NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 31 marzo 2015

IL REGNO D’ ITALIA E L’IRREDENTISMO

da https://archivioirredentista.wordpress.com
di Domenico  Giglio 

Quando  il  17  marzo  1861  viene  proclamato  il  Regno  d’ Italia, l’ unità  è  ancora  incompleta  perché  mancano  il  Veneto   ed  il  Lazio, con  Roma, (designata  come  futura  Capitale  fin  da  Cavour),  che  verranno  acquisite  al  Regno  rispettivamente  nel  1866  e  nel  1870. E’  così  del  tutto  completa  l’ Unità  d’ Italia? In  effetti  manca  il  Trentino, perché  Garibaldi  che  vi  era  penetrato  durante  la  terza  guerra   d’indipendenza, ed  aveva  vinto  gli  austriaci  a  Bezzecca, dovette  fermarsi, vedi  il  famoso  telegramma  “ Obbedisco”, per  poi  retrocedere  e  mancava  la  Venezia   Giulia, con  Trieste, il  più  importante  porto  commerciale  dell’ Impero  Austro-Ungarico, e  con  Pola, la  baia  dove  aveva  rifugio  sicuro  e  quasi  impenetrabile  con  i  mezzi  dell’epoca  l’Imperial  Regia  Marina.
Queste  mete  non  raggiunte  nel  1866  erano  un  miraggio  lontano  perché  il  periodo  di  pace  seguito  in  tutta  l’Europa, all’ epoca  signora  del  mondo, alla  guerra  Franco-Prussiana  del  1870, non  lasciava  ipotizzare   alcuna  maniera  per  acquisirle  sia  pacificamente  sia,  tanto  meno,  militarmente.
Il  giovane  Regno  d’ Italia  aveva  davanti  a  sé  colossali  problemi  delle  più  varia  natura, specie  le  infrastrutture  mancanti  in  quasi  tutta  l’Italia  Centrale  e  Meridionale, che  assorbivano  gran  parte  delle  sue  modeste  risorse  economiche. Alle  spese  militari  quindi  non  poteva  essere  dedicata  che  una  parte  modesta  del  bilancio  statale, e  di  queste  molto  era  concesso  al  potenziamento  della  Regia  Marina, per  ovvi  motivi  geopolitici. Inoltre  in  Europa, erano  cambiate  diverse  cose  e  la  Francia, che  con  Napoleone  III, nel  1859  era  stata  nostra  amica  ed  alleata  ed  ancora  tale  si  era  dimostrata   e  comportata  nel  1866, ora  divenuta  repubblica, sembrava  quasi  pentita  di  aver  favorito  l’ Unità  d’Italia, malgrado  il  regalo  di  Nizza  e  della  Savoia, e  l’Austria  non  considerava  definitiva  la  perdita   del  Lombardo-Veneto.
Per  questi  motivi  si  era  quasi  dovuto   procedere, governando  Depretis   e  la  “Sinistra  Storica”, alla  stipula  di  un  trattato, nel  1882, con  gli  Imperi  Germanico  ed  Austro-Ungarico: la  “Triplice  Alleanza”. Questa  ci  metteva  al  riparo  da  rivincite  austriache  o  da  velleità  francesi, essendo  una  alleanza  esclusivamente  difensiva, che  sarebbe  scattata  solo  se  uno  dei  tre  contraenti  fosse  stato  attaccato, da  altre  Potenze, mai  se  avesse  invece  attaccato. Perciò  come  si poteva  onestamente  parlare  di  Trento  e  di  Trieste? Il  problema, che  chiameremo  “irredentismo”  esisteva, era  latente  e  ne  seguiremo  gli  sviluppi, ma  non  poteva  essere  recepito  e  fatto  proprio  dallo  Stato  italiano, retto  dalla  monarchia  dei  Savoia. I  Re  sapevano? Certamente, ma  erano  ormai  monarchi  costituzionali  ed  esisteva  il  Parlamento, con  le  sue  maggioranze. Quanto  a  Casa  Savoia, era  ingeneroso, se  non  peggio, accusarla  di scarsa  passione  nazionale, quando  dando  origine  al  Risorgimento, con  Carlo  Alberto,  si  era  giuocata  per   l’unità   il  tutto  per  tutto. Tipica  la  frase  di  Vittorio  Emanuele  II  che  aveva  detto  che  altrimenti  sarebbe  diventato   “Monsù  Savoia”, e  anni  ed  anni  dopo  Vittorio  Emanuele III, avrebbe  osservato  che  solo  il  nonno   era  morto  nel  suo  letto : Carlo  Alberto  era  morto  solo  in  esilio  ad  Oporto, ed  il  padre  Umberto  I, era  morto  assassinato, e  quando  diceva  questo  non  sapeva  che  anche  Lui  ed  il figlio  Umberto, sarebbero  morti  in  esilio  e  che  in  esilio  sarebbero  state  anche  le  loro  tombe!
Irredentismo è  un  termine  che  indica  l’aspirazione  di  un  popolo  a  completare  la  propria  unità  territoriale, acquisendo  terre  soggette  al  dominio  straniero  sulla  base  di  una  identità  etnica, linguistica  e  culturale. Esso  trovava  terreno  più  fertile  nella  opposizione  repubblicana, che  ne  faceva  motivo  di  polemica  politica  antigovernativa   e  non  voleva  comprendere  la  necessità  che  la  politica  estera  del  Regno, non  ponesse  in  risalto  queste  rivendicazioni.  “Terre  irredente”, ed  “irredentismo”, sono  parole pronunciate  per  la  prima  volta  nel  1877, dinanzi  alla  bara  del  padre  Paolo  Emilio, da  Matteo  Renato  Imbriani, divenuto  repubblicano  dopo  il  1866, e  deputato  dal  1889, le  cui  convinzioni  irredentistiche  divennero  la  ragione  stessa  della  sua  vita, finché  non  lo  colse  la  morte  nel  1901. “Pensarci  sempre, non  parlarne  mai“ era  in  realtà  il  pensiero  di  molti  in  Italia, come  lo  era  in  Francia  per  l’ Alsazia  e  Lorena, che  le  erano  state  strappate  dalla  Germania  dopo  la  guerra  del  1870.
Periodicamente  vi  erano  eventi  che  davano  rinnovato  slancio  a  sentimenti  patriottici, come  fu  l’impiccagione  di Oberdan(k)  il  20  dicembre  1882, lo  scoprimento  a  Trento, della  grande  statua  in  bronzo, di  Dante , opera  dello  scultore  italiano  Zocchi,  o  la  partecipazione  di  una  squadra  di  giovani  atleti  trentini, ad  alcune  gare  atletiche, la  sera  del  29  luglio  1900  a  Monza.  Il  Re  Umberto, non  dimentichiamo  che  come  giovane  Principe  aveva  combattuto  a  Custoza, nel  1866  contro  gli  austriaci, resistendo  alle  cariche  degli  ulani  nel  famoso  “quadrato  di  Villafranca, l’aveva  voluto  onorare con  la  sua  presenza   e, prima  di  cadere  sotto  il  piombo  assassino  dell’anarchico  Bresci, aveva   donato  a  questi  giovani  una  statua  della  libertà. Tale  presenza    Giovanni  Pascoli, sottolinea  nell’ ode  “Al  Re Umberto”,: “…Tu, Re  salutavi  l ‘ Italia  del  Liberi  e Forti..”, (nome  della  società  sportiva  trentina), e  prosegue   precisando   che  tra  le  bandiere  presenti   quella  sera  : “…ed  al  vento , tra  gli  altri  cognati  vessilli, batteva  il  vessillo  di  Trento…”. Ed  a  questo  proposito  proprio  la  morte  del  Re  dette  luogo  a  commosse  manifestazioni   di  lutto  nelle  “terre  irredente”, rafforzandone  i  sentimenti  di  italianità.
Posizione  difficile  per  il  Governo  quella  di  mantenere  l’alleanza  con  l’Austria  e  non  dimenticare  gli  irredenti, per  cui  l’Italia  aveva  dato  ospitalità  e  riconoscimenti  a  tanti  italiani   provenienti  dalle  “terre  irredente”, ed  a  titolo indicativo, ma  non  esaustivo, ricordiamo  Oreste  Baratieri, nativo  di  Trento, divenuto  generale  del  Regio  Esercito, Salvatore  Barzilai, di  Trieste, eletto  deputato  in  un  Collegio  di  Roma , Vittorio  Italo Zupelli, di  Capodistria, divenuto  addirittura  Ministro  della  Guerra,  e  professori  universitari  come  Graziano  Ascoli, di  Gorizia, docente  di  linguistica  a Milano, e  Giacomo  Venezian, di  Trieste, docente  di  diritto  a  Bologna,che  ultracinquantenne  sarebbe  caduto   combattendo  sul  Carso, il  20 novembre  1915, ed  un  giornalista  e  scrittore  di  Zara, Arturo  Colautti, particolarmente  esperto  di  problemi  navali. Tipico  del  problema   governativo  è  l’atteggiamento  di  un  Francesco  Crispi, che  non  può  essere  accusato  di  scarsa  passione  unitaria, il  quale  ufficialmente  aveva  condannato  l’irredentismo, mentre  poi  finanziava  la  “Dante  Alighieri”, associazione  nata  nel  1889, fra  i cui  fondatori  era  stato  anche  il  Venezian, da  noi  ricordato, con  il  chiaro  scopo  di  rivendicare  la  nostra  cultura, anche  fuori  dei  confini. Ma  i  legami  e  l’attaccamento  all’ Italia  di  trentini, triestini, avevano  radici  profonde, e  se  ne era  avuta  già  manifestazione  al  risvegliarsi  della  passione  e  della  volontà  di  unità  e  di  indipendenza  nazionale  nel  Risorgimento, con  le  vicende  della  difesa  della  libertà  di  Venezia  nel  1848-1849, dove  numerosi  erano  stati  i  combattenti  ed  i  caduti  provenienti   da  queste  terre, e  così  pure  nel  1859, dove  nell’ Esercito  Sardo  militavano  trentini  ed  istriani, e  due  di  essi, gli  ufficiali  Alfredo  Cadolino  e  Leopoldo  Martino, morirono  da valorosi  nella  battaglia  di  San  Martino, e  più  ancora  dal  1860  al  1866, quando  era  stato  un continuo  accorrere  di  irredenti  nelle  file  di  Garibaldi  e  dell’ Esercito  Regio, mentre  nello  stesso  tempo  aumentava  nelle  “terre  irredente”, la  repressione  violenta  e  sanguinosa  della  polizia  austriaca, in  gran  parte  composta  da  croati, con  processi  seguiti  da condanne  a  morte  ed  al  carcere.
Come  poi  non  ricordare  un  Niccolò  Tommaseo, (1802 - 1874) - dalmata  di  Sebenico, cattolico  fervente, uomo  di  vasta  cultura  e  liberalità  di  pensiero, autore  di  opere  letterarie  all’epoca  famose, difensore   di  Venezia  con  Daniele  Manin, dalla  forte  passione nazionale, sia  pure  in  una  visione  federalista, un  Giovanni  Prati, (1814 - 1884) trentino  di  Campomaggiore, poeta  non  dei  minori  del  nostro  “ottocento”, che  coi  suoi  versi  accompagnò  le  speranze  e  le imprese  patriottiche, fedelissimo  alla  causa  Sabauda  ed  infine  un  Antonio  Rosmini, ( 1797- 1855) trentino  di  Rovereto, sacerdote  e  filosofo,fautore  di  un  liberalismo  cattolico  e di  una  soluzione  monarchico  sabauda  al  processo  unitario, che, per  queste  idee  e  sentimenti  favorevoli  all’Italia,  ebbe  persecuzioni  da  parte  del  governo  austriaco. E  tutti  studiarono  o  si  recarono , o vissero  a  Venezia, a  Padova, a  Milano, a  Firenze  ed  a  Torino, ma  mai  ad  Innsbruck  o  Vienna  o  Berlino!
Questo vicende dell’irredentismo, sommariamente  descritte,  corrispondono  alla  prima  fase  risorgimentale  e  postrisorgimentale  che  si  chiude  con  la  triste  vicenda  di  Oberdan  ed  alla  seconda  fase  legalitaria  con  il  programma  minimo    difensivo  del  patrimonio  storico  e  culturale  di  queste  terre, con  Società  come  quella  Dalmata  di  Storia  Patria,  e  come  quella  degli  Alpinisti  Tridentini, nonché   con  associazioni  operanti  sia  nel  Regno  che  nei  territori  soggetti  all’Austria, con  relativi  giornali, per  impedire  che  il  problema  finisse  nel  dimenticatoio. Prima  di  passare  alla  terza  fase  che  logicamente  termina  con  l’entrata  in  guerra  dell’Italia, soffermiamoci  su  due  figure  che  emergono  nell’irredentismo  trentino   ed  altoatesino  per  la  loro  personalità. Il  primo  come  data  di  nascita, Ettore  Tolomei, nato  a  Rovereto  nel  1865, che  da  geografo  si  dedicò  particolarmente  ai  problemi  dell’Alto  Adige, raccogliendo  testimonianze  storiche  e  linguistiche  in  un  fondamentale  “Archivio  dell’Alto  Adige”, relativamente  alla  presenza  italiana,  preparando  il  rinnovamento  della  toponomastica, con  la  versione  italiana  dei  nomi  delle  località  e  combattendo  il  pangermanesimo  che  si  era  sviluppato  nell’ Ottocento  in  concomitanza  e  contrapposizione  al  nostro  Risorgimento, ed  infine  “volontario  di  guerra”  a  50  anni   e  per  i  suoi  meriti  nominato  dal  Re, nel  1923,  Senatore  del  Regno.
L’ altro, più  famoso  per  la  sua  tragica  e  pur  gloriosa  fine  che  ne  fece  il  Martire  degli  Irredenti, senza  con  questo  dimenticare  Fabio  Filzi, Damiano  Chiesa, Nazario  Sauro, è  Cesare  Battisti, nato  a  Trento  nel  1875, da  una  agiata  famiglia di  commercianti, studente  a   Firenze   e  poi  anche  lui  geografo  di  valore, studioso  appassionato  del   suo  Trentino, ma  anche  uomo  politico, socialista, deputato  nel  1911 nella  Dieta  dell’ Impero  Austro- Ungarico, la  cui  importanza  è  fondamentale  per  la  causa  degli  interventisti, avendo  tenuto  decine  di  discorsi  in  Italia, per  spiegare  le  ragioni  che  ci  dovevano  portare  alla  guerra. Guerra  alla  quale  partecipò  fin  dall’inizio negli  alpini  data  la  sua  competenza  e  conoscenza  delle  montagne  trentine,  e  dove, durante  un’azione  sul  Monte  Corno, il  10  luglio  1916, viene  preso  prigioniero  dagli  austriaci, portato  a  Trento, processato  ed  impiccato  nel  cortile  del  Castello  del  Buon  Consiglio. Le  sue  ultime  parole  furono: ”Viva  Trento  Italiana, Viva  l’Italia”.
L‘irredentismo  entrava  così  nel  secolo  XX, dovendo  combattere  contro  l’invadenza  tedesca  nel  Trentino-Alto  Adige, che  costrinse  addirittura  nel  1912, il  Vescovo  di  Trento, monsignore  Endrici, a  prendere  una  dura  posizione  contraria, e  contro  quella  slava  nell’ Istria, entrambe  favorite  dal  governo, e  che  rispondeva  ad  un  preciso  programma  di  conquista,  neppure  nascosta, basti  pensare  che  in un  giornale  sloveno, un  articolo, ripreso  e riportato  dal  nostro  grande  giornalista  Luigi  Barzini, sul  “Corriere  della  sera”, il  21  settembre  1913, era  scritto:”…non  desisteremo  fino  a  che  non  avremo  ridotto  in  polvere  l’ italianità  di  Trieste  e  fino  a  che  a  Trieste  non  comanderemo  noi  slavi…”, e  sempre  a  Trieste, il  Governatore, Principe  di  Hohenloe, nel  1913, aveva  pubblicato  un’ordinanza  che  vietava  a  cittadini  italiani  di  ricoprire  posti  di  lavoro.
Perciò  ad  esempio  il  problema  di  una  Università  per  gli  studenti  di  lingua  italiana  acquistava  una  straordinaria  importanza , anche  perché  nel  1903  vi  erano  stati  scontri  sanguinosi  ad  Innsbruck  contro   gli  studenti  italiani, ed  il  problema  di  una  maggiore  autonomia  amministrativa  del  Trentino  divenivano  i  punti  fondamentali  delle  richieste  degli  irredenti, che  avevano  capito, perdurando  la  Triplice, essere  esclusa  ogni  altra  soluzione. Nondimeno  non  perdevano  occasione  di  farsi  riconoscere, e  notare  come quando  Vittorio  Emanuele  III, si  recò  in  visita  ad  Udine  nel  1903, dando  vita  ad  ardenti  manifestazioni  irredentistiche, che  non  potevano  sfuggire  all’attenzione  del  Sovrano, né  lasciarlo  indifferente. Anche  l’inaugurazione  di  un  monumento  a  Verdi  a  Trieste  costituiva  momento  di italianità  e  così  pure  il  dono  nel  1907  di  una  lampada  votiva  alla  tomba di Dante  a  Ravenna, e  poi  le  celebrazioni  nel  1911  del  cinquantenario  del  Regno  d’Italia  facevano  rivivere  le  passioni  del  Risorgimento, ed  ad  esempio  in  quello  stesso  anno, il  primo  ottobre, si  teneva   a  Capodistria  il  congresso  di  tutte  le  organizzazioni  giovanili  per  stabilire  una  linea  d’azione  unitaria.
Giungiamo  così  al  luglio  1914: l’Austria  dichiara  guerra  alla  Serbia, ritenendola  mandante  dell’assassinio  dell’ Arciduca  Francesco  Ferdinando, violando  il  trattato  non  consultando  l’Italia. L’Italia  che  giustamente  si  proclama  neutrale, tenta  inizialmente  la  strada  per  arrivare  ad  un  accordo  pacifico  per  il  riconoscimento  dei  propri  diritti  storici, ma le  risposte  negative  e  tardive, spingono  gli  irredentisti, che  capiscono  essere  questa  l’occasione  da  quasi  cinquant’anni   auspicata,  ad  intervenire  nel  contrasto  tra  interventisti  e  neutralisti  a  favore  dell’intervento,  e  così  quelle  due  parallele, irredentismo  e  politica  governativa  che  sembravano  non  potersi  incontrare, se  non  all’infinito, con  la  decisione   del  Re  si  incontrano  ed  il  24  maggio  1915, ha  inizio  la  Quarta  Guerra  d’Indipendenza, che  portò   al  completamento  dell’ Unità  per  anni  vagheggiata. Il  prezzo  pagato  in  termini  di  vite  umane, tra  le  quali  molti  irredenti  che  avevano  varcato  il  confine  per  combattere  nelle file  del  Regio  Esercito  e  della  Regia  Marina , fu  molto  più  elevato  di  quanto  immaginato, ma  l’Italia  e  gli  Italiani  avevano  mostrato  al  Mondo  che  erano  una  vera  Nazione, e  non   una  espressione  geografica,   ed  un  Popolo, fiero  di  sé  e  del  suo  passato,composto  non  più  di  “macaroni”  e  servi  di  altrui  governi. Gli  irredenti  avevano  trovato  finalmente  la  Patria .


