NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 29 agosto 2021

La partecipazione di S.A.R la Principessa Maria Gabriella di Savoia



S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia, invitata dalla Città di Fossano a partecipare allo scoprimento del Monumento del duca Carlo Emanuele II, nell'impossibilità di presenziare ha inviato al sindaco, Dario Tallone, al presidente della sezione locale dell'Associazione Nazionale Granatieri di Sardegna, Livio Bertaina, e al vice-presidente vicario del Gruppo Croce Bianca di Torino, Carlo Maria Braghero, un ampio vibrante Messaggio, da “Granatiere Onoraria” qual Ella è.

   Rammaricata di non poter partecipare di persona “ad un evento così importante per la memoria storica, fondamento dei valori civici e morali che ci uniscono”, la Principessa rievoca Carlo Emanuele II, succeduto nel 1638 al Padre, Vittorio Amedeo I, quando aveva appena quattro anni, e rimase a lungo sotto la tutela della Madre, la volitiva e sagace reggente, Madama Reale, che seppe imporsi anche ai cognati, il principe Tomaso di Carignano, suo avo diretto, e il cardinale Maurizio di Savoia.

  La Principessa ricorda che il duca gettò le basi dell'esercito permanente di pace, garante della sicurezza dello Stato, sempre insidiato dal potente Luigi XIV di Francia, il Re Sole. A tale scopo nel 1659 istituì le “Guardie del Palazzo”, dalle quali sorsero i Granatieri e infine gli statuari “Granatieri di Sardegna”, “sinonimo di disciplina, di unione tra il sovrano e i cittadini e di Fedeltà alla Patria nella buona e nella cattiva sorte”.

SAR aggiunge di avere due motivi di speciale gratitudine per l'invito che le è stato rivolto. Anzitutto l'apprezzamento per gli amministratori della Provincia Granda che conservano e arricchiscono i monumenti storici. È il caso del Castello degli Acaja, prodigiosamente eretto in soli otto anni, tra il 1324 e il 1332, per volere di Filippo di Acaja. Esso “fu abitato anche da Carlo Emanuele II con la madre, Cristina di Francia, tra il 1643 e il 1646. Oggi sede di una prestigiosa Biblioteca Civica, voluta dal classicista Giorgio Barbero, con la sua imponenza è punto di riferimento della cittadinanza e di un vasto territorio”.

  “In secondo luogo, precisa la Principessa al Sindaco, ho motivo di sentirmi tra voi tutti nell'omaggio al fondatore dei Granatieri perché nel 2004 mi vennero conferiti gli alamari di Granatiere a Torino, nel corso di una cerimonia voluta dal conte Alessandro Cremonte Pastorello, all'epoca vicepresidente della Consulta dei Senatori del Regno”.

  Dispiaciuta di non poter applaudire di persona le musiche che verranno eseguite dalla Banda Reggimentale dei Granatieri di Sardegna, la Principessa Maria Gabriella di Savoia confida che sovente ne ascolta le registrazioni conservate nella Fondazione Umberto II e Maria José a Ginevra.

 

* * *

 

   Sono ben noti i profondi legami memoriali della Principessa con la Provincia Granda, le sue sette città, i suoi borghi. Ceduta la francofona nativa Savoia all'Impero di Napoleone III, che si spese per l’unità nazionale italiana, il Cuneese divenne la seconda “culla” della Casa. I suoi Castelli (da Racconigi a Valcasotto, in corso di recupero e rilancio all'attenzione universale) furono dimore abituali. Vittorio Emanuele III volle che a Racconigi nascesse il figlio Umberto, principe di Piemonte (15 settembre 1905), erede al trono.

   Nel Cuneese i Reali avevano rapporti diretti e spesso confidenziali con la popolazione, che non ne perse mai memoria. Nel referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 nella Granda la monarchia prevalse, come ad Asti, Bergamo e Padova, uniche quattro province per le quali essa era garanzia di continuità e stabilità.

  Non per caso le spoglie mortali di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nel dicembre 2017 furono traslate da Alessandria d'Egitto e dal cimitero di Montpellier al Santuario di Vicoforte, cuore della Granda, come sin dal 2013 concesso dal Vescovo di Mondovì, mons. Luciano Pacomio. Artefice dell'impresa che sembrava impossibile fu proprio la Principessa Maria Gabriella che (si legge nell'“Annuario della nobiltà italiana, 2015-2020” curato  da Andrea Borella) nel luglio 2006 venne delegata dal principe Amedeo di Savoia, duca di Aosta, a orchestrare la cultura storico-artistica fedele alla Tradizione. Che è quanto ha fatto, fa e farà.

 

Viva la memoria. A Fossano il monumento al fondatore dei Granatieri di Sardegna.

Statua di Re Carlo Emanuele II a Novara


di Aldo A. Mola

 

Un monumento a Carlo Emanuele II

Miracolo dell'Italia civile. Mentre molti abbattono monumenti, cancellano nomi di piazze e di vie (come a Napoli quella intitolata a Vittorio Emanuele III) e oscurano il passato con polemiche strumentali, a Fossano viene scoperto il monumento a un Duca di Savoia di metà Seicento. Non è il più famoso della sua Casata, quasi offuscato tra il nonno, Carlo Emanuele I, e il nipote, Vittorio Amedeo II. Il primo dei due, al potere dal 1580 al 1630, nel 1587 annesse il marchesato di Saluzzo e col trattato di Lione se lo fece riconoscere da Enrico IV di Francia. A quel modo chiuse una delle porte alpine solitamente usate dai Francesi, ai quali rimase aperta la Castellata, in alta Valle Varaita, raggiungibile in forze solo poche settimane d'estate. Vittorio Amedeo II visse a sua volta con l'arma al piede per difendere lo Stato dal minace vicino d'Oltralpe. Luigi XIV ripetutamente lanciò al di qua delle Alpi le sue armate, vittoriose a Staffarda nel 1690. I marescialli del Re Sole, come Catinat, fecero “terra bruciata”. Tornarono in Piemonte nel corso della guerra per la successione sul trono di Spagna, quando Torino stessa fu a lungo assediata e infine liberata dalle forze congiunte del duca e di suo cugino, Eugenio di Savoia: una vittoria che gli fruttò la corona di Sicilia (lo ricorda una lapide murata all'interno dell'Abbazia di Staffarda), successivamente commutata con quella di Sardegna.

