Paradigma del “differend” in
italia tra “politici” e forze armate
Nel
70° della NATO il presidente degli USA, suo “socio di maggioranza”, richiama
ruvidamente l'Italia a investire il dovuto per la difesa, come richiesto dal
Trattato. Incontra il consenso del Presidente Mattarella, capo delle Forze
Armate, come lo era il Re, che comandava le forze di terra e di mare. I
“militari” tacciono. I “politici” si voltano da un'altra parte. Nulla di nuovo
sotto il sole italiano. Dall'Unità i governi hanno sempre speso il meno
possibile per lo “strumento militare”, salvo imporgli imprese al limite
dell'impossibile. Crispi pretese troppo nella prima rovinosa guerra d'Africa
(1893-1896), Giolitti sottovalutò la durata dell'impresa di Libia (1911-1912).
Peggiori furono Salandra e Sonnino che nell'aprile-maggio 1915 gettarono
l'Italia nella grande fornace della guerra europea sbagliando tutte le
previsioni. Anch'essi chiesero al Capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, di
farsi carico di condurre una guerra offensiva, senza mettergli a disposizione
lo stretto necessario: armi, magazzini, crediti... e, ciò che più conta, una condotta
lineare della politica estera, indispensabile per un Paese che nel conflitto
entrò dopo essere stato per una settimana alleato di tutti, salvo poi
denunciare un'alleanza che durava dal 1882.
Elevato
a Comandante Supremo, Cadorna era destinato a divenire il primo e principale
capro espiatorio in caso di sconfitta o anche solo di qualche ripiegamento. Il
“caso Cadorna” è il paradigma del secolare “différend” tra “politici” e Forze
Armate. Perciò è stato ancora una volta demonizzato nei molti recenti libri
sulla Grande guerra o largamente eluso, a parte alcune relazioni del convegno
“La Guerra di Cadorna”, i cui Atti sono ora pubblicati dall'Ufficio Storico
dello SME. A gettare più luce sulla vicenda è la “Giornata Cadorna”,
organizzata dai Comuni di Verbania e di Miazzina con la collaborazione della
Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti” (Cavour), in programma oggi,
7 aprile 2019, al Mausoleo e nel salone di Villa Giulia, a Pallanza, culla
della Famiglia Cadorna, le cui vicende sono state minuziosamente ricostruite da
studiosi illustri, quali Marziano Brignoli e Silvia Cavicchioli.
Verbania
è un luogo unico nella geostoria d'Italia. Altre aree del Paese sono una sorta
di vivaio di militari illustri. È il caso dell'Alessandrino, che dette i
natali, fra altri, ai Capi di Stato maggiore generale e marescialli d'Italia
Pietro Badoglio, originario di Grazzano, e Ugo Cavallero, di Casale Monferrato,
mentre di Spigno Monferrato fu Paolo Spingardi, comandante del Corpo dei
Carabinieri e ministro della Guerra con Giolitti. Verbania fece di più. In due
sue frazioni nacquero i due militari più emblematici dell'Esercito italiano
nella prima guerra mondiale: Luigi Cadorna, appunto, e Luigi Capello. Difficile
immaginare due personalità così diverse, unite dalle Stellette nella devozione
allo Stellone d'Italia, ma al tempo stesso differenti per formazione e
vocazione. Cadorna, di schiatta patrizia, nacque in una famiglia che aveva dato
al Regno di Sardegna suo zio Carlo, avvocato liberale, apprezzato da Camillo
Cavour, ministro, senatore, e suo padre, Raffaele, generale, comandante
dell'Esercito che il 20 settembre 1870 irruppe in Roma e debellò lo Stato
Pontificio.