   

domenica 29 marzo 2015

Pisa: Palazzo Blu racconta i segni della Grande Guerra

Si apre oggi la mostra “I segni della guerra. Pisa 1915-1918: una città nel primo conflitto mondiale”. Sei sezioni che raccontano le varie fasi della prima guerra mondiale

Come si riverbera un guerra, la Grande Guerra, nella vita di una città italiana, della sua popolazione e delle sue istituzioni. Questo il tema al centro della mostra I segni della guerra. Pisa 1915-1918: una città nel primo conflitto mondiale, che si apre oggi a Palazzo Blu in occasione del centenario della prima guerra mondiale (fino al 5 luglio)

“La Grande Guerra – ha detto il presidente della Fondazione Palazzo Blu Cosimo Bracci Torsi –  resta infatti un punto di svolta nella storia dell’Europa e del Mondo – l’inizio di una seconda Guerra dei trent’anni o del Secolo breve – ed è all’origine degli sconvolgimenti e degli orrori dei decenni seguenti. Pisa non era sul fronte di combattimento, né era sede di governo o di alti comandi militari. Era una media città italiana con le sue caratteristiche e la sua storia sulla quale tuttavia la guerra ha lasciato i suoi segni”.

L’allestimento prende le mosse da una ricerca che ha visto inventariare e esplorare giacimenti documentari, archivistici, bibliotecari, collezionistici, di stampa periodica locali, tra cui sono stati naturalmente fondamentali sia l’Archivio di Stato di Pisa, sia l’Archivio del cardinale Pietro Maffi, Arcivescovo della città.
Una ricerca che ha varcato i confini di Pisa, arrivando all’archivio della Presidenza della Repubblica, dove sono presenti documenti della Casa Savoia, compresi quelli riferiti alla tenuta reale di San Rossore, l’Ufficio storico dell’Aeronautica, che conserva documenti sulle scuole di volo pisane e il Museo storico dell’Aeronautica militare di Vigna di Valle.
[...]