 

Vicissitudini di un Duca di Savoia  

Carlo Emanuele II (20 giugno 1634-12 giugno 1775), come si è detto, non fu il più fortunato dei duchi sabaudi. Orfano del padre, Vittorio Amedeo I, a soli quattro anni, crebbe sotto l'occhiuta reggenza della madre, Cristina di Borbone, sorella del re di Francia Luigi XIII, entrata nella storia come Madama Reale, pronta sempre a interferire nella vita del figlio, in tempi nei quali per un principe non esisteva separazione tra vita pubblica e privata e i matrimoni erano questione di relazioni tra le due Case perennemente in lotta per l'egemonia sull'Europa di terraferma: gli Asburgo (d'Austria e di Spagna) e i Borbone di Francia.

Carlo Emanuele II non ebbe molte opzioni. Sposata a otto anni Francesca d'Orléans, con la pace dei Pirenei (1659) recuperò Vercelli ma “obtorto collo” dovette lasciare ai francesi Pinerolo, a un'ora di cavallo dalla capitale. Suoi obiettivi furono l'accentramento del potere nelle proprie mani con un graduale rinnovamento dei principali consiglieri, la rivendicazione di titoli “di pretensione” ormai quasi solo nominali (anzitutto le corone di Cipro e Gerusalemme), l'ingrandimento dello Stato in Liguria. Mete invano agognate furono Savona e Genova, ove tentò la sorte con il sostegno del patrizio genovese Raffaele Della Torre, ma fallì l'obiettivo e temporaneamente perse anche l'enclave di Oneglia.

Alla scelta mercantilistica e alla speciale benevolenza nei confronti degli ebrei di Nizza, raggiunti da correligionari dalle Fiandre e dal Portogallo, il duca unì accorti passi negli accordi commerciali con Lisbona (per accedere al Brasile) e con Londra (trattato di Firenze, 1669).

Vedovo dal 1665 e sposata la cugina Maria Giovanna Battista di Nemours, sin da giovane amatissima, ne venne assecondato in tutte le principali azioni, compreso l'abbellimento di Torino (furono gli anni di Guarini e di Castellamonte, geniale artefice di fortificazioni militari), e incoraggiato a valersi di “borghesi” di grandi capacità amministrative (fu il caso di Giambattista Truchi), “una sorta di Colbert piemontese”, annota lo storico Valerio Castronovo, che però ne conclude il profilo biografico con molte riserve sul mancato ingrandimento dello Stato e il perdurante “vassallaggio” verso la Francia.

Nondimeno, va evidenziato, nei dodici anni di esercizio effettivo del potere ducale (dal 1663 alla morte, quando aveva appena 41 anni) Carlo Emanuele II gettò le basi dell'esercito permanente di pace, come riconosciuto da storici quali Claretta, Carutti e dalla Storia della monarchia piemontese di Ercole Ricotti, punto di riferimento del più autorevole storico dell'Esercito italiano, il generale di CdA Oreste Bovio.

 

L'istituzione dei Granatieri: un corpo di élite...

Tra le istituzioni militari ideate da Carlo Emanuele II e destinate a durare nei secoli spicca il Reggimento di Guardia (o delle Guardie), costituito il 18 aprile 1659, il primo e più antico della fanteria di ordinanza, incaricato di montare la guardia al palazzo del principe in un'età ancora segnata da attentati alla vita dei sovrani, da “fronde” di varia germinazione e gestazione (anche su pulsioni religiose: il duca brillò per la devozione nei confronti della confessione cattolica, sublimata con l'edificazione della Cappella della Santa Sindone) e mentre in Inghilterra ancora era in corso l' “esperimento” di Cromwell, “lord protettore”.

La sicurezza del sovrano doveva fondare su basi rupestri. Furono quelle assicurate appunto dalla Guardia che nel 1685 con Vittorio Amedeo II vide crescere al proprio interno la specialità dei lanciatori di granate, i Granatieri. Era un corpo di élite, formato da uomini dotati di speciali qualità atletiche: statura elevata, forza muscolare, agilità sul campo.

Dalla fondazione esso fu tutt'uno con secoli di storia del regno di Sardegna e di quello d'Italia. I Granatieri legarono la loro fama alla guerra difensiva contro la Francia, tra il 1792 e il 1797. Quando Carlo Emanuele IV, lasciati gli Stati di Terraferma, si rifugiò in Sardegna, ove la Casa svolse una politica indipendente, l'unico reparto sfuggito allo scioglimento imposto dai francesi fu il Reggimento cacciatori Guardie, che poi prese nome da quello costituito nel 1744 da Bernardino Antonio Genovese, duca di San Pietro (“Reggimento di Sardegna”). Divenuto Reggimento Guardie, esso fu comandato personalmente da Vittorio Emanuele I, il Restauratore.

 

...nella Grande Guerra, a Fiume e oltre.

I Granatieri di Sardegna, come per semplicità qui li denominiamo e ricordiamo, si batterono nelle guerre per l'indipendenza, dal 1848-49 alla Grande Guerra: in quest’ultima, con una brigata di due reggimenti, essi lamentarono ben 12.202 vittime tra morti e dispersi e 14.110 feriti.

Successivamente, sette Granatieri del primo Reggimento, costretto a lasciare Fiume alla vigilia del trattato di pace italo-austriaco del 10 settembre 1920, giurarono “sulla memoria di tutti i morti per l'unità d'Italia: Fiume o morte! E manterremo, perché i granatieri hanno una fede sola e una parola sola. L'Italia non è compiuta. In un ultimo sforzo la compiremo”. Il loro appello a Gabriele d'Annunzio, sorretto anche da trame di cui furono protagonisti i fiumani Antonio Vio e Attilio Prodam, assecondati dal torinese Giacomo Treves, con il sostegno di Domizio Torrigiani e di Raoul Palermi, fu accolto. Il Vate di sicuro non agì all'insaputa del sovrano. Questo è però un aspetto della complessa vicenda fiumana  tuttora poco esplorato, ma illuminato dal conferimento a d'Annunzio del titolo di Principe di Monte Nevoso: fatto eccezionale, trattandosi dell’unico rango principesco concesso in 46 anni di regno da Vittorio Emanuele, che creò invece Paolo Thaon di Revel e Armando Diaz rispettivamente duchi del Mare e della Vittoria.

I Granatieri si coprirono di gloria nei conflitti successivi, dall'Etiopia alla seconda guerra mondiale e nella eroica difesa di Roma contro i tedeschi nel settembre 1943, da porta San Paolo al Campidoglio, preludio della lotta di liberazione che ebbe protagonista Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.