Avviato alla carriera militare da quando
entrò a soli dieci anni nella Scuola Theulié di Milano, monarchico e liberale,
Luigi Cadorna fu cattolico osservante ed esigente verso sé stesso e i suoi
stretti collaboratori, sempre nella rigorosa separazione tra Stato e Chiesa, in
linea con i Re d'Italia. Luigi Capello, di famiglia piccolo borghese, a sua
volta fu allievo da adolescente in un
Convitto militare, e poi scrisse articoli e saggi pesantemente critici contro
l'ordinamento dell'Esercito, proponendone la sostituzione con la “nazione
armata”, antico sogno più mazziniano che garibaldino. Entrambi si guadagnarono
gradi e ruoli grazie alle competenze e al valore mostrati “sul campo”. Come per
congiunzione astrale i due si trovarono nei ruoli apicali dell'Esercito
italiano nel corso della Grande Guerra. Cadorna, come già detto, da capo di Stato
maggiore e poi da Comandante Supremo;
Capello quale generale divisionario, poi di corpo d'armata e infine
della II Armata, la più grande mai esistita dall'Unità a oggi: circa 900.000
uomini, un’immensa “città militare”. Cadorna (come bene argomenta suo nipote
Carlo in “Caporetto, risponde Cadorna”, ora edito da Cesmedia) era lo stratega:
vedeva l'esercito italiano nell'ambito della guerra europea. Ne conosceva a
fondo ogni minimo aspetto. Quando gliene venne addossato il comando esso aveva
750.000 fucili modello 1891 e 1.200.000 altri arnesi antiquati, con scarse
munizioni. L'unica fabbrica abilitata a produrne, la Terni, ne sfornava 2.500
al mese. In vista dell'intervento bisognò armare oltre 800.000 uomini in poche
settimane; nel prosieguo, ne vennero inquadrati cinque milioni e mezzo. In
quotidiano conflitto con il governo, che gli lesinava tutto, Cadorna fu
l'artefice dello “strumento militare”. Poiché fu l'Italia a dichiarare guerra
all'impero austro-ungarico egli dovette condurre l'offensiva, con riserva di
arretrare quando necessario perché il confine, risalente al lontano 1866, era
lunghissimo e svantaggioso: un cannone ogni chilometro, mitragliatrici del
tutto insufficienti, uomini esposti al fuoco del nemico arroccato su posizioni
munitissime e pronto da mesi a rintuzzare ogni assalto.
Capello, invece, era ansioso di “agguantare”
l'avversario e di batterlo. Proiettato all'offensiva: tattico molto più che
stratega.
La
diversità di vedute fu all'origine di quello che Cadorna definì il “disastro”
di Caporetto: la sconfitta nella dodicesima battaglia dell'Isonzo, costata
circa 30.000 morti, altrettanti feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati e
l'arretramento del fronte sino “alla Piave e al Grappa”: non una “rotta” (a
differenza di come è stata e ancora viene narrata), ma una battaglia come tante
se n’erano combattute nella Grande Guerra. In venti giorni, il 9 novembre, essa
si risolse nell'arresto del nemico, grazie alle misure da tempo studiate da
Cadorna, nella lunga riorganizzazione delle file e nella riscossa dell'anno
seguente, culminata nella vittoria, coronata con la resa degli austro-ungarici
il 3 novembre 1918.
Nelle
settimane precedenti l'offensiva austro-germanica (24 ottobre 1917) Cadorna
impartì ordini perentori: il passaggio alla difensiva in vista della possibile
stasi invernale; ma Capello continuò a rimanere sino all'ultimo sbalestrato in
avanti, pronto a scatenare la contro-offensiva.
L'immagine
del generale Luigi Cadorna è in massima parte debitrice di quanto ne scrisse
Angelo Gatti nel “Diario”, dall'autore lasciato inedito e pubblicato nel 1964 a
cura di Alberto Monticone (il Mulino). Collaboratore della “Gazzetta del
Popolo” di Torino e poi del “Corriere della Sera”, conferenziere brillante e
saggista di successo, Gatti (Capua, 1875-Milano, 1948) aspirò a scrivere una
storia della partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra, un'opera su
Caporetto (prima avallata poi vietata da Mussolini, perché “non era tempo di
storia ma di miti”) e una biografia del Comandante Supremo, che nel marzo 1917
lo aveva chiamato a dirigere l'ufficio storico dell'Esercito. Dopo l'improvvisa
morte della giovane moglie, Emilia Castoldi (1927), Gatti passò dalla
storiografia alla narrativa, con romanzi autobiografici di successo (Ilia e Alberto,
1931; Il mercante del sole, 1942; L'ombra della terra, 1945).
Non sappiamo se e come avrebbe dato alle stampe il “Diario”, talora indulgente
ad affermazioni molto più che discutibili e persino a pesantissime
insinuazioni, per esempio a proposito della “non riuscita del matrimonio” di
Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Nella sua superiore discrezione lo
avrebbe certo emendato dal superfluo e dal vano. Indigna leggervi il ritratto
di Vittorio Emanuele III (“piccolo, magrolino, bianco-grigio, come un uccellino
scodinzolante”, con “salterelli improvvisi di cutrettola” e l'infame cenno alla
regina Elena (“non è la donna che ci vuole per lui, e, forse, non è nemmeno una
buona donna”), su cui Monticone ricamò. Sappiamo invece con certezza che il suo
racconto non sempre risponde ai fatti, com’è ovvio per chi vive gli eventi da
un osservatorio circoscritto anziché da storico. Mentre Gaetano Salvemini,
esigente quanto umorale, lo valutò “mirabile per equilibrio e chiarezza” (come
viene ripetuto in Angelo Gatti, E' la guerra. Diario.