venerdì 27 marzo 2015

LE CAUSE DELLA I GUERRA MONDIALE

di Gianluigi Chiaserotti

Con il 2014 si è iniziato a parlare del I Centenario della Prima Guerra Mondiale.
Con il presente articolo, anche in vista del prossimo 24 maggio, data in cui cento anni or sono l’Italia entrò in guerra, a cui necessiterà un ricordo specifico, iniziamo ad analizzare qualche aspetto della Guerra stessa, come quelle che furono le sue cause remote e le sue cause prossime.
Le cause remote sono quei fenomeni storici molto complessi e di lunga durata senza i quali non ci sarebbe stata mai una guerra con le caratteristiche della Prima Guerra Mondiale; mentre quelle immediate o prossime è l’insieme di problemi e tensioni internazionali che furono, in qualche modo, il motivo diretto della guerra medesima.
Tre sono quelle remote:
A) La rivoluzione industriale, la quale permette lo sviluppo di quelle tecnologie che trasformeranno il modo di fare la guerra, sia a livello di armamenti, sia che a livello di trasporti, aumentando la produzione industriale, la circolazione delle merci dentro e fuori il continente europeo e quindi anche la concorrenza tra le nazioni stesse;
B) Il nazionalismo, cioè la convinzione della superiorità della propria nazione sulle altre. Convinzione che si diffonde sempre più profondamente nei paesi europei a partire dalla seconda metà dell‘800 (anche per la nascita di nuovi Stati, come l’Italia) e quindi per i nazionalisti la guerra è lo strumento proprio con cui affermare la superiorità territoriale;
C) L’imperialismo, cioè la creazione di imperi coloniali più o meno grandi (britannico, francese, tedesco, belga, italiano), influisce in due modi sulla Prima guerra Mondiale, sia come causa di contrasti tra le potenze europee che si contendono le colonie africane ed asiatiche, sia per produrre la c. d. “mondializzazione” del conflitto, in quanto a fianco del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, della Francia e della Germania combattono anche le truppe provenienti dalle colonie di codesti paesi.
Mentre le cause prossime possono essere sinteticamente riunite in tre categorie:
A) mire espansionistiche, cioè quella tendenza di alcuni paesi ad ampliare il proprio territorio, come la Germania, la quale puntava verso est; o come gli imperi russo ed austro-ungarico, i quali puntavano ad ampliarli verso i Balcani in quanto l’Impero Ottomano era in crisi; come la Serbia, la quale voleva creare proprio uno stato slavo nei Balcani stessi;
B) rivendicazioni territoriali, cioè la convinzione di alcuni paesi di aver diritto a determinati territori, come la Francia, che voleva recuperare dalla Germania l’Alsazia e la Lorena perse nella guerra franco-prussiana del 1870, o dell’Italia, che rivendicava il possesso del Trentino Alto Adige, del Friuli e della Venezia Giulia (le c.d. “terre irredente”, cioè non salvate, non liberate), ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico;
C) desiderio di indipendenza, cioè il caso di diverse nazioni sottoposte all’Impero Austro-Ungarico (cechi, ungheresi, bosniaci, croati, italiani).
A tutto codesto contesto si univa la volontà del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord al fine di mantenere il suo ruolo dominante, in particolare sui mari e nei commerci.
Ma dopo l’analisi di tutte queste cause, la Prima Guerra Mondiale scoppiò invece per una causa che si può definire apparente, il c.d. “casus belli”.  Infatti il 28 giugno 1914 il serbo Gavrilo Princip (1894-1918) aveva assassinato, in quel di Sarajevo, l'arciduca ereditario Francesco Ferdinando di Absburgo Lorena (1863-1914) con la consorte, quindi l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, anche se, fu ovvio, che il Princip aveva agito da solo e non a nome della Serbia.
A questa dichiarazione di guerra  seguì, ed in rapida sequenza, l’ingresso nel conflitto della Russia (protettrice della Serbia), quindi della Germania [alleata con l’Austria (anche se il trattato della Triplice Alleanza era difensivo e non offensivo)], della Francia e del Regno Unito e di tutte le altre potenze.


mercoledì 25 marzo 2015

Genesi del Regno di Savoia. Conferenza del Circolo REX



SALA UNO

nel cortile della Casa Salesiana San Giovanni Bosco

con ingresso in Via Marsala 42

(vicino Stazione Termini)


INGRESSO: 10,15

ORA INIZIO CONFERENZA: 10,30


29 marzo 2015

Dott. Arch. Paolo CAMPANELLI

“Genesi del Regno di Savoia

martedì 24 marzo 2015

PELLEGRINAGGIO ALL'ABBAZIA DI HAUTECOMBE PER IL 32° ANNIVERSARIO DEL RE UMBERTO II




Sabato 21 marzo, presso l'Abbazia di Hautecombe, si è svolto il tradizionale pellegrinaggio nel ricordo del 32mo anniversario della scomparsa del re Umberto II di Savoia, unito nel ricordo della regina Marie Josè. 

L'antichissima Abbazia cistercense di Hautecombe (Savoia, Rhône-Alps, Francia), vicino a Aix-les-Bains, è situata sul grande lago naturale del Bourget che, accompagna i visitatore in uno scenario molto bello lungo tutto l'itinerario, provenendo dalla città di Chambery. 

Alla manifestazione sono intervenuti circa mille persone, giunti da ogni parte d'Italia e dall'estero per partecipare alla messa di commemorazione celebrata dal dall'Arcivescovo di Chambery, sia in lingua italiana che francese.

[...]

martedì 17 marzo 2015

Ma io pensavo più al paese che alla Corona…

Una delle frasi contenute nella settima parte dell'intervista di Nino Bolla a Re Umberto II nell'ultimo aggiornamento del sito a lui dedicato, www.reumberto.it

Nell'anniversario della proclamazione del Regno d'Italia ed in quello doloroso della scomparsa in esilio del Sovrano. 

Buona lettura. 
Viva il Re!

domenica 15 marzo 2015

Il presidente dell'Unione Monarchica Italiana scrive al Corriere del Mezzogiorno

Il Presidente dell'UMI è l'Avvocato Alessandro Maria Sacchi e non Andrea come riportato dal "Corriere del Mezzogiorno", del 14 Marzo 2015, pagina 8.




Ringraziamo il Presidente provinciale dell'UMI di Avellino, Avvocato Augusto Genovese, per averci trasmesso il documento.

Comunicato Stampa di Italia Reale - Stella e Corona

Italia Reale - Stella e Corona esprime la propria indignazione nei confronti della Giunta Comunale di Napoli che ha eliminato dalla toponomastica cittadina, il nome del Re Vittorio Emanuele III che faceva parte, tra l'altro, di un contesto storico ambientale, ormai tradizionale.

Tale decisione non può non  inquadrarsi negli atteggiamenti di una certa "razza padrona" che si è impossessata della politica italiana, credendosi onnipotente ed inamovibile.

Tale scelta, approvata proprio nel  centenario dell'entrata in guerra dell'Italia, nel primo conflitto mondiale, non tiene conto della figura del  "Re soldato" , che portò all'unità della nostra Patria, assicurando all'Italia un legame, tuttora necessario, all'occidente più progredito ed allontanarla dalle varie "leghe arabe" che si vedono ormai all'orizzonte.

Si tratta di un atteggiamento meschino di una sorta di politici che, incapaci di risolvere i problemi del momento, (molto spesso creati da loro stessi, come la povertà diffusa, la disoccupazione, la disperazione economica, il dramma delle morti sul  lavoro, una nuova pesante emigrazione) se la prendono, con un livore fuori luogo, con il passato, per non lasciare traccia di ricordi migliori del loro malgoverno.

sabato 14 marzo 2015

Santa Messa a Napoli in suffragio di RE UMBERTO II

Cari amici, partecipare a questa Santa Messa mettendo da parte ogni divisione, ogni critica, ogni distinguo, è necessario, per dare risposta adeguata all'infamia che si sta per compiere a Napoli con l'abolizione della via intitolata alla Maestà del Re Vittorio Emanuele III,
Il Re soldato sotto la cui Augusta guida la Nazione completò la sua unità quasi 100 anni fa.
Accorrete numerosi!



Abolita a Napoli Via Vittorio Emanuele III


Ce ne dà notizia un articolo comparso sul sito Napoli today, http://www.napolitoday.it/cronaca/abolita-via-vittorio-emanuele-iii.html, articolo che non riportiamo perché scritto con i soliti triti luoghi comuni dei cialtroni neoborbonici, (diversa cosa dai borbonici che in maniera onorevole e, soprattutto, educata esprimono il loro attaccamento alla Casa Reale di Borbone).

"Il sindaco Luigi de Magistris in Commissione Toponomastica del Comune di Napoli, ha dato il via libera nella seduta della Commissione in data 9 marzo, di ratificare l'abolizione del toponimo della strada intitolato a Vittorio Emanuele III ".

De Magistris, ex giudice, sotto inchiesta per uso disinvolto dei mezzi che la legge gli metteva a disposizione, già decaduto per la legge Severino ma reintegrato grazie alla follie della legge italiana che si guarda bene dall'essere uguale per tutti ma è interpretabile a seconda dell'appartenenza ad uno schieramento politico o all'altro, compie così l'unico gesto importante della sua legislatura e fa una  autentica, disgustosa porcheria.
Porcheria ancora più grossa perché commessa nel 100° anniversario che vide il Re Soldato compiere l'Unità d'Italia insieme al suo popolo.

Invitiamo i nostri lettori a tempestare di post la pagina facebook di quel personaggio che immeritatamente siede sullo scranno che fu di Achille Lauro.

VIVA IL RE!



Potrebbe interessarti:http://www.napolitoday.it/cronaca/abolita-via-vittorio-emanuele-iii.html
Seguici su Facebook:http://www.facebook.com/NapoliToday

I Savoia in cartolina




È stata inaugurata oggi a Palazzo Lascaris, e resterà esposta fino al 30 aprile; la mostra “Mille cartoline per un Regno”. Promossa e organizzata dal Consiglio regionale del Piemonte e dal Gruppo “Amici del Passato” di Volpiano, è una rassegna tematica di Casa Savoia, attraverso le cartoline postali iconografiche del Regno d’Italia, dal 1896 al 1946.
I pezzi esposti spaziano dalle prefilateliche alle prime affrancature facenti parte dell’archivio storico della casa museo “Casale Armanda” di Robella d’Asti. La collezione fu avviata, agli inizi del Novecento, da Giacinto Rolfo, stimato viticoltore di Robella, che per i suoi meriti ottenne la facoltà di poter usare per la sua azienda lo stemma della Real Casa. Da allora cominciò ad appassionarsi alla raccolta di cartoline dei Savoia. In mostra è rappresentato in particolare il periodo d’oro della cartolina sabauda, a partire dalle nozze del principe Vittorio Emanuele con la principessa Elena del Montenegro. In esposizione anche le lettere, inedite e autografate, di duchi e re di Savoia, ma anche di personaggi come Giosuè Carducci e Giuseppe Garibaldi.
“È con vivo piacere che ospitiamo a Palazzo Lascaris questa mostra, inserita fra le iniziative intraprese dal Consiglio regionale per la commemorazione del centenario della Prima Guerra Mondiale”, ha affermato la consigliera Silvana Accossato.
Ospite d’onore della presentazione è stato Martino d’Austria Este (successore al Trono d’Austria e Ungheria), mentre lo studioso Tomaso Ricardi di Netro e il curatore della mostra Pierangelo Calvo hanno ricordato la rilevanza storica della cartolina quale strumento di propaganda dei reali.



giovedì 12 marzo 2015

Riforme, i Monarchici a Mattarella e Renzi: la Repubblica non è un Totem

Tra l'Italicum e il "nuovo" Senato, c'è chi vorrebbe abolire la Repubblica, più precisamente l'articolo 139. La proposta sta in una lettera dei Monarchici indirizzata ai vertici delle istituzioni per chiedere di cancellare dalla Costituzione l’articolo che non rende “revisionabile” la forma repubblicana.
Il presidente dell’Unione Monarchica Italiana, l’avvocato Alessandro Sacchi, si è rivolto agli uomini delle Istituzioni con una lettera nella quale ha chiesto, nell’ambito delle riforme costituzionali, l’abrogazione dell’Articolo 139 che stabilisce la forma repubblicana come immutabile nei secoli. Secondo l’analisi di Sacchi “quella sancita dall’articolo 139 è una norma antidemocratica che mina gravemente la sovranità nazione, in aperto contrasto con l’Articolo 1 in cui la sovranità viene affidata al popolo”.