Ricostituito a Roma il 1° aprile 1948 come Divisione di fanteria Granatieri di Sardegna, il corpo ha poi avuto l'evoluzione in Brigata meccanizzata e ha partecipato a missioni di pace (Somalia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Libano...) e all'operazione  “strade sicure”, con interpretazione ampliata del ruolo originario di Guardia: chi garantisce il Capo dello Stato fa altrettanto per quanti rappresentano gli Stati esteri presso di lui.

L'omaggio di Fossano al fondatore dei Granatieri

Vi è quindi motivo perché i Granatieri di Sardegna siano sentiti quale parte integrante della storia secolare che unisce il ducato di Savoia all'Italia odierna e perché i Granatieri stessi ricordino il loro fondatore. Lo fanno domenica 29 agosto 2021 con iniziativa congiunta: lo scoprimento del monumento del loro fondatore, Carlo Emanuele II, a Fossano (Cuneo), presso il Castello prodigiosamente edificato in soli otto anni su ordine del principe Filippo d'Acaja.

Comune dal 1236, città dal 1566 per decreto di Emanuele Filiberto, diocesi dal 1592 (la quarta della Granda, dopo Alba, Mondovì e Saluzzo e secoli prima di quella di Cuneo, con la quale è in corso la “fusione”), Fossano ha una lunga e gloriosa storia politico-militare, civile ed ecclesiastica. Da metà Ottocento ne furono protagonisti Giovanni Battista Michelini, da un canto, e il vescovo integralista Emiliano Manacorda, Alessandro Michelini, il barone Giacomo Tholosan, Salvatore Sacerdote, i deputati Felice Merlo (primo presidente della Camera Subalpina), il generale Ignazio Pettinengo Genova, il geniale Giovanni Battista Borelli, il conte Falletti di Vllafalletto...

Principale snodo ferroviario tra Piemonte e Liguria verso Savona, Fossano fu una “piazza grande”, contesa e ambìta. Ora accanto al Castello il monumento di Carlo Emanuele II insegna che l'Italia ce l'ha fatta e ce la può fare, all'insegna del senso civico, dell'onore e di valori appresi dai suoi cittadini che si batterono per l'indipendenza, l'unità e la libertà della Patria. I Granatieri aprivano la strada...: esercitarono un Magistero che l'Italia odierna, proprio perché europea, sente l'attualità.

 


Ulteriori articoli pubblicati su 

Targato CN

Quotidiano piemontese


sabato 28 agosto 2021

Il programma di Nicola Caracciolo su Re Vittorio Emanuele III su Rai Storia

 Con intervista a Re Umberto II



Il programma televisivo è del 1979, ancora vivo Re Umberto, e fece molto rumore all'epoca. A Re Umberto non piacque il titolo "Il piccolo Re"

Se ne parla in diverse interviste rilasciate dal Re, sul sito www.reumberto.it.


Quando uno zapping fortunato consente la riscoperta di un piccolo tesoro.

Al seguente link tutte le puntate del programma:

https://www.raiplay.it/video/2021/08/Piccolo-Re-La-fine-di-un-regno-bf9948f7-d7fb-4185-aadc-e470763dd2eb.html



venerdì 27 agosto 2021

Il vetturino del Re Umberto I

di Emilio Del Bel Belluz

Ho tra le mani una copia del Corriere Lombardo, giornale pubblicato negli anni cinquanta a Milano, in cui ho trovato scritto la storia di Giovanni Rosa, uno degli ultimi vetturini di quella città. Passò tutta la vita con la sua carrozzella e con i suoi fedeli cavalli, ha girato in lungo e in largo la città di Milano e zone vicine. Giovanni, classe 1876, riuscì a percorrere la bellezza di 250 mila chilometri, seduto in cassetta, a trasportare le persone. 

Nel dopoguerra la gente non aveva molti mezzi e non c’erano molte alternative, andare in carrozzella alla fine, risultava un lusso. L’autore dell’articolo, Ignazio Scruto racconta di quest’uomo :” Il vetturino si chiama Giovanni Rosa ed ha 74 anni. E’ un ometto asciutto, tranquillo che in 56 anni di cassetta ha percorso quasi 250 chilometri, sempre per le stesse strade e con lo stesso trotto. Ha cambiato 500 cavalli, ha partecipato a 3000 funerali (fino all’epoca in cui l’automobile non ebbe il deciso sopravvento) e a 1500 matrimoni. Non ricorda il numero dei battesimi.

 La carrozza di Giovanni Rosa è una delle ultime quattro che si vedono ancora in circolazione a Milano. Le altre hanno pressappoco lo stesso stato di servizio. Il signor Giovanni è nato nel periodo in cui la città era graziosamente dominata dalle diligenze…e dalle carrozze stemmate.” Il suo lavoro consisteva nell’aspettare la gente fuori dai teatri, dai cinema, e accompagnarla a casa. Il vecchio Giovanni doveva essere un tipo preciso, ma soprattutto innamorato del suo lavoro e delle sue storie che raccoglieva quotidianamente dalla gente. 

Al mattino presto andava nella stalla, dava da mangiare al suo cavallo, e lo puliva con diligenza. Il cavallo faceva parte della sua vita, ne conosceva tutti i pregi e il suo cuore si era legato a quasi cinquecento ronzini. Il signor Giovanni aveva visitato tanti luoghi della città, affezionandosi ai suoi clienti abituali, tali da considerarli degli amici. 

Quanti anni a lavorare con la nebbia di Milano che non lasciava scorgere quasi nulla, ma faceva sentire la sua presenza quando la si respirava. Quando la città dormiva, talvolta, Giovanni con il suo il cavallo la percorreva per portare delle persone alla stazione. Ha potuto godersi veramente la sua città, prima che la sua quiete fosse stata cancellata dai mezzi di trasporto a motore. Quanto sarebbe stato bello poterlo conoscere, farsi portare nei luoghi incantevoli della città ed ascoltare le tante storie di vita che conosceva. 

La sua carrozza portava anche gli innamorati in giro per la città che potevano ammirare il cielo stellato e la felicità di quelli che si amavano era anche la sua. Nelle migliaia di persone che ha incontrato ci sono stati degli uomini che hanno fatto grande la città e l’Italia. “ Giovanni Rosa non è mai salito su una automobile. Non le può soffrire non perché gli hanno tolto la sicurezza del guadagno, ma perché hanno distrutto, egli dice, la vera poesia di Milano. 

