminare: come mai tuttora non esiste una biografia scientifica del Comandante Supremo? Eppure i materiali non mancano affatto. Qualche luce emerge proprio dalle “interviste” raccolte da Gatti per scrivere la storia dell'Italia nella grande guerra o del Comando Supremo, il cui “ufficio storico” gli era stato affidato nel marzo 1917. Tra le molte è sconcertante quella rilasciatagli da Vittorio Emanuele Orlando, che rivendica a proprio merito la defenestrazione di Cadorna e la anticipa al 28 ottobre, dieci giorni prima dell'“incontro” di Rapallo (5-6 novembre) tra i vertici politico-militari italiani e quelli anglo-francesi, preludio a quello, parimenti celebre, di Peschiera, ove l'8 seguente Vittorio Emanuele III orgogliosamente garantì che l'Italia avrebbe resistito: un’affermazione molto sminuita da Orlando, al quale il re affidò il governo del Paese durante l'arretramento del fronte dall'Isonzo al Piave (v. box).
Il “caso Cadorna” risulta più che mai attuale, proprio per cogliere le radici remote della perdurante ritrosia dei “politici” a onorare i trattati ai quali lo Stato italiano è vincolato e a investire adeguatamente per la saldezza e le fortune dello strumento militare.  






    

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