Per questo i monarchici si attendono dalla politica “un segnale che porti l’Italia fuori dall’ambigua situazione nella quale i Padri costituenti, per ragioni storiche ormai completamente superate, hanno posto il Paese. I popoli hanno il diritto di scegliersi le Istituzioni da cui essere governati”, afferma il presidente dell’Unione Monarchica Italiana. 

La sollecitazione è contenuta in una lettera indirizzata, tra gli altri, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al presidente e ai vicepresidenti del Senato, al presidente e ai vicepresidenti della Camera dei Deputati, al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro delle Riforme e ai componenti delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato.Ecco cosa recita l’articolo 139 della Costituzione Italiana:La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

mercoledì 11 marzo 2015

Re Umberto II di Savoia, l'ultimo Re d'Italia, 32° della morte. San Cetteo lo ricorda

Il 18 MARZO 1983, alle 15:45, presso l'Ospedale Cantonale di Ginevra, "esalava l'ultimo respiro Sua Maestà il Re Umberto II di Savoia, l'ultimo Re d'Italia". A ricordarlo è Camillo Savini.

“Morì pronunciando Italia” aggiunge il Presidente provinciale Rag. Ten. “Quella stessa Italia che gli fu preclusa nel lontano 1946 e per tutta la vita, a seguito del referendum istituzionale da lui stesso fortemente voluto”.
Savini, rinvangando la storia afferma “il risultato fu talmente dubbio (a causa di indiscutibili brogli elettorali), che la Corte di Cassazione, preposta a proclamare ufficialmente il vincitore del referendum, il 10 giugno dichiarò ufficiosamente la notizia della vittoria della repubblica, riservandosi però la dichiarazione ufficiale il 18 giugno, dopo il riscontro dei voti definitivi, cosa però che non avvenne mai”.
Nell'analisi monarchica di Savini si legge “nella notte tra il 12 e il 13 giugno il Governo, con quello che lo stesso Re Umberto definì 'un gesto rivoluzionario', stabilì illegalmente, senza attendere la pronuncia della Cassazione, che i poteri del Re erano ormai passati al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, quale capo provvisorio dello Stato.”
Il 13 giugno 1946 Umberto II, si recò in Portogallo, come Carlo Alberto. Il 1° gennaio 1948 seguì l'articolo della Costituzione, “agli ex Re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale”. Per lui durò 37 anni.
Nel 32.mo anniversario della morte sarà celebrata, dall'Abate Monsignor Giuseppe Natoli, una Santa Messa in memoria presso la Cattedrale di San Cetteo in Pescara il giorno 21 marzo alle ore 18:00.

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA “REX”

LXVII CICLO DI CONFERENZE 2014-2015, II PARTE


SALA UNO
nel cortile della Casa Salesiana San Giovanni Bosco
con ingresso in Via Marsala 42
(vicino Stazione Termini)

INGRESSO: 10,15

ORA INIZIO CONFERENZA: 10,30



15 marzo 2015

Prof. Avv. Francesco CAROLEO GRIMALDI

Giustizia oggi: proposte governative e necessità effettive”

CATANZARO TRA MONARCHIA E REPUBBLICA, LA TESTIMONIANZA DIRETTA DI ANTONIO CARNOVALE AL CIRCOLO PLACANICA

Matilde Altomare

Un excursus storico e di esperienze vissute quello del Dott. Antonio Carnovale, socio e amico del Circolo Placanica di Catanzaro. L’incontro si è svolto mercoledì 21 gennaio nella sede del Circolo e il dott. Carnovale ha messo ha disposizione testimonianze e materiale sulle vicende del padre e dello zio materno, il Marchese Falcone Lucifero, ovvero Ministro della Real Casa. Periodo di transizione quello in cui si passa dalla monarchia alla repubblica, dal fascismo alla democrazia. Anni bui, che testimoniano una realtà controversa, con degradi sociali, culturali ed economici. Il dott. Carnovale medico, ortopedico, figlio del Podestà di Catanzaro e nipote del Marchese Falcone Lucifero (nella foto con Re Umberto), ha illustrato la vita del padre e dello zio, con vasto materiale scritto e fotografico. Tra i suoi racconti: la scarsità di viveri che incombe nel periodo della seconda guerra mondiale e le intricate vicissitudini che segnano profondamente la vita del padre. Momenti di panico, di sconforto, ma anche di coraggio per aver portato a termine il proprio dovere, sempre con il costante appoggio dei familiari. Emblematica l’immagine del padre, che torna a casa coi vestiti stracciati e sporchi di sabbia, dopo aver fatto il suo dovere come Podestà e come medico. I danni, durante i bombardamenti, furono molto gravi. Fu colpito il Duomo, la piazza del Rosario, Via XX Settembre. Le persone vissero in condizioni di miseria e di precarietà, per la mancanza di viveri e di risorse economiche. Anche il Marchese Falcone Lucifero, lo zio del dott. Carnovale, visse in quegli anni. Fu nominato prefetto e ministro dell’agricoltura dal primo governo Badoglio. Il Marchese fu il principale esponente delle forze politiche antifasciste e organizzò la campagna in favore della monarchia, in occasione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Una serata ricca di partecipazione e di coinvolgimento anche da parte del pubblico, che ascoltava con particolare interesse le vicende narrate dal dott. Carnovale. Al termine della serata è intervenuto il Presidente del Circolo, Venturino Lazzaro, che ha sottolineato l’importanza delle testimonianze storiche e dei documenti originali che attestano l’appartenenza all’identità catanzarese.

sabato 7 marzo 2015

Re Umberto II, nella trasmissione "Il Tempo e la Storia"

Per chi lo avesse perso: il link della Rai con la trasmissione sul nostro Sovrano di cui ricorre in questi giorni il triste anniversario della scomparsa in Esilio.
Finalmente una trasmissione degna!



32 anni fa moriva il Re

di Mauro Guidi
Non è la trama di un video gioco, è la storia della nostra Italia !


L’Italia,  membro della UE, dovrebbe  ricordare con maggiore slancio ai nostri giovani che transitano, per motivi di studio, lavoro o svago, in nazioni con ordinamento monarchico ( Gran Bretagna,  Spagna, Belgio,  Lussemburgo,  Paesi Bassi,  Svezia Danimarca e  Norvegia ) che anch’essa ha avuto per lungo tempo un analogo trascorso. Assistendo per esempio a Londra al rituale del ‘cambio della guardia’ presso  Buckingham Palace ( la residenza ufficiale della Regina ) essendo una notevole attrazione turistica, ho potuto verificare la presenza anche di tanti giovani italiani . Mi auguro che conoscano i trascorsi monarchici della propria nazione . Intanto è bene chiarire che queste moderne  monarchie sono dette parlamentari o costituzionali in quanto i poteri del sovrano sono limitati dalla Costituzione e dalle Leggi. Le leggi vengono votate da un'assemblea, il Parlamento, che a sua volta è eletto dal popolo, mentre il governo dello Stato è esercitato collegialmente da uomini politici scelti sulla base dei risultati delle elezioni popolari.. Praticamente queste istituzioni rappresentano ciò che potevprovocare la naturale evoluzione storica  della nostra monarchia . Cosa che non è avvenuta in seguito alla democratica scelta che il popolo italiano ha fatto il 2 giugno 1946 con il famoso referendum monarchia/repubblica .
[...]


mercoledì 4 marzo 2015

L’altra faccia del Re di maggio

Dalla congiura contro Mussolini all’esilio portoghese Una vita segnata da monarchia in declino e mondanità

di Francesco Perfetti

Nei primi mesi del 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, Vittorio Emanuele III tentò di sostituire Mussolini: un 25 luglio anticipato di tre anni. Di tale proposito c’è traccia nel diario di Galeazzo Ciano. Il genero del duce scrive il 14 marzo 1940: «Al Golf mi avvicina il Conte Acquarone, Ministro della Real Casa. Parla apertamente della situazione in termini preoccupati, e assicura che anche il Re è al corrente del disagio che perturba il Paese. A suo dire, Sua Maestà sente che da un momento all’altro potrebbe presentarsi per lui la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose; è pronto a farlo ed anche con la più netta energia. Acquarone ripete che il Re ha verso di me "più che benevolenza, un vero e proprio affetto e molta fiducia". Acquarone - non so se d’iniziativa personale o d’ordine - voleva portare più oltre il discorso, ma io mi sono tenuto sulle generali».
Pochi giorni dopo Ciano incontrò Umberto di Savoia come risulta da una annotazione del 28 marzo: «Lungo colloquio ieri col Principe di Piemonte. Mentre di solito è prudente e riservato, pur senza troppo esporsi, non ha nascosto la sua preoccupazione per l’orientamento sempre più germanofilo della nostra politica, preoccupazione aggravata dalla sua conoscenza delle nostre condizioni militari. Nega che dal settembre a oggi siano stati realizzati effettivi progressi nell’armamento: il materiale è scarso e lo spirito è depresso. Parla con la più seria preoccupazione della milizia, che non rappresenta l’anima volontaristica dell’esercito, ma costituisce un nucleo di malcontento e di indisciplina».
Ulteriori riscontri di questa abortita congiura si trovano in una intervista di Umberto II, ormai in esilio, del 1963 e in una nota, risalente all’aprile 1940, consegnata da monsignor Maglione a monsignor Tardini nella quale si faceva riferimento a questi incontri e si parlava di un Ciano «in predicato di successione a Mussolini». La mossa del Re che mirava a far convocare il Gran Consiglio del fascismo e sostituire Mussolini con un elemento del fascismo moderato, legato alla Corona, non ebbe esiti concreti perché Ciano, pur ormai divenuto antitedesco, non si sentì di approfittare dell’occasione.
La vicenda è raccontata nel documentario dedicato a Umberto II, il Re di maggio realizzato da Rai Storia per il ciclo «Il tempo e la storia» condotto da Massimo Bernardini. Al di là del fatto che la congiura non venne realizzata, l’episodio è significativo perché conferma il «formalismo» di Vittorio Emanuele, il quale, pur non sopportando Mussolini, cercava, già all’epoca, una sponda «costituzionale» per farlo fuori: la convocazione del Gran Consiglio. C’è una sua battuta rivelatrice del carattere del Re: quando nel 1924 Amendola gli espresse le sue preoccupazioni per il futuro, questi lo zittì dicendo: «Io non sento e non vedo. Le mie orecchie e i miei occhi sono il Senato e la Camera». Ma l’episodio è illuminante anche su un altro punto, sul rapporto fra Vittorio Emanuele e Umberto, tenuto lontano dalla politica in base al principio che «i Savoia regnano una alla volta» e utilizzato, in questo caso, come messaggero e portavoce della volontà del padre.
[...]