I suoi compagni, gli altri fiaccherai, sono quasi tutti morti: non hanno sofferto a lungo dello sfacelo della categoria. Prima di morire si mettevano ancora in fila con malinconica tenacia, davanti alla Scala. Era un garbato tentativo. Alcuni da mezzo secolo facevano così e volevano richiamare l’attenzione degli spettatori sulla gentile consuetudine di fare una scarrozzata prima di andare a letto. Fatica inutile. Orami i tassì facevano la coda e nessuno più pensava d’incarrozzarsi. Si era smarrito il gusto delle passeggiate discrete di fine giornata. Tutti avevano fretta”. Nella vita tutto ha una sua fine e il mestiere del signor Giovanni è scomparso quasi dappertutto. 

Non restano che i ricordi. Nell’articolo mi ha colpito il fatto che Giovanni avesse portato nella sua carrozza il re Umberto I. Il sovrano viveva a Monza dove aveva la sua villa. Giovanni racconta che il re d’Italia giungeva alla chetichella, di sera, e si divertiva a farsi scarrozzare per le vie di Milano. Al sovrano piaceva non farsi riconoscere dalla gente e desiderava osservare indisturbato i suoi sudditi. Al buon Giovanni questa fortuna toccò molte volte e si sentiva felice d’essere stato il cocchiere del re d’Italia e non sapeva fare a meno di raccontare alla moglie ed ai suoi amici d’aver portato a spasso per la città il Re. 


Ironia della sorte, il vecchio sovrano Umberto I moriva in un attentato mentre era trasportato in carrozza, e di sicuro al vecchio Giovanni sarà scesa una lacrima

mercoledì 25 agosto 2021

I Savoia e la numismatica, non solo Vittorio Emanuele III

 Di Cronaca Numismatica -23 Agosto 2021163



Inizia già nel XVI secolo la “passione dinastica” dei Savoia per monete e medaglie che culminerà nella Collezione reale e nel Corpus Nummorum Italicorum

Emanuele Filiberto, duca di Savoia e primo nella dinastia a mostrare "simpatia" per la numismatica e la medaglistica come forme di collezionismo

Emanuele Filiberto, duca di Savoia e primo nella dinastia a mostrare “simpatia” per la numismatica e la medaglistica come forme di collezionismo

di Antonio Castellani

Non tutti sanno che il duca Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580), in occasione della costruzione della cittadella di Vercelli, il 25 dicembre 1560, stabilì che sarebbero state di sua proprietà “tutte le trove che si faranno di medaglie d’oro e d’argento o d’altro metallo, come vasi di terra e marmi et ogni altra antiquaglia”.

Una pratica comune, fra principi e regnanti del tempo, ma non si creda che il duca – passato alla storia con l’appellativo di “Testa di ferro” – decise di far ciò solo per accaparrarsi tesori e antichità. Contemporaneamente, infatti, il duca ordinò che si iniziasse una sistematica raccolta di monete e di medaglie antiche.

[...]

https://www.cronacanumismatica.com/i-savoia-e-la-numismatica-non-solo-vittorio-emanuele-iii/

Contea di Savoia: Amedeo VII, il Conte Rosso che puntò al mare

 Occupò e annesse Nizza, Ventimiglia e Barcelonnette



AVIGLIANA – Amedeo VII di Savoia detto il Conte Rosso visse tra il 1360 e il 1391. Fu conte di Savoia, d’Aosta, Moriana e Nizza dal 1383 al 1391. Fu detto conte Rosso a causa del colore dei suoi capelli, mentre secondo altri, si prese a soprannominarlo Conte Rosso poiché nel 1383, impegnato nelle Fiandre in una campagna militare in difesa del duca di Borgogna.

Alla notizia della nascita del proprio primogenito, abbandonò il lutto per la morte del padre, a favore di abiti rossi per festeggiare. Quando salì al potere, lasciò nei primi tempi il potere alla madre.

Amedeo salì al trono di uno Stato afflitto da gravi problemi economici. Le continue guerre del padre avevano prosciugato le finanze dello Stato, già di loro natura mai floride.

Per ottenere i fondi necessari alle imprese che meditava dovette faticare non poco. Già dalla sua ascesa al trono dovette affrontare i riottosi conti del Canavese e il Monferrato.

[...]

https://www.lagendanews.com/

sabato 7 agosto 2021

Ciao, zio Domenico.

Qualche tempo fa Zio Domenico ci aveva mandato una sintesi delle tappe importanti della sua vita monarchica.
Altre ve ne sarebbero da aggiungere, importanti, come l'incontro a Cascais con il Re ed il fatto che il Re fu suo testimone di  nozze tramite la procura del Generale Faldella. 
Storie belle ed importanti raccontateci nella sua bella casa di Roma, a tavola, con eleganza e semplicità. 
Tratti fondamentali della vita del Presidente (del Circolo Rex) 
Giglio.
Ogni volta che abbiamo scritto Presidente ci ha rimbrottato affettuosamente perché non specificavamo necessariamente cosa esattamente presiedesse e a lui davano fastidio titoli altisonanti.
Ma a noi piaceva chiamarlo Presidente perché oggettivamente era il nostro punto di riferimento. La risposta ad ogni dubbio. Il consiglio giusto che arrivava puntuale. Richiesto e non.
Abbiamo verificato che il nostro dispiacere è stato condiviso unanimemente da Persone ben più titolate e con maggiore storia alle spalle di noi e non siamo per nulla meravigliati.
Noi dal nostro piccolo siamo orgogliosi di averlo avuto come persona di famiglia, legati non solo dalla passione politica ma anche da un affetto vero, importante, sincero.

Rinnoviamo la nostra vicinanza alla famiglia Giglio consci dell'enorme che vuoto che lascia.

Ci mancherai tanto, Zio Domenico.








Domenico Giglio, nato a Roma l’8 novembre 1932, terminato gli studi classici compiuti all’Istituto Massimo e conseguita la maturità nel 1950 , si è laureato in Ingegneria Civile all’Università di Pisa. Dopo alcuni anni di libera professione è entrato nella Riunione Adriatica di Sicurtà , terminando la sua carriera come V. Direttore della società.