Maggio-Agosto 1915, ed. il Mulino, 2018), nel “Diario” egli
risulta non di rado ridondante, omissivo e vago. Per esempio non fa alcun cenno
alla sua occulta iniziazione alla loggia “Propaganda massonica” (Grande Oriente
d'Italia) il 28 giugno 1917, pochi giorni dopo aver affidato un impegnativo
“Promemoria” a Cadorna, al generale Luigi Capello (massone) e al colonnello
Roberto Bencivenga (anni dopo iniziato da Domizio Torrigiani nella Loggia
clandestina “Carlo Pisacane” a Ponza, ove erano entrambi confinati). Cadorna lo
ignorò. Il colonnello vi scrisse: “C'è bisogno di rinnovarci nella guerra (...)
di ricominciare da capo. È necessario inculcare un nuovo spirito; fare nuova organizzazione; studiare
una nuova tattica; trasformarci col tempo (....) È tutto l'insieme che non va.
C'è qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe. La guerra è vecchia: bisogna
farla con questa vecchiaia, tener conto di essa; guardare le compagini in
faccia come composte d'uomini, non come materia”. Parole. Parole di chi passava
ore a scrivere, mentre il Comandante aveva dinnanzi agli occhi la strategia
complessiva della guerra che da europea, dopo la rivoluzione in Russia e con
l'intervento degli Stati Uniti d'America, era divenuta mondiale. La “tattica”,
sulla quale Gatti si disperde, andava inquadrata in quell'ambito, nei calcoli
politico-militari dei franco-inglesi che ritirarono dal fronte italiano il loro
avaro centinaio di cannoni quando l'offensiva si arenò sulla Bainsizza e il 28
settembre Cadorna ordinò il passaggio alla difensiva.
La
lunghissima narrazione della tragica giornata del 24 ottobre 1917 da Gatti
affidata al “Diario” è del tutto contrastante con quanto emerge dalle carte
ufficiali di Cadorna e dalle sue lettere ai famigliari, pubblicate nel 1967 dal
figlio, Raffaele, già Comandante del Corpo volontari della libertà. Mentre
Gatti “scoprì” l'avanzata austro-germanica solo dopo essere andato a cena e al
cinema (sic!), da molte ore Cadorna dettava le misure per contenere a
oltranza l'offensiva nemica e, se del caso, per ripiegare sulla destra del
Tagliamento o, se necessario, sul Piave, come subito previsto anche da Vittorio
Emanuele III (proprio il Re lo confidò a Gatti nell'“intervista” concessagli al
Quirinale, ora pubblicata in Luigi Cadorna storico della
grande guerra, prefazione alla nuova edizione di Luigi Cadorna, La
guerra alla fronte italiana, ed. Bastogilibri,
2019).
L'influenza del “Diario” di Gatti nel
giudizio negativo che si è stratificato sul Comando Supremo dagli Anni Sessanta
dello scorso secolo è paragonabile alla versione cinematografica di Un anno
sull'altipiano di Emilio Lussu: il famigerato “Uomini contro”, visione obbligatoria per le scolaresche come
poi “Il delitto Matteotti” e altre “narrazioni” filmiche di momenti drammatici
della storia nazionale, che manipolarono i fatti ed elevarono un bastione
invalicabile tra ricerca storica innovativa, documenti alla mano (liquidata
come “revisionismo”), e pregiudizio, spacciato per “verità”.
Oltre
mezzo secolo dopo la pubblicazione del “Diario” di Gatti curato da Monticone
tempo è venuto di riaprire il cantiere della ricerca, con una domanda
preliminare: come mai tuttora non esiste una biografia scientifica del
Comandante Supremo? Eppure i materiali non mancano affatto. Qualche luce emerge
proprio dalle “interviste” raccolte da Gatti per scrivere la storia dell'Italia
nella grande guerra o del Comando Supremo, il cui “ufficio storico” gli era
stato affidato nel marzo 1917. Tra le molte è sconcertante quella rilasciatagli
da Vittorio Emanuele Orlando, che rivendica a proprio merito la defenestrazione
di Cadorna e la anticipa al 28 ottobre, dieci giorni prima dell'“incontro” di
Rapallo (5-6 novembre) tra i vertici politico-militari italiani e quelli
anglo-francesi, preludio a quello, parimenti celebre, di Peschiera, ove l'8
seguente Vittorio Emanuele III orgogliosamente garantì che l'Italia avrebbe
resistito: un’affermazione molto sminuita da Orlando, al quale il re affidò il
governo del Paese durante l'arretramento del fronte dall'Isonzo al Piave (v.
box).
Il “caso Cadorna” risulta più che mai
attuale, proprio per cogliere le radici remote della perdurante ritrosia dei
“politici” a onorare i trattati ai quali lo Stato italiano è vincolato e a
investire adeguatamente per la saldezza e le fortune dello strumento
militare.
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