domenica 1 marzo 2015

Luigi Cadorna, un militare dimenticato

di Gianluigi Chiaserotti

Luigi Cadorna nacque a Pallanza (già Novara, ed attualmente località della provincia del Verbano-Cusio-Ossola) il 4 settembre 1850, figlio del Generale Raffaele (1815-1897) (veterano della battaglia di San Martino e in seguito comandante della spedizione che nel 1870 portò all'annessione di Roma al Regno d'Italia).
Il Nostro personaggio è membro di una illustre discendenza di militari, di politici ed uomini delle istituzioni.
Ricordiamo, senza dubbio, Carlo Cadorna (1809-1891), fratello del padre del Nostro, uomo politico, che fu deputato (dal 1848) al Parlamento Subalpino, Ministro della Pubblica Istruzione (dic. 1848-marzo 1849 e ott. 1858-luglio 1859), Presidente (1856-1858) della Camera del Deputati, Senatore del Regno (dal 1858) e Ministro dell’Interno nel II governo di Luigi Federico Menabrea (1809-1896); il di già citato Raffaele Cadorna, padre del Nostro, generale ed uomo politico, più volte deputato, e, dal 1871, Senatore del Regno, nonché cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata in data 20 settembre 1895 quale creazione numero 643 dall’istituzione dell’Ordine; infine Raffaele Cadorna (1889-1973), figlio del Nostro, anch’esso generale ed uomo politico, comandante, tra l’altro, del Corpo Volontari della libertà, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e Senatore della Repubblica nelle prime tre legislature  [I, 1948-1953; II, 1953-1958, e III, 1958-1963 (ma per lui dal 1959)] per il collegio di Cusio-Ossola per la Democrazia Cristiana, al quale è dedicato un giardino sul piazzale Ostiense in Roma.
Alla famiglia Cadorna (già Nobile di Firenze),  nella persona del detto generale Raffaele Cadorna, fu concesso il titolo di Conte in data 16 dicembre 1875 e l’assenso a Nobile romano in data 7 giugno 1894.
Ma torniamo al Nostro.
Nel 1860, all'età di dieci anni, Luigi fu avviato dal padre agli studi militari.
Dapprima studiò alla Scuola militare "Teuliè" di Milano, e, cinque anni dopo, entrò all'Accademia Militare di Torino, venendo nominato Sottotenente nell'Arma di Artiglieria nel 1868.
Nel 1870, in forza al 2º Reggimento di Artiglieria, partecipò alle brevi operazioni militari contro Roma nel corpo di spedizione comandato dal padre Raffaele.
Capitano nel 1880, nel 1883 venne promosso al grado di Maggiore ed assegnato allo Stato Maggiore del Corpo d'armata del generale Giuseppe Salvatore Pianell (1818-1892).
In seguito il Nostro assunse la carica di Capo di Stato Maggiore del comando divisionale di Verona.
Nel 1889 sposò Maria Giovanni Balbi dei marchesi Balbi di Genova.
Nel 1892, promosso Colonnello, Luigi Cadorna ottenne il primo incarico operativo in qualità di comandante del 10º Reggimento Bersaglieri, mettendosi precocemente in luce per la sua rigida interpretazione della disciplina militare.
Durante le manovre del maggio 1895, sempre al comando del 10º Reggimento, ebbe modo di puntualizzare per la prima volta quei princìpi tattici che costituiranno la base della sua incrollabile fede nell'offensiva ad oltranza.
Nel 1896, abbandonati gli incarichi operativi, assunse la carica di Capo di Stato Maggiore del Corpo di Armata di Firenze.
Nel 1898, con la promozione a Tenente Generale, entrò a buon titolo a far parte della ristretta cerchia degli alti ufficiali dell'esercito.
La sua ascesa si dimostrò molto costante.
Nello stesso anno egli dovette affrontare la sua prima delusione, allorquando, resosi disponibile l'incarico di Ispettore generale degli Alpini, gli venne preferito il generale Nicola Heusch (1837-1902).
Nel 1900 ebbe un secondo insuccesso: abbandonato il generale Alberto Cerruti (1840-1912) il comando della Scuola di Guerra, il Cadorna si vide scavalcato dal generale Luigi Zuccari (1847-1925).
A Cadorna fu invece assegnato il comando della Brigata Pistoia, allora di stanza a L'Aquila, che tenne per i successivi quattro anni. E’ di questo periodo la compilazione di un manuale dedicato ai metodi d'attacco delle fanterie, in cui ebbe modo di ribadire la sua fiducia nelle tattiche offensiviste che d'altronde erano allora in voga nell'esercito.
Nel 1905, Luigi Cadorna assunse il comando della Divisione Militare di Ancona, e, nel 1907, fu a capo della Divisione Militare di Napoli con il grado di Tenente Generale, giungendo infine ai massimi vertici delle forze armate.
Nello stesso anno venne fatto, per la prima volta, il suo nome quale possibile successore del generale Tancredi Saletta (1840-1909), che godeva allora di pessima salute, alla suprema carica di Capo di Stato Maggiore dell'esercito. Ma l'anno successivo, abbandonato infine il Saletta l'incarico, Cadorna si vide preferire il generale Alberto Pollio (1852-1914).
A questo capovolgimento di fronte non furono sicuramente estranei né i proclamati sentimenti di ostilità del generale nei confronti dell'allora capo del governo Giovanni Giolitti (1842-1928), e dei politici in genere, né tantomeno una lettera che il 9 marzo egli aveva inviato ad Ugo Brusati (1847-1936), Primo Aiutante del Re e fratello germano di quel Roberto Brusati (1850-1935), futuro comandante della 1ª Armata, che,  nel 1916, sarebbe stato sostituito proprio da Cadorna a seguito della c.d. “battaglia degli Altipiani”.
In risposta ad evidenti sondaggi del Brusati sulle future intenzioni del Cadorna, qualora fosse stato destinato all'incarico, ed in particolar modo in riferimento al mantenimento delle prerogative del Re (formalmente comandante in capo dell'esercito), sul cui rispetto si voleva evidentemente ottenere dal generale formale assicurazione, con scarsissimo spirito diplomatico, egli replicò sostenendo il principio dell'unicità ed indivisibilità del comando: in tale circostanza, benché i poteri del sovrano fossero sanciti dallo Statuto, Cadorna si dimostrò sin troppo deciso a chiarire come, a suo parere, la responsabilità del comando dell'esercito spettasse “de facto” al Capo di Stato Maggiore.
Benché con le sue dichiarazioni egli fosse allora consapevole di essersi estromesso definitivamente dalla partita con le sue proprie mani, la nomina di Pollio inaugurò una stagione di rapporti difficili fra le due alte personalità destinata a concludersi soltanto nel 1914, con l’improvvisa morte di quest'ultimo.
All'amarezza di Cadorna per essersi visto preferire il collega (a cui si rinfacciavano peraltro le umili origini, essendo questi figlio di un ex capitano dell'esercito borbonico) si aggiungevano inoltre stridenti contrasti di natura dottrinale, laddove alla rigida impostazione offensivistica del pensiero tattico cadorniano, il nuovo Capo di Stato Maggiore contrapponeva concezioni operative improntate ad una maggiore flessibilità e fondate sulla consapevolezza dell'impatto delle moderne armi da fuoco e dell'artiglieria sul campo di battaglia.
La carriera di Cadorna, nonostante tutto, proseguì, e nel 1911, assunse il comando del Corpo di Armata di Genova.
L'anno successivo scoppiava il conflitto con l'Impero Ottomano e, benché egli rappresentasse il candidato “in pectore” per il comando di un Corpo d'Armata destinato al servizio oltremare, nella conduzione delle operazioni militari in Libia gli venne preferito, ancora una volta un altro Ufficiale, il generale Carlo Caneva (1845-1922).
Cadorna, quindi, alla soglia dei sessantuno anni, doveva pertanto vedersi ancora assegnato il primo comando operativo in guerra: tale ritardo si sarebbe tuttavia rivelato altrettanto vantaggioso, poiché il generale poté presentarsi alla suprema prova, costituita dal Primo Conflitto Mondiale, con le proprie potenzialità di comandante inespresse ma altresì prive di macchia e di smentita, giacché la sua carriera non era stata in alcun modo offuscata dai frequenti insuccessi che avevano costellato la storia delle armi dell'Italia unita, dalla campagna d'Abissinia culminata con la disfatta di Adua, sino alle sanguinose e dispendiosissime operazioni militari contro la guerriglia libica (che verrà definitivamente piegata soltanto nel 1934).
Il giorno 1 luglio 1914 moriva improvvisamente  il generale Alberto Pollio, ufficialmente stroncato da un infarto, ma  si dice anche in circostanze misteriose.
Il precedente 28 giugno il serbo Gavrilo Princip (1894-1918) aveva assassinato in quel di Sarajevo l'arciduca ereditario Francesco Ferdinando di Absburgo Lorena (1863-1914) e la consorte.
Il successivo 27 luglio, Luigi Cadorna, non sicuramente su indicazione e designazione del re Vittorio Emanuele III (1869-1947), veniva nominato Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano.
Il 23 luglio l'Austria-Ungheria aveva infatti consegnato il proprio ultimatum alla Serbia, innescando una reazione a catena che, dopo il dipanarsi di una lunga serie di crisi diplomatiche e contromosse politico-militari, avrebbe portato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale in base alle clausole dei trattati della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa.
L'esercito che il generale ereditava dal proprio predecessore affrontava allora un periodo di transizione irto di difficoltà; al processo di ammodernamento, rallentato significativamente dalle insufficienti risorse industriali del Paese, si aggiungeva il dispendio di materiali richiesto dalla campagna libica ed il relativo stravolgimento organizzativo e logistico provocato dall'approntamento del consistente corpo di spedizione: nel 1914, ovvero a due anni dall'ufficiale conclusione delle ostilità, i 35.000 uomini inizialmente inviati erano saliti a 55.000, insufficienti comunque per venire a capo dello stato di guerriglia che travagliava il nuovo possedimento coloniale italiano.
La preparazione di una guerra contro l'ex alleato austro-ungarico non trovava difficoltà nelle convinzioni politiche del generale Cadorna, a cui non si riconoscevano particolari simpatie e che poteva anzi proprio essere sospettato di sentimenti anti-austriaci, quantomeno in conseguenza della carriera militare dell'illustre genitore [(battutosi in tutte e tre le guerre d'Indipendenza (I, 23 marzo 1848/6agosto 1848; II, 26 aprile 1859/10 novembre 1859, e III, 8 aprile 1866/3 ottobre 1866)] ed in virtù di quei sentimenti risorgimentali che, per logica conseguenza, impregnavano la sua dedizione al mestiere delle armi ed al servizio del Re e quindi dello Stato. Nella stesura dei necessari piani di guerra il nuovo Capo di Stato Maggiore fu semmai intralciato dalle riserve e dai tentennamenti del secondo gabinetto di Antonio Salandra (1853-1931), deciso a trattare contemporaneamente con le potenze dell'Intesa e con gli Imperi Centrali nel tentativo di strappare eventualmente a Vienna, sul tavolo delle trattative, quei compensi territoriali a cui il Regno d'Italia ambiva.