Iscrittosi il 4 gennaio 1952 al Fronte Monarchico Giovanile dell’Unione Monarchica e successivamente al Movimento Giovanile del Partito Nazionale Monarchico ricoprì diverse cariche a livello locale. Delegato al Congresso nazionale giovanile del novembre 1954 a Napoli fu eletto Consigliere Nazionale . Partecipò anche come delegato al Congresso Nazionale del PNM , tenuto a Milano il successivo dicembre.

Nominato nel 1956, Ispettore Regionale del Movimento Giovanile del PNM in Toscana, e Vice Commissario Provinciale della Federazione di Pisa, organizzando le liste per le elezioni amministrative del 1956 e tenendo numerosi comizi, nel successivo febbraio del 1957 , a seguito delle dimissioni del Segretario Nazionale dr. Renato Ambrosi de Magistris, fu, dallo stesso indicato come successore. Tenne perciò la segreteria nazionale giovanile fino al gennaio 1959. In questo periodo, come dirigente giovanile fece parte dei massimi organi direttivi del partito portandovi la voce e le proposte dei giovani monarchici che nelle successive elezioni politiche del 1958 furono in prima linea nell’attività propagandistica del partito. Quale componente la Direzione del PNM tenne numerosi comizi in varie città italiane da Trieste a Roma.

Terminato il suo incarico, insieme con altri giovani che si erano distinti nelle elezioni del 1958 fondò la corrente di “Rinnovamento Monarchico”, per il ripristino della denominazione monarchica del partito riunificatosi che prese parte attiva nel successivo Congresso Nazionale del P.D.I., che divenne PDIUM (partito democratico italiano di unità monarchica). Eletto Consigliere Nazionale continuò in tale sede la battaglia per il rinnovamento del partito in polemica con la segreteria nazionale.

Nel 1972, al successivo congresso nazionale respinse, insieme con numerosi altri dirigenti, l’assorbimento del PDIUM da parte del MSI, costituendo il gruppo di “Alleanza Monarchica” di cui fu Segretario Nazionale fino al 1977, divenendone Presidente . Dal 1969 fece parte del Comitato Direttivo del Circolo di Cultura”REX”, divenendone dal 1983 V. Presidente e Presidente dal 2014. Nel periodo dal 1960 al 1975 fece anche parte della Giunta Esecutiva dell’Unione Monarchica e dal 1961 al 1965 diresse il periodico “Critica Monarchica”. E dal 1994 fa parte della Consulta dei Senatori del Regno.

Tenne numerose conferenze sui più variati temo storico politici anche esteri oltre a scrivere altrettanto numerosi articoli su riviste ed altri periodici.

martedì 3 agosto 2021

E' mancato l'Ingegnere Giglio, presidente del Circolo Rex

 Carissimi amici,

con profondo dolore siamo a comunicarvi la scomparsa di un'altra colonna portante del nostro mondo monarchico oltre che del Blog sul quale ci seguite.

Parlare del Presidente Giglio, che per noi è zio Domenico, è superfluo per quelli che seguono il nostro blog ed il gruppo facebook dedicato a Re Umberto II.

Nel corso degli anni abbiamo imparato a conoscere la sua profonda cultura storica, il suo coerente approccio monarchico ai problemi presenti e passati, la preoccupazione costante di tenere accesa una fiamma monarchica.
Dalla sua passione scaturiva la collaborazione con ogni iniziativa monarchica, dalla presidenza prestigiosa al circolo Rex, agli articoli per mille giornali, alle lettere al Corriere della sera, alla affettuosa e quasi quotidiana vicinanza con il nostro blog, sempre prodigo di notizie, informazioni, correzioni paterne, fatte con affetto a quelli della nostra generazione che non hanno fatto in tempo a crescere in ambienti monarchici organizzati ma non per questo meno appassionati e meno devoti alla causa monarchica ed alla memoria di Re Umberto II e di Re Vittorio Emanuele III.

Oggi il nostro blog abbruna la sua bandiera del Regno ed affida alle preghiere di tutti i monarchici il nostro zio  Domenico.

Alla Famiglia Giglio il nostro abbraccio e la nostra vicinanza affettuosi. 

Non è una frase fatta dire che condividiamo un dolore grande.

Ciao, zio Domenico!




lunedì 2 agosto 2021

La festa delle Bandiere: il Re Soldato alla riscossa (1919-1920)

 

Risalire la china...

A pagina 55 dell'Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896 Vittorio Emanuele III annotò: “1921. Novembre 1°- Roma; 4 - (Funzione per l'Ignoto Milite). 5 - San Rossore. 23 - Roma, Viva l'Italia!!!”. Nel novembre dell'anno precedente aveva appuntato: “Novembre 2 - Roma (Villino Maria); 4 - (Festa delle Bandiere). 6 - Pisa (Gombo); 12. Roma (Villino Maria). 28 - Roma (Villa Savoia); Dicembre. 19 (Trattato di Rapallo). Viva l'Italia!!”. L'ultima delle ventuno date per lui notevoli e ricordate nell'Itinerario generale del 1919 era stata: “Dicembre, 1°- (XXV Legislatura)”. All'estero nessuno metteva in discussione l'identità tra lo Stato italiano e la monarchia, incarnata in Vittorio Emanuele III. In Italia, invece, cresceva, sempre più chiassosa, l’opposizione contro le Istituzioni. Se ne ebbe la prova proprio tra l'inaugurazione della XXV Legislatura, il 1° dicembre 1919, e il settembre 1920, quando la sinistra rivoluzionaria scatenò l'occupazione delle fabbriche. Parecchi temettero che l'Italia stesse per fare la fine dell'impero zarista soggiogato dal marxismo-leninismo. Ma, incardinate sulla Corona, le istituzioni ressero. La riscossa ebbe il punto forte nella Festa delle Bandiere celebrata all'Altare della Patria il 4 novembre 1920, un anno prima della tumulazione del Milite Ignoto, di cui parleremo ancora.

La centralità del re nella traslazione e nella tumulazione del Soldato Ignoto all'Altare della Patria è pressoché assente nella storiografia, comprese le opere dedicate al Vittoriano ed al Milite Ignoto. Eppure Vittorio Emanuele III saldò il significato simbolico della Tumulazione con l'Istituzione suprema dello Stato, la monarchia rappresentativa, divenuta popolare con l'introduzione del suffragio universale maschile (1912-1919), mentre il Parlamento stava varando il diritto di voto femminile per l'elezione delle amministrazioni locali. Per comprendere appieno il ruolo del sovrano nella più importante cerimonia pubblica svolta in Italia dalla proclamazione del regno al suo tramonto, occorre risalire appunto al novembre di due anni prima.

Nel 1919 la Corona, le forze armate e gli istituti rappresentativi centrali e locali erano bersaglio dell'offensiva in corso da parte di ideologie e partiti convergenti nella “condanna” della monarchia quale pilastro dello Stato che, sorto dal Risorgimento e dalle guerre per l'indipendenza, aveva retto alla prova severa della grande guerra. A quelle della sinistra estrema si aggiungeva la virulenta polemica di “movimenti” che tacciavano la Corona di inerzia, se non di pavidità, dinnanzi alla guerra civile strisciante in atto nel Paese, confondendo la pazienza con la rassegnazione alla sconfitta: esattamente l'opposto di quanto pensava Vittorio Emanuele III.

 

Presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e ancora con Sidney Sonnino agli Esteri il governo di transizione tra guerra e dopoguerra al Congresso di pace di Parigi non ottenne il pieno riconoscimento dei “compensi” elencati nell'arrangement di Londra del 26 aprile 1915, né, meno ancora, Fiume, che dal 3 novembre 1918 esso aveva creduto di “presidiare” con l'invio di una squadra navale su ordine del grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel in risposta alla sollecitazione del Consiglio nazionale fiumano e di altri emissari della città. Costretto alle dimissioni (23 maggio 1919) alla vigilia della firma del Trattato di pace con la Germania (28 maggio), il governo Orlando-Sonnino lasciò la sua pesante eredità al nuovo presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, incline a blandire le maggiori forze di opposizione attive nel Paese (i socialisti e, dal gennaio 1919, il Partito popolare italiano sorto su impulso di don Luigi Sturzo) per attenuarne l'ostilità e soprattutto per impedire il ritorno al potere di Giovanni Giolitti, nei cui confronti egli si sentiva non “avversario” ma “nemico”. In tale prospettiva il 15 agosto 1919 Nitti varò la nuova legge elettorale con riparto proporzionale dei seggi sulla base dei voti ottenuti dai partiti nei 54 collegi elettorali del Paese e sottovalutò la risposta di un ampio ventaglio politico e militare alla pace italo-austriaca detta di Saint-Germain (10 settembre 1919), considerata mortificante conferma della “vittoria mutilata”. Due giorni dopo il suo annuncio, Gabriele d'Annunzio capitanò la “marcia di Ronchi” (più improvvisata di quanto poi sia stato narrato) e irruppe in Fiume alla guida di un reggimento di Granatieri di Sardegna e di altri militari in assetto di guerra. L'“impresa” si sostanziò nel successo d'immagine per il Comandante, ma risultò subito priva di avallo internazionale e di prospettive politiche, perché il governo italiano non poteva assecondare la violazione armata dei precari equilibri postbellici né rimanere inerte dinnanzi alla diserzione di reparti militari, deprecata da figure diversissime quali Giovanni Giolitti, Luigi Cadorna, già comandante supremo dell'esercito sino al 9 novembre 1917, e Luigi Federzoni, lealista proprio perché nazionalista.

 

I vertici militari sotto scacco: “socialisti” e “altri”....

 

Dall'estate 1919 la “questione militare” divampò con la pubblicazione del 2° volume dell’“Inchiesta su Caporetto”, anticipata nella maggior parte dei giornali come solenne deplorazione dei vertici dell'esercito. Se non alla Camera dei deputati, in molti “circoli” e giornali la polemica salì di tono sino a lambire la soglia del Quirinale. Capo delle forze di terra e di mare per Statuto, il sovrano “non poteva non sapere”. Proprio perché, a differenza degli altri capi di Stato coinvolti nel conflitto, Vittorio Emanuele III sin dall'intervento in guerra aveva lasciato Roma alla volta della zona delle operazioni belliche, da lui quotidianamente visitata in dialogo costante con Cadorna e Armando Diaz, susseguitisi al Comando Supremo, il suo merito di “re soldato” veniva capovolto, come fosse culpa in vigilando.

Il 20 ottobre 1919 il governo Nitti dichiarò festivo il 4 novembre in ricordo della vittoria dell'Italia, ma ne rinviò la celebrazione all'indomani delle votazioni, fissate per il tardivo 16 seguente. Sin da metà settembre era stato ventilato il programma di massima degli onori dovuti ai caduti: l'incisione di tutti i loro nomi sui marmi dell'Altare della Patria e una messa solenne a Tor di Quinto, celebrata da monsignor Angelo Bartolomasi, già vescovo castrense, alla presenza del re. Le cerimonie però si svolsero in tono minore a Trento (2 novembre), Trieste e Roma (il 3), ove rappresentanti del governo e delle forze armate resero omaggio all'Altare della Patria, ma in assenza del sovrano.

Il 24 agosto il colonnello Giulio Douhet (1869-1930, curioso caso di militare perennemente in lotta contro i “comandanti”) pubblicò nel suo settimanale “Il Dovere” l'ordine del giorno approvato il 17 luglio precedente dall'UNUS (Unione nazionale ufficiali e soldati) e dalla “Garibaldi. Società dei reduci delle patrie battaglie”. L'appello propose la tumulazione al Pantheon di Roma, “simbolo della grandezza di tutti i soldati d'Italia”, della salma di un militare non identificato, caduto in combattimento sul campo. Era il doveroso tributo di “sommo onore” al “soldato”, “quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione”: il “risarcimento” per l'“ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri” antipatriottici e per la “calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità”. A quel modo, contrapponendo i combattenti ai comandanti, bersaglio di strali dai toni non molto diversi da quelli usati dagli antimilitaristi, egli rinfocolava le polemiche divampate l'anno prima a ridosso della pubblicazione dell'Inchiesta su Caporetto. Al di là di quanto si prefiggesse, il suo intervento risultò quindi divisivo, anche perché lo accompagnò con un libello offensivo non solo nei confronti di Cadorna, da lui odiato e additato al disprezzo nazionale, ma di tutti i vertici militari.

Contrapporre i “soldati” agli alti gradi era l'opposto di quanto potessero augurarsi il governo (alle prese con il difficile e laborioso riassetto dei quadri), le forze costituzionali e il re stesso, capo delle forze di terra e di mare, incardinate sulla leva obbligatoria, e quindi nettamente contrario alla divaricazione tra le istituzioni (quali erano i “comandanti”) e il “Paese”, di cui le forze armate erano espressione.