Il progressivo irrigidimento su posizioni irrevocabilmente interventiste spinse il 26 febbraio 1915 Antonio Salandra ed il Ministro degli Esteri Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) ad intavolare le trattative che avrebbero portato alla stipula del c. d.”Patto di Londra”.
Avviati quindi il 4 marzo i negoziati, essi si sarebbero protratti sino al 26 aprile, mentre l'incertezza, che regnava allora nei circoli politico-diplomatici in conseguenza di una condotta improntata a simili criteri opportunistici, determinò un significativo ritardo nell'emanazione dei primi ordini di mobilitazione.
Quest'ultima fu infatti avviata, ed in forma parziale, soltanto il giorno 1 marzo, mentre la vaghezza delle direttive politiche e l'assenza di un significativo spirito di collaborazione fra il governo ed i vertici militari spinse lo Stato Maggiore, nella persona del generale Cadorna, ad accelerare, ma di propria iniziativa, i preparativi di guerra.
Come accaduto quasi un anno prima in occasione dello scoppio della guerra sugli altri fronti, i provvedimenti militari finirono per forzare,  a loro volta, la mano alla politica, spingendo infine il gabinetto Salandra a contrarre accordi vincolanti con le potenze dell'Intesa che prevedevano la dichiarazione di guerra da parte dell'Italia all'Austria-Ungheria entro un mese dalla ratifica degli accordi medesimi.
Dopo le prime disposizioni per una mobilitazione parziale e puramente cautelativa, soltanto il 5 maggio, tuttavia, Cadorna venne esplicitamente informato da Salandra circa la necessità di ricorrere alla mobilitazione generale nella prospettiva di scendere in guerra contro l'Austria-Ungheria entro il giorno 26 dello stesso mese.
L'avvio delle operazioni militari si ebbe il 23 maggio, traducendosi in una lenta avanzata verso il corso dell'Isonzo della II e III Armata, senza che gli italiani incontrassero una significativa resistenza da parte del nemico. I combattimenti si accesero solamente ai primi di giugno e la spinta offensiva voluta dal Nostro raggiunse il suo apice fra il 25 ed il 30 giugno 1915.
Dopo alcuni scacchi iniziali, costati pesanti perdite, il Monte Nero venne conquistato il 16 giugno da un fulmineo assalto di sei battaglioni di alpini, mentre le restanti vette rimasero in mano austriaca.
Quello stesso giorno il generale Pietro Frugoni (1851-1940) ordinò la sospensione delle operazioni offensive della II Armata contro Plava, posizione che sarebbe stata nuovamente teatro di ferocissimi combattimenti durante la seconda e la terza battaglia dell'Isonzo.
Con questo ordine di Frugoni si esauriva così la prima fase dell'offensiva.
Sin dall'inizio della guerra la I Armata italiana, schierata lungo il fronte trentino al comando del generale Roberto Brusati, aveva assunto un atteggiamento offensivo improntato ad una lenta ma costante avanzata in territorio austriaco; tale condotta era stata informalmente avallata dallo stesso Cadorna, a patto tuttavia che gli sforzi di Brusati non sottraessero uomini e mezzi al principale scacchiere isontino. Quando, a partire dal febbraio del 1916, il comando della I Armata segnalò una crescente concentrazione di truppe nemiche nel settore, Cadorna liquidò simili notizie sostenendo di non credere alla remota possibilità che l'esercito imperial-regio orchestrasse un attacco di prima grandezza.
Al contrario, quella che sarebbe passata alla storia come “Strafexpedition” aveva l'ambizioso obiettivo di sfruttare il saliente trentino che, profondamente incuneato nel territorio italiano, minacciava alle spalle lo schieramento isontino ove era attestata la massima parte dell'esercito italiano.
Partendo quindi dagli altopiani di Folgaria e Lavarone le forze austro-ungariche si lanciarono all'assalto il 15 maggio 1916, dopo una lunga serie di rinvii determinati dalle avverse condizioni meteorologiche. I risultati immediati furono incoraggianti: durante i primi giorni l'offensiva portò alla conquista di Arsiero ed Asiago, due importanti punti d'accesso alle pianure meridionali, ed alla cattura di 40.000 prigionieri e 300 cannoni.
In tali critiche circostanze, il generale Luigi Cadorna attribuì ogni responsabilità al Brusati.
Costui aveva perso la testa sino a paventare un collasso dell'intero fronte trentino.
Ma, sotto questo aspetto, la salda assunzione del controllo delle operazioni da parte del Capo di Stato Maggiore in persona dovrebbe essere pertanto considerata provvidenziale.
Al contrario di quanto dimostrato da molti ufficiali, al Cadorna non difettarono mai tenacia e sangue freddo, ed egli guidò con mano salda il ripiegamento dell'armata sconfitta su nuove posizioni; nel frattempo provvide a costituire con notevole celerità e spirito d'improvvisazione una nuova formazione, la V Armata, concentrando 179.000 uomini fra Vicenza e Padova, ed assegnandone il comando al generale Pietro Frugoni.
Nei piani di Cadorna tale forza era destinata a fronteggiare gli austriaci qualora questi fossero spuntati in pianura, ma una simile minaccia non si materializzò, dal momento che anche nel settore di massima penetrazione, quello dell'Altopiano di Asiago, l'offensiva austriaca venne arginata già entro i primi quindici giorni di giugno.
Le forze austro-ungariche continuarono a riscuotere una serie di successi tattici minori, ma l'irrigidimento della difesa italiana, e nel contempo l'allungamento delle linee di comunicazione ed il previsto sovraccarico della limitata rete logistica di cui il generale Franz Conrad Von Hötzendorf (1852-1925)  poteva disporre in Trentino fecero sfumare l'agognata prospettiva di uno sfondamento strategico.
L'offensiva del generale russo Aleksej Alekseevič Brusilov (1853-1926) scatenata infine in Galizia, determinò la definitiva cessazione di qualsiasi movimento offensivo ed il rapido ridispiegamento ad est delle principali grandi unità impegnate nella “Strafexpedition.”
Sul fronte dell'Isonzo, Cadorna aveva disposto, a sud (riva destra), la III Armata comandata dal Principe Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta (1869-1931); a nord (riva sinistra), la II Armata, comandata dal generale Luigi Capello (1859-1941) e costituita da otto corpi d'armata.
Ma l'offensiva austro-tedesca iniziò alle ore 2.00 del 24 ottobre 1917 con tiri di preparazione dell'artiglieria, prima a gas, poi a granate fino alle 5.30 circa. Verso le 6.00 cominciò un violentissimo tiro di distruzione a preparazione dell'attacco delle fanterie. I rapporti del comando d'artiglieria del XXVII Corpo d'armata  indicano che il tiro tra le 2.00 e le 6.00 produsse perdite molto lievi.
Solo nella conca di Plezzo i gas ebbero effetti apprezzabili.
L'attacco delle fanterie cominciò alle ore 8.00 con uno sfondamento immediato sull'ala sinistra, nella conca di Plezzo sul fianco sinistro della II Armata. Tale parte di fronte era presidiata a sud, tra Tolmino e Gabrije (paese a metà strada tra Tolmino e Caporetto), dal XXVII Corpo d'armata del generale Pietro Badoglio (1871-1956).
A complicare le cose sopraggiunse la situazione – solo leggermente meno drammatica - del fronte del IV Corpo d'armata, confinante a sud con il Corpo d'armata comandato dal Badoglio.
Ma un vero ed autentico disastro, infatti, cominciò quando il nemico, arrivò a Caporetto, da entrambi i lati dell'Isonzo.
La mancata risposta delle artiglierie Italiane sul fronte del XXVII Corpo d'armata è una delle ragioni accertate, ma anche provate dello sfondamento; il generale Badoglio, per effetto del fuoco del nemico, che aveva individuato la sua posizione perché trasmetteva in chiaro, perse il collegamento con l’Ufficiale, che, come da ordini ricevuti, restò inerte. Incuneato tra i due corpi d'armata ed in posizione più arretrata era stato disposto molto frettolosamente anche il VII Corpo d'armata comandato dal generale Luigi Bongiovanni (1866-1941).
La sua efficacia fu nulla. La mancanza di riserve dietro il IV Corpo d'armata, fu senz'altro uno dei motivi principali che contribuirono alla disfatta.
Badoglio, pur essendo a pochi chilometri dal fronte, seppe dell'attacco delle fanterie nemiche solo verso mezzogiorno, e riuscì a comunicarlo al comando della II Armata (generale Capello) soltanto qualche ora dopo.
Cadorna seppe della gravità dello sfondamento e del fatto che il nemico aveva conquistato alcune forti posizioni solo alle ore 22.00.
Al di là delle responsabilità di singole piccole e medie unità, le colpe maggiori di ordine strategico non possono che essere attribuite al comando supremo (Luigi Cadorna) per non aver controllato l'esecuzione dei suoi ordini (ed è anche provato che volutamente furono eseguiti in ritardo), e al comando d'armata interessato (gen. Capello) per non aver eseguito l'ordine di assumere uno schieramento difensivo, mentre quelle di ordine tattico ai tre comandanti dei corpi d'armata coinvolti [Pietro Badoglio, quindi, Alberto Cavaciocchi (1862-1925) e Luigi Bongiovanni]. Tutti vennero giudicati colpevoli dalla commissione d'inchiesta (del 1918-19) di prima istanza, di cui parlerò tra poco, con l'unica eccezione di Badoglio.
Tuttavia l'errore tattico più sconcertante ed oggettivamente misterioso fu senza dubbio operato dal Badoglio sul suo fianco sinistro (riva destra dell'Isonzo tra la testa di ponte austriaca davanti a Tolmino e Caporetto).
 Questa linea, lunga pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di competenza del Corpo d'armata di Badoglio (riva destra) e la zona assegnata al IV Corpo d'armata di Cavaciocchi (riva sinistra). Nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa linea la direttrice dell'attacco nemico, la riva destra fu lasciata praticamente sguarnita con il solo presidio di piccoli reparti, mentre il grosso della 19ª divisione e della brigata Napoli era arroccato sui monti sovrastanti. In presenza di nebbia fitta e pioggia, le truppe italiane in quota non si accorsero minimamente del passaggio dei tedeschi in fondovalle, e, in sole quattro ore, le unità tedesche risalirono la riva destra arrivando integre a Caporetto, sorprendendo da dietro le unità del IV Corpo d'armata.
Il 25 ottobre 1917 il parlamento italiano negò la fiducia al governo presieduto da Paolo Boselli (1838-1932) che fu costretto a dimettersi.
Il 30 ottobre il governo si ricostituì sotto la guida dell’illustre giurista Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), il quale, già nei colloqui dei giorni precedenti, aveva richiesto al Re la rimozione di Cadorna. Nel frattempo arrivarono a Treviso il comandante supremo dell'esercito francese generale Ferdinand Foch (1851-1929) e il generale William Robert Robertson (1860-1933), capo di stato maggiore dell'esercito britannico.
Nella notte dal 30 al 31 ottobre Cadorna ordinò alla IV armata - schierata in Cadore al comando del generale Mario Nicolis di Robilant (1855-1943) - di accelerare il movimento di ripiegamento sulla destra del Piave, che avrebbe dovuto presidiare il settore tra la Val Brenta e Vidor occupando il Monte Grappa.