All'opposto di quanto predicato da Douhet, il re mirava a risanare la clamorosa lacerazione aperta dai socialisti il 1° dicembre 1919 all'inaugurazione della XXV legislatura, annotata nell'Itinerario. Il sovrano iniziò il discorso della Corona affermando che le Camere avevano “dinanzi a sé un vasto compito, quale forse niuna altra ebbe fino ad ora”. Uscita vittoriosa “dalla più grande guerra che sia mai stata e avendo avuto l'onore di realizzare la prima grande vittoria che ha deciso il conflitto mondiale”, l'Italia sentiva il bisogno di “dirigere tutti i suoi sforzi verso le opere di pace”. Volto il pensiero “rispettoso ai nostri morti, agli eroi caduti per la Patria” precisò: “L'Italia non voleva la guerra né era disposta ad averla. Accettò la guerra come un terribile dovere per il trionfo della giustizia”. “Pax in iure gentium” era stata l'insegna del convegno promosso dalla “Corda Fratres”, la Federazione studentesca internazionale guardata con benevolenza dal sovrano.Vittorio Emanuele III sottolineò che l'Italia non aveva mire imperialistiche sull'Adriatico, ma “la difesa delle popolazioni di lingua e di razza italiana” costituiva “un imprescrittibile dovere, oltre che un imprescrittibile diritto”. Non si poteva consentire al nazionalismo serbo-croato-sloveno, alimentato e protetto dalla Francia, quanto era stato negato all'impero austro-ungarico. Per parte sua l'Italia si impegnava al rispetto delle autonomie e delle tradizioni vigenti nelle “nuove terre riunite all'Italia”.

Il re esortò alla disciplina, a incrementare la produzione, a riordinare la finanza e il credito. Forte di quasi quaranta milioni di uomini, con altri dieci milioni di italiani o figli di italiani sparsi nel mondo, l'Italia era “uno dei più grandi nuclei nazionali”. La sua compattezza costituiva la garanzia del futuro, come aveva già mostrato la vittoria, “non risultante di un caso, ma dello sforzo di tutte le anime e del sacrifizio di tutto il popolo”.

Quando “il re del 24 maggio, di Peschiera e di Vittorio Veneto” stava per parlare i deputati del partito socialista (156 su 508, quasi un terzo degli eletti) uscirono dall'Aula cantando l'Internazionale. L'appello all'unità per la ricostruzione fu respinto prima ancora di essere udito.

Restaurare lo Stato

La XXV legislatura ebbe tre fasi. La prima comprese i suoi primi sette mesi e si concluse con l'esaurimento della presidenza di Francesco Saverio Nitti. A metà marzo 1920 dopo varie traversie questi operò un rimpasto ministeriale così vasto che alcuni lo classificano impropriamente come suo secondo governo. La nuova compagine, con l'esclusione dei rappresentanti del partito popolare, risultò indebolita. Lasciati tutti i principali nodi della politica internazionale e interna, rassegnate le dimissioni e avuto il reincarico per indisponibilità dei parlamentari consultati dal re, Nitti varò un nuovo ministero comprendente demo-costituzionali di varia denominazione, popolari e massoni, subito deferiti all'alta corte di giustizia del Grande Oriente d'Italia perché collusi con i cattolici nel governo del Paese.

Seguì la seconda fase. In una intervista alla “Tribuna” diretta da Olindo Malagodi il 27 maggio 1920 Giolitti “sfiduciò” il governo Nitti ed enunciò il programma indilazionabile: restituire dignità al Parlamento, conferendogli il controllo della politica estera, ed “evitare con radicali immediati provvedimenti il fallimento dello Stato, che travolgerebbe in una comune rovina tutte le classi dello Stato”. Si rivolse alla “maggioranza silenziosa” contro la tirannia delle minoranze rumorose (nazionalisti da un canto, socialmassimalisti fautori dell'adesione alla Terza Internazionale di Mosca dall'altro).

Da tutti indicato al re quale l'unico in grado di guidare la ricostruzione del Paese, il 16 giugno Giolitti formò il suo quinto governo. Rispetto al programma enunciato nel discorso del 12 ottobre 1919, anticipato su capisaldi fondamentali sin dall'agosto 1917, egli mirò ad ampliare il consenso del “Paese che lavora”, con occhio di riguardo al rinnovo dei consigli comunali e provinciali in carica dal 1914. A tale scopo Giolitti favorì la formazione capillare di “blocchi” comprendenti “liberali”, democratici (ex socialisti riformisti ed ex radicali), combattenti, nazionalisti, “industriali”, “agrari” e “fascisti”, il cui programma era ancora variegato: un ventaglio di forze che, messa da canto l'antica e ormai anacronistica contrapposizione tra interventisti e “neutralisti condizionati”, mirava alla restaurazione dello Stato e dei pubblici poteri, dal governo centrale a quello locale. In tale ottica risultò fondamentale la rivendicazione della Vittoria quale espressione della nazione, sacrificio corale degli italiani e celebrazione dell'unità dei cittadini. Questa aveva due insegne inderogabili: la Corona e la leva militare, da secoli cardine dello Stato sabaudo, che si riassumeva nelle forze armate e nelle sue insegne, come più volte ribadito dal generale Oreste Bovio nella sua insuperata Storia dell'Esercito Italiano (Ufficio Storico SME, via Etruria 23, Roma).

 

La Festa delle Bandiere: 4 novembre 2020

Di lì l'ideazione della Festa delle Bandiere da celebrare all'Altare della Patria il 4 novembre 1920 proprio mentre avevano corso le elezioni amministrative. Le bandiere furono prospettate quale segnacolo dell'unità tra istituzioni e “popolo” in un Paese che nella Grande Guerra aveva vissuto la prima vera prova di “nazione”, con le allarmanti e vistose eccezioni fatte registrare dall’elusione dell'obbligo di leva (sino al 90% in distretti molto lontani dal fronte), da diserzioni e da automutilazioni. La bandiera era simbolo della Vittoria e al tempo stesso il velo della Patria steso sui caduti, senza distinzione tra fanti e graduati, tra quelli degnamente sepolti e gli altri, inumati in circostanze eccezionali che spesso imposero sepolture provvisorie. L'adunata delle bandiere reggimentali all'Altare della Patria il 4 novembre 1920 celebrò la “nazione alle armi”, altra cosa dalla “nazione armata”, propugnata dai rivoluzionari di varie tinte, tutti anti-sistema.