 Il Duca d'Aosta, comandante della III armata, era già riuscito a porre in salvo le sue truppe a ovest del Tagliamento.
Di Robilant eseguì in ritardo e con riluttanza l'ordine di Cadorna, tanto che il 3 novembre, vedendo in pericolo il progetto di saldatura tra le due armate sulla nuova linea difensiva, il comandante supremo dovette ribadire l'ordine di ripiegamento.
La sera del 3 novembre il generale Cadorna fece partire per Roma un suo fedelissimo, il colonnello Angelo Gatti (1875-1948), con una lettera al presidente del consiglio Orlando in cui affermava che la situazione era «critica» e sarebbe potuta «da un momento all'altro diventare criticissima ed assumere carattere di eccezionale gravità, ove l'offensiva nemica che, attraverso molteplici indizi, pare imminente sul fronte trentino, si sferrasse con tale violenza che le nostre forze fossero impari a fronteggiarla».
La sera del 5 novembre, in Rapallo, si incontrarono per un vertice interalleato il nuovo Capo del Governo, i Primi ministri di Francia e Gran Bretagna ed i generali Foch e Robertson. In una riunione propedeutica i rappresentanti stranieri si espressero subito per l'allontanamento di Luigi Cadorna dal comando, e la sua sostituzione con il Duca d'Aosta, Comandante dell’Invitta III Armata.
Nel vertice del giorno successivo la sostituzione di Cadorna fu imposta come condizione per l'invio dei rinforzi alleati e fu proposta l'istituzione di un Consiglio supremo di guerra alleato di cui avrebbero dovuto fare parte i generali Foch per la Francia, Wilson per la Gran Bretagna e Cadorna per l'Italia.
I partecipanti al vertice di Rapallo si trasferirono quindi a Peschiera del Garda il giorno 8 novembre per riferire i risultati al Re, il quale si oppose alla nomina del Duca d'Aosta a Capo di Stato Maggiore , ma confermò la rimozione del Cadorna.
Il generale Armando Diaz (1861-1928), fino a quel momento comandante del XXIII Corpo d'armata, fu nominato Comandante Supremo dell'Esercito Italiano con Decreto del 9 novembre, in sostituzione di Luigi Cadorna, il quale, dopo un iniziale rifiuto, accettò l'incarico di rappresentante presso il consiglio di guerra interalleato.
Tuttavia l'intuizione di Cadorna, espressa con lettera del 3 novembre, di un imminente attacco sul fronte trentino si dimostrò giusta: il 9 novembre la coda della IV Armata e tre divisioni del XII Corpo d'armata in ripiegamento dalla Carnia furono sopraffatte con gravi perdite dalla XIV Armata austro-tedesca che, dopo avere forzato il ponte di Cornino sul Tagliamento il 2 novembre, aveva iniziato una manovra eccentrica rispetto all'asse principale di avanzata. La III Armata si attestò sulla sinistra del Piave dal Ponte della Priula al mare il 9 novembre, mentre la IV non aveva ancora completato il suo schieramento.
Tale indugio consentì alla IV Armata di mettere in salvo le artiglierie di medio e grosso calibro, che tanto contribuirono a salvare il Monte Grappa.
Le idee di Cadorna, in merito alle tattiche d'attacco, non differivano poi molto da quelle dei generali suoi contemporanei: dalla dottrina francese incentrata essenzialmente sull'”elan”, sino alla massima austriaca del «Vorwärts bis in den Feind» ("Sempre e in ogni caso avanti fino al nemico").
Tranne che quello tedesco, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale nessun esercito aveva correttamente valutato l'impatto dell'appoggio di una forte artiglieria all'avanzata delle fanterie sul campo di battaglia.
A Luigi Cadorna, a sua discolpa, si può comodamente affermare che nel 1915 egli commise i medesimi errori che Joseph Jacques Césaire Joffre (1852-1931), Douglas Haig (1861-1928) e Robert Georges Nivelle (1857-1924) continuarono a ripetere nel 1916 e nel 1917. Come ricordato dallo storico John Schindler le principali manchevolezze evidenziate dalla condotta di Cadorna, soprattutto durante i primi mesi di guerra, furono di natura più strategica che strettamente tattica: il cruciale ritardo di un mese nell'orchestrare la prima offensiva dell'Isonzo permise infatti agli austriaci di concentrare quelle poche truppe raccogliticce sufficienti ad arrestare l'avanzata italiana. I generali di Cadorna esitarono di fronte alla prospettiva di un'azione rapida, ed in questo modo andò sprecata l'occasione di una facile avanzata sino a Trieste, possibile per l'assenza di rilevanti forze nemiche lungo il fronte isontino (il comandante generale della cavalleria fu rimosso per questa esitazione).
Le undici "spallate" isontine sottolineano, ed al meglio, le convinzioni tattiche e belliche di Cadorna. Infatti non appena il nemico gliene diede l'opportunità, mostrò quello di cui era capace (la brillante manovra per linee interne nel '16 che portò alla conquista di Gorizia).
La sua determinazione nel picchiare contro linee che si andavano progressivamente irrigidendo può essere ricondotta alla ben nota ostinazione che lo contraddistingueva ma anche alla sua convinzione, confermata da tutta la storia militare, che le guerre si vincono concentrando la massa dei propri uomini sul fronte debole del nemico.
Sull'Isonzo le fanterie italiane continuarono ad attaccare in colonne compatte sotto il fuoco nemico; ma Cadorna seppe trovare la soluzione all'esigenza di rompere il fronte nemico con l'istituzione del Corpo degli Arditi che dimostrarono sul campo di riuscire laddove i soldati non specificamente addestrati avevano fallito.
Un simile approccio, tuttavia, non testimonia solamente della scarsa considerazione nutrita da Cadorna nei confronti della vita dei propri uomini e della sua considerazione per il fattore umano in termini meramente quantitativi: l'adozione delle formazioni chiuse era infatti prediletta dagli stessi ufficiali e sottufficiali poiché aumentava il controllo su coscritti scarsamente addestrati. A Cadorna andrebbe quantomeno ascritto il merito di aver compreso, sin dalla conclusione delle prime due battaglie dell'Isonzo, che l'artiglieria avrebbe svolto un ruolo cruciale nelle operazioni successive, in base alla constatazione che le perdite subite dagli austriaci in questi primi scontri erano state inflitte proprio dal fuoco dei cannoni italiani.
Sempre Schindler ricorda come per la terza battaglia dell'Isonzo furono radunate ben 1372 bocche da fuoco di cui 305 di grosso calibro: dati che inducono l'autore ad identificare proprio in Cadorna il primo grande interprete della cosiddetta “Materialschlacht” (la c. d. “battaglia di materiale”). Anche in questo caso il ragionamento sotteso alle decisioni di Cadorna seguiva una semplice logica quantitativa, basata sul teorema che prevedeva maggiore potenza di fuoco per scalzare trinceramenti sempre più estesi e profondi.
In conclusione andrebbe tuttavia evidenziato che il confronto impostato da Cadorna secondo i termini della “Materialschlacht” avrebbe inevitabilmente condotto l'Austria-Ungheria alla disfatta in virtù della semplice disparità delle forze in gioco: già all'epoca della conquista di Gorizia, Cadorna aveva appena iniziato ad intaccare le proprie riserve umane, mentre gli austro-ungarici dovettero in quel momento fronteggiare la prima seria crisi dall'inizio delle operazioni.
Spesso si dimentica che all'indomani dell'undicesima battaglia dell'Isonzo la situazione austriaca si era fatta disperata, con il solo monte Ermada rimasto ormai a sbarrare il passo all'avanzata italiana attraverso il Carso in direzione di Trieste: la resistenza era giunta ad un punto di rottura, e proprio tale evidenza indusse l'Alto Comando tedesco a concedere infine gli agognati rinforzi che portarono alla costituzione della XIV Armata in vista di quella programmata offensiva di alleggerimento che portò in ultima analisi per l'Italia alla disfatta di Caporetto.
 Terminato quindi l’incarico bellico, in un primo momento, il Nostro rifiutò di rappresentare l’Italia nel Consiglio Superiore di Versailles (Giolitti gli si scagliò contro), ma poi accettò. Da vero ed autentico militare, non sopportava a lungo l’inattività e sembra anche che fu implorato dal Ministro della Guerra, generale Vittorio Luigi Alfieri (1863-1918), in quanto unica personalità autorevole da inviare al Consiglio medesimo in un momento tanto buio per i destini della Nazione.
Certamente la presenza di Cadorna alla Conferenza fu un fattore positivo, anche se lui la considerò «[…] un parlamentino di 75 persone […] più inconcludente che mai. Mentre noi qui si discute, gli Austro-tedeschi picchiano sodo».
Mentre Cadorna era a Versailles, in Italia, alla Camera dei Deputati, fu soggetto di feroci attacchi. Il deputato Alfredo Sandulli ne chiese il deferimento all’Alta Corte di Giustizia, il socialista Michele Gortani (1883-1966) l’arresto, mentre Napoleone Colajanni (1847-1921) addirittura la fucilazione, e proprio il Ministro della Guerra Alfieri gli attribuì ogni sorta di colpa per Caporetto  e per la condotta generale della guerra.
Ma tali attacchi proseguirono anche al Senato del Regno, ove, come gli comunicò Vittorio Emanuele Orlando in una lettera del 2 gennaio 1918, venne istituita una Commissione d’inchiesta sui fatti dei mesi di ottobre/novembre 1917.
Degli attacchi alla Camera, il Nostro si disinteressò rispondendo, come disse lui, «con il silenzio», ma come Senatore del Regno (lo era dal 16 ottobre 1913) si sentì aggredito e così si sfogò: «Razza di vigliacchi!..... Ma io non andrò più in Senato. Non posso dare le dimissioni, ma non ci andrò più. Non voglio andare fra quella gente  falsa che vive sotto la ferula dei neutralisti e dei disfattisti».
Tale Commissione fu presieduta dal generale Carlo Caneva, vecchio generale austriaco, rivale di Cadorna per il comando delle truppe in Libia, come già poc’anzi detto, ed era composta da viceammiraglio Felice Napoleone Canevaro (1838-1926), dal generale Ottavio Ragni (1852-1919), silurato da Cadorna nel 1915, dall’avvocato Donato Tommasi del Tribunale Speciale di Guerra, dai senatori del Regno Paolo Emilio Bensa (1858-1928), Alessandro Stoppato (1858-1931), e dal deputato Orazio Raimondo (1875-1920), socialista interventista nonché massone, che poi era l’avvocato difensore del colonnello Giulio Douhet (1869-1930), definito dal colonnello Gatti «[…] indiscutibilmente un uomo geniale ma grafomane»,  il quale fu arrestato e condannato  per aver scritto un memoriale diffamatorio nei confronti di Luigi Cadorna.
Quindi il 17 gennaio 1918, Cadorna,  ferito come comandante e come Senatore del Regno soprattutto per la mancata difesa del Re Vittorio Emanuele III, concluse la sua missione al Consiglio di Versailles  ed, amareggiato, citò i versi del Tasso: “Viddi e conobbi ancor le inique corti”. 
Tutt’altro la notizia non entusiasmò assolutamente gli Alleati, che, in seno della Conferenza di Versailles, avevano avuto modo di farsi un ottimo concetto del generale Cadorna, ben diverso dalle giornate di Rapallo.
Prima di lasciare Versailles, il Generale, grandissimo ammiratore di Napoleone Bonaparte (1769-1821), volle visitare il castello di Fontainebleau, ove, nel marzo 1814, il mitico Córso abdicò baciando l’Aquila del 1ere Regiment des Grenadiers à Pied , portataGli dal tenente Forti, piemontese come il Nostro.
Tornato in Italia, il Cadorna subì ogni sorta di umiliazione e di meschino attacco.
Egli divenne il capro espiatorio su cui caricare tutte le colpe della guerra, tutte le durezze e tutti gli orrori.
Nel frattempo la “Reale Commissione d’inchiesta sul ripiegamento al Piave”, come era denominata,  svolgeva il suo lavoro giornaliero e dopo diciotto mesi di lavoro e duecentoquarantuno sedute presentò la propria relazione al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti (1868-1953) il 24 luglio 1919.
Pur avendo apparentemente valore di documento alquanto ufficiale, come documento storico ne ha invece scarsissimo se non nullo.
Il generale Emilio Faldella (1897-1975) nel suo “La Grande Guerra II. Da Caporetto al Piave” (Milano 1965)” ha sottolineato come la detta relazione «mostrasse mancanza di obiettività, trascurato approfondimento di questioni di importanza fondamentale, voluta parzialità nei giudizi» tanto che a sua volta il generale Raffaele Cadorna, figlio del Nostro, potè tranquillamente scrivere, ed a ragione, di «leggende propagate ad arte» dalla Commissione d’Inchiesta.
Si tratta di un documento di voluta parzialità, teso a scaricare sul Comando Supremo tutte le colpe, iniziando dal malgoverno della truppa come causa unica del basso morale, argomento chiaramente e volutamente gonfiato dal deputato Raimondo, socialista, e dallo stesso Orlando, e ciò al fine di nascondere le gravissime colpe del difattismo socialista – finanziato in buona parte dagli Imperi Centrali – e le omissioni del ministero degli Interni al fine di reprimerle.
Né si puo’ tacere come questo tentativo di nascondere le responsabilità materiali e morali dei socialisti coincidesse perfettamente con il governo di Nitti, che fu poi quello dell’amnistia per i disertori.
Per la Commissione a provocare la disfatta di Caporetto non furono cause  tecnico-militari, i tedeschi od il disfattismo, ma solo e soltanto i generali Luigi Cadorna, Luigi Capello e  Carlo Porro (1854-1939)  ed il malgoverno della truppa.
Celeberrima è la questione dello stralcio delle tredici pagine della Relazione dedicate al Comando del XXVII Corpo d’Armata. Ciò ha fatto si che nella Relazione, per quanto riguarda lo sfondamento del settore tra il IV ed il XXVII Corpo d’Armata, tutte le colpe siano ricadute sul generale Alberto Cavaciocchi, comandate del IV, e nessuna su Badoglio, comandante del XXVII.
La leggenda dice che Badoglio fu salvato dalla Massoneria.
Invece la testimonianza del deputato Giuseppe Paratore (1876-1967)  dimostra che codesto stralcio fu voluto dal presidente Vittorio Emanuele Orlando (e quindi dal generale Armando Diaz) per proteggere Pietro Badoglio, Sottocapo di Stato Maggiore, cui si dovevano la ristrutturazione dell’Esercito nel 1918 ed in buona parte le vittorie del Piave e di Vittorio Veneto.
Oltretutto, al momento della pubblicazione della Relazione, il Badoglio era Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Tra l’altro il Badoglio accusò Cadorna di essere fuggito ad Udine, ed il Nostro così commentò: «Egli doveva a me tutta la sua carriera […] ed ora mi si rivolta contro. Nulla avrei da replicare a cose giuste e vere, ma le sue critiche sono pure e semplici sciocchezze, fondate sulla più completa ignoranza».
Pubblicati e terminati i lavori della Commissione, la vita pubblica del generale Luigi Cadorna cadde in un doveroso silenzio.
Fu Benito Mussolini (1883-1945), uno sempre lungimirante e già bersagliere di Cadorna sul Carso, ma anche il Fascismo della prima ora, cioè quello dei reduci  dei sansepolcrini, a far tornare in auge la sua figura.
Infatti il Duce fece nominare il Nostro, nel sesto anniversario della Vittoria, il 4 novembre 1924, Maresciallo d’Italia.
E fu Mussolini che lo ricordò: «Nel novembre 1924, ristabilii il grado di Maresciallo d’esercito esistente nell’esercito sardo prima delle guerre napoleoniche; non fu facile far accettare a Diaz – artefice della Vittoria – una parità di annuario con Cadorna […] Bisognava sanare la piaga della polemica di Caporetto. Imposi i mio punto di vista». 
Purtroppo ulteriori pressioni del Capo del Governo sul Re non riuscirono a far concedere il Cavalierato della Santissima Annunziata al Nostro.
Vittorio Emanuele III non ha mai considerato il generale, anche se egli, da militare e da piemontese, era più che fedele al Re ed a Casa Savoia.
La nomina del Cadorna a Maresciallo d’Italia gli fece anche riprendere l’attività in Senato.
Purtroppo, però, la sua salute, colpito da arteriosclerosi, iniziò a declinare.
Agli inizi di novembre 1928, Luigi Cadorna, accompagnato dalla moglie e dalla figlia, si trasferì nella cittadina ligure di Bordighera, rinomata per il suo clima mite.
Il 17 dicembre, le condizioni del Generale peggiorarono.
Morì, munito dei conforti religiosi, alle 4 e 10 del pomeriggio del 21 dicembre 1928.
Il 24 maggio 1932  venne inaugurato il mausoleo cadorniano di Pallanza.
Scrissero del generale Cadorna il “General der Infanterie” Alfed Krauss (1862-1938) ed il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia (1862-1945).
Scrive il Krauss nel suo “Die Ursachen unserer Niedelage. Erinnerungen und Urteile aus dem Weltkrieg”: «[…] Soltanto una potente, energica volontà poteva trascinare gli Italiani, il cui temperamento non è tanto tenace, a sempre nuovi, continui attacchi, a così lunghi sforzi, malgrado i loro insuccessi. Nel fatto stava a capo dell’esercito italiano questo forte uomo così poco corrispondente al carattere italiano, Cadorna […] sottoposto a inchiesta e dovette giustificarsi davanti a delle nullità […]».
Tuttavia il ritratto tracciato di Cadorna ne sottolinea la grandezza morale; è un brano degno del grande storico greco Plutarco (46/48 d. C.-125/127 d. C.) (in lingua greca “Πλούταρχος”), e forse Cadorna sarebbe stato l’unico generale italiano di cui il detto storico avrebbe potuto scrivere una degna e precisa biografia.
Sono parole, codeste del generale Krauss, avversario dell’Italia, che andrebbero lette e meditate dai troppi autori, siano giornalisti prestati alla Storia o storiografi, che scrivono troppo superficialmente su questi argomenti tranciando giudizi totalmente infondati.
Scrive il Caviglia, non certamente cadorniano, nel suo “La Dodicesima battaglia (Caporetto)”: «Cadorna lasciò il comando dell’esercito a testa alta, senza debolezza. Era un uomo non comune, di forte carattere e di grande altezza d’animo. Possedeva un’elevata coscienza del suo dovere, e se assumeva le responsabilità con serena e forte volontà, senza preoccupazioni né per la sua posizione personale né per il giudizio della storia. Disdegnava le transazioni, i mezzi termini, le posizioni incerte. […] Fu perciò il solo generale dell’Intesa che si mostrò degno di esercitare il comando supremo degli eserciti alleati. Però questa sua concezione larga dell’azione militare oltrepassava le ragioni politiche e gli scopi della nostra guerra. Egli aveva dato più di ciò che doveva dare.».
Ulteriore limpido giudizio fu del grande storico Gioacchino Volpe (1876-1971) nel suo “Il popolo italiano nella Grande Guerra”, ma anche, passim, nel suo “Caporetto”, che considerava il Nostro un condottiero: «Vecchio soldato piemontese e intransigente quanto a disciplina, era anche persuaso che la disciplina dovesse poggiare essenzialmente su le forze morali del soldato, da educare e mantenere vive ed operose. Le sue circolari erano sempre un documento di fede: la fede che, nella battaglia, il volere di vincere è tutto; la fede, anche, nelle qualità del nostro soldato, intelligenza sveglia, prestanza fisica, generosità e slancio, naturale audacia, con le quali si doveva bene avere ragione del pesante metodismo del nemico.».
Più complessa risulta la valutazione di Cadorna come condottiero d'uomini in quanto la sua condotta fu condizionata dal secondo articolo del Patto di Londra che obbligava l'Italia ad attaccare con tutte le sue risorse per evitare travasi di forze nemiche sul fronte occidentale. Cadorna ebbe più sensibilità per le sofferenze dei soldati al fronte,  di quanta ne ebbero gran parte degli alti ufficiali della Grande Guerra dal detto generale Haig, a Erich Von Falkenhayn (1861-1922) sino a Franz Conrad Von Hötzendorf (1852-1925) e Svetozar Boroević Von Bojna (1856-1920).
Si dice che in seno all'esercito poté godere di libertà del tutto sconosciute agli altri comandanti alleati, e la sua influenza si estese sino a condizionare l'operato e gli orientamenti del Ministero della Guerra e dello stesso governo; dalla caduta del II governo Salandra, in conseguenza della “Strafexpedition” lanciata dagli austriaci, sino a Caporetto, il generale concentrò nelle proprie mani poteri e prerogative comparabili soltanto a quelli della "dittatura militare".
A causa di tale stato di cose Cadorna poté esercitare il proprio potere in modo quantomeno arbitrario, facendo e disfacendo i quadri superiori delle forze armate.
Il sollevamento dal comando per le più disparate ragioni (sino a giungere al paradosso dei siluramenti "preventivi") divenne pratica talmente diffusa da inibire completamente lo spirito d'iniziativa dei comandanti ad ogni livello, ciascuno paventando di essere rimosso dal proprio superiore diretto anche in conseguenza di scacchi e fallimenti marginali.
Ma è necessario, e quindi doveroso, aggiungere che, spesso e volentieri, gli ordini del Cadorna o non venivano eseguiti o, se eseguiti, con ritardo anche di giorni.
Un esempio fu Caporetto.
Anche la leggenda del dispotismo del Nostro va’ sfatata. Lo scrive lui stesso in una lettera del 6 giugno 1917 al Presidente del Consiglio Paolo Boselli: «[…]Ho già avuto altre precedenti occasioni di accennare esplicitamente a ciò nelle mie precedenti comunicazioni al Governo; vi ritorno oggi perché quanto avviene in questi giorni in alcuni reparti delle nostre truppe è di così minacciosa gravità che io mancherei al primo dei miei doveri se non manifestassi con rude franchezza e con la convinzione di servire onoratamente e onestamente gli interessi del Paese e della Monarchia […]».
Il Generale allude a fenomeni di indisciplina ed a sobillatori (socialisti) inviati ad arte tra le truppe.
La storia militare dell’Italia vanta un numero limitato di buoni comandanti.
Di veramente grandi ne ha avuto uno solo: Luigi Cadorna.

E lo ha dimenticato.