A fronte della modesta diffusione di quotidiani e riviste illustrate la Festa organizzata nella Città Eterna fu replicata da una moltitudine di manifestazioni locali, tese a sublimare il lutto di milioni di famiglie, che direttamente o indirettamente avevano patito e lamentavano morti, mutilati, feriti, prigionieri, spesso vissuti in condizioni avvilenti e talvolta guardati con sospetto e degnazione al loro rimpatrio, “dispersi” e “caduti senza croce”.

Non si comprende l'importanza della svolta segnata dalla Festa delle Bandiere se non si ricorda che appena due mesi prima l'Italia aveva vissuto l'occupazione delle fabbriche promossa dall'ala rivoluzionaria del partito socialista. Mentre l'Armata dei soviet russi avanzava in Polonia e in altri Paesi dell'Europa centro-occidentale i partiti aderenti alla Terza Internazionale insorgevano, in Italia l'“Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, Angelo Tasca e Palmiro Togliatti agì nella convinzione di rovesciare la borghesia e travolgere il regime statutario. Senza ricorrere all'esercito, Giolitti attese che l'occupazione si esaurisse da sé e varò la mediazione. Una lunga trattativa orchestrata da Arturo Labriola, massone e ministro del Lavoro, approdò alla partecipazione degli operai agli utili d'impresa, non al suo governo. Da progetto rivoluzionario l'“occupazione” fu ridimensionata a vertenza sindacale. Era la vittoria dello Stato, non pienamente compresa da chi, come Luigi Albertini nel “Corriere della Sera”, bollò Giolitti quale “bolscevico dell'Annunziata”, offendendo così non solo lo statista, ma anche chi lo aveva nominato “cugino del re” e presidente del Consiglio.

Undici mesi dopo la diserzione dei socialisti dall'Aula di Montecitorio Vittorio Emanuele III fu al centro della Festa delle Bandiere celebrata all'Altare della Patria il 4 novembre 1920. Accompagnato dai cugini Emanuele Filiberto, duca di Aosta, Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi, e Vittorio Emanuele, conte di Torino, e seguito dalla madre, Margherita di Savoia, con la Regina Elena, dal principe ereditario e da Amedeo di Savoia-Aosta, duca delle Puglie, al centro di uno stuolo di politici, militari, diplomatici, alti dirigenti e al cospetto di una miriade di cittadini, il re ricevette l'omaggio di una folla che (scrisse “Il Messaggero”) “giurò fedeltà alla Patria”. Anche il “Corriere della Sera” convenne che la manifestazione aveva “riaffermato la figura del re come simbolo dell'unità nazionale”. Alla vigilia, presente il re, il cappellano di corte, monsignor  Giuseppe Beccaria (lo ricorda Tito Lucrezio Rizzo in Il Clero Palatino tra Dio e Cesare, ed. “Rivista Militare”), aveva benedetto le 335 Bandiere esposte nella Sala dei Corazzieri del Quirinale. Il 12 seguente Giolitti chiuse il contenzioso con la Jugoslavia con il trattato siglato a Rapallo. Un mese dopo l'occupazione delle fabbriche l'autorità dello Stato era rivendicata all'interno e all'estero. I risultati delle elezioni amministrative registrarono un'ampia affermazione dei blocchi moderati contro le forze anti-sistema. Negli undici mesi dalla drammatica inaugurazione della XXV Legislatura il Paese sembrava aver superato la fase più acuta della malattia postbellica. La tumulazione del Milite Ignoto venne quindi prospettata quale suggello dell'Unità nazionale, basata non sulla contrapposizione tra ceti, gradi, ruoli sociali e opinioni ma sulla concordia dei cittadini e sulla libertà della Patria.

Aldo A. Mola

domenica 1 agosto 2021

La Regina Elena del Montenegro, la mamma dei poveri

 di Emilio Del Bel Belluz



Lo scrittore Carlo Delcroix scriveva in un suo libro alcune pagine molto belle sulla Regina Elena, che andrebbero rilette per capire chi era veramente quella donna ed il bene smisurato che aveva nei confronti dell’Italia. Una delle frasi che disse prima di morire fu: “Tutti li benedico perché sono figli dell’Italia”. 

Quelle parole riassumevano la grandezza e la nobiltà di cuore che possedeva. La Regina era prima di tutto una mamma, non solo per i suoi figli, ma per tutti coloro che soffrivano. Durante la guerra era stata la mamma degli italiani, soprattutto, dei soldati feriti che invocavano prima di morire la sola parola che da bambini avevano imparato per prima: “Mamma”. 

La Regina infaticabile tendeva la mano a quei soldati che riconoscendola si sentivano meno soli e disperati. La Chiesa da anni ha avviato la causa di beatificazione e nel 2001 è stata nominata Serva di Dio, ma tanti italiani non ne sono a conoscenza.  

La Regina Elena del Montenegro seguì suo marito Re Vittorio Emanuele III in esilio, dapprima, in terra d’Egitto ospiti di Re Faruk, poi alla morte del marito andò in Francia a Montpellier. Nel viaggio che l’avrebbe portata in Francia non le fu permesso dal Governo italiano di attraccare al porto di Napoli. Con molta tristezza disse: “Deve essere una repubblica molto debole quella italiana, se qualcuno teme che una vecchia signora possa creare disordini o fomentare rivoluzioni”. 

La Regina per evitare incidenti scelse una via diversa di navigazione. Come pure, alla morte del Re Vittorio Emanuele III, non aveva permesso al Re Umberto II di sorvolare il cielo d’Italia, per andare a rendere l’ultimo saluto a suo padre in Egitto. In questi giorni ho donato una statua della Madonna ad una suora che ritornava nel suo Paese, il Togo, dove tra le sue amate persone avrebbe continuato la sua missione.  Questa statua l’ho data in ricordo di mia madre e della Regina Elena che fece tanto bene al suo Paese e che lo amò fino all’ultimo respiro. 

Nel mio cuore c’è la speranza che anche in Togo si possa conoscere l’amore che la Regina aveva dato a tutti. La Signora della carità aveva sempre sperato di poter tornare in Italia, si sarebbe occupata dei poveri, delle persone che gli erano più care e che sentiva vicine. 

Suo figlio, Re Umberto II disse: “Aveva il grande dono di amare e di farsi amare da tutti”. Per certi aspetti assomigliava a Santa Maria Teresa di Calcutta, che diceva di non lasciare mai nessuno senza stringergli la mano nel momento del trapasso. La Regina Elena si poteva paragonare ad una candela che si consumava per illuminare gli altri.