di Gianluigi Chiaserotti
Luigi Cadorna nacque a Pallanza
(già Novara, ed attualmente località della provincia del Verbano-Cusio-Ossola)
il 4 settembre
1850, figlio del Generale Raffaele (1815-1897) (veterano della battaglia di San Martino e in seguito
comandante della spedizione che nel 1870 portò all'annessione di Roma al Regno
d'Italia).
Il Nostro personaggio è membro di una illustre
discendenza di militari, di politici ed uomini delle istituzioni.
Ricordiamo, senza dubbio, Carlo Cadorna
(1809-1891), fratello del padre del Nostro, uomo politico, che fu deputato (dal
1848) al Parlamento Subalpino, Ministro della Pubblica Istruzione (dic.
1848-marzo 1849 e ott. 1858-luglio 1859), Presidente (1856-1858) della Camera
del Deputati, Senatore del Regno (dal 1858) e Ministro dell’Interno nel II
governo di Luigi Federico Menabrea (1809-1896); il di già citato Raffaele
Cadorna, padre del Nostro, generale ed uomo politico, più volte deputato, e, dal
1871, Senatore del Regno, nonché cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima
Annunziata in data 20 settembre 1895 quale creazione numero 643
dall’istituzione dell’Ordine; infine Raffaele Cadorna (1889-1973), figlio del Nostro,
anch’esso generale ed uomo politico, comandante, tra l’altro, del Corpo
Volontari della libertà, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e Senatore della
Repubblica nelle prime tre legislature [I,
1948-1953; II, 1953-1958, e III, 1958-1963 (ma per lui dal 1959)] per il
collegio di Cusio-Ossola per la Democrazia Cristiana , al quale è dedicato un
giardino sul piazzale Ostiense in Roma.
Alla famiglia Cadorna (già Nobile di Firenze), nella persona del detto generale Raffaele
Cadorna, fu concesso il titolo di Conte in data 16 dicembre 1875 e l’assenso a
Nobile romano in data 7 giugno 1894.
Ma torniamo al Nostro.
Nel 1860, all'età di dieci anni, Luigi fu avviato dal padre agli
studi militari.
Dapprima studiò alla Scuola militare "Teuliè" di Milano, e,
cinque anni dopo, entrò all'Accademia Militare di Torino, venendo
nominato Sottotenente nell'Arma di Artiglieria
nel 1868.
Nel 1870, in forza al 2º Reggimento
di Artiglieria, partecipò alle brevi operazioni militari contro Roma nel corpo
di spedizione comandato dal padre Raffaele.
Capitano nel 1880, nel 1883 venne promosso al grado di Maggiore
ed assegnato allo Stato Maggiore del Corpo
d'armata del generale Giuseppe Salvatore Pianell (1818-1892).
Nel 1889 sposò Maria Giovanni Balbi dei marchesi Balbi di Genova.
Nel 1892, promosso Colonnello,
Luigi Cadorna ottenne il primo incarico operativo in qualità di comandante del 10º
Reggimento Bersaglieri, mettendosi precocemente in luce per la sua
rigida interpretazione della disciplina militare.
Durante le manovre del maggio 1895, sempre al comando
del 10º Reggimento, ebbe modo di puntualizzare per la prima volta quei princìpi
tattici che costituiranno la base della sua incrollabile fede nell'offensiva ad
oltranza.
Nel 1896, abbandonati gli incarichi operativi, assunse la carica
di Capo di Stato Maggiore del Corpo di Armata di Firenze.
Nel 1898, con la promozione a Tenente
Generale, entrò a buon titolo a far parte della ristretta cerchia degli alti
ufficiali dell'esercito.
La sua ascesa si dimostrò molto costante.
Nello stesso anno egli dovette affrontare la sua
prima delusione, allorquando, resosi disponibile l'incarico di Ispettore
generale degli Alpini,
gli venne preferito il generale Nicola Heusch (1837-1902).
Nel 1900 ebbe un secondo insuccesso: abbandonato il generale Alberto
Cerruti (1840-1912) il comando della Scuola di Guerra, il Cadorna si
vide scavalcato dal generale Luigi Zuccari
(1847-1925).
A Cadorna fu invece assegnato il comando della Brigata
Pistoia,
allora di stanza a L'Aquila, che tenne per i successivi quattro anni. E’ di
questo periodo la compilazione di un manuale dedicato ai metodi d'attacco delle
fanterie, in cui ebbe modo di ribadire la sua fiducia nelle tattiche
offensiviste che d'altronde erano allora in voga nell'esercito.
Nel 1905, Luigi Cadorna assunse il comando della Divisione Militare
di Ancona,
e, nel 1907,
fu a capo della Divisione Militare di Napoli con il
grado di Tenente Generale, giungendo infine ai massimi vertici delle forze
armate.
Nello stesso anno venne fatto, per la prima volta,
il suo nome quale possibile successore del generale Tancredi
Saletta (1840-1909), che godeva allora di pessima salute, alla
suprema carica di Capo di Stato Maggiore dell'esercito. Ma l'anno successivo,
abbandonato infine il Saletta l'incarico, Cadorna si vide preferire il generale
Alberto
Pollio (1852-1914).
A questo capovolgimento di fronte non furono
sicuramente estranei né i proclamati sentimenti di ostilità del generale nei
confronti dell'allora capo del governo Giovanni
Giolitti (1842-1928), e dei politici in genere, né tantomeno una
lettera che il 9 marzo egli aveva inviato ad Ugo Brusati (1847-1936), Primo Aiutante
del Re e fratello germano di quel Roberto
Brusati (1850-1935), futuro comandante della 1ª Armata, che, nel 1916, sarebbe stato sostituito proprio da Cadorna a seguito
della c.d. “battaglia degli Altipiani”.
In risposta ad evidenti sondaggi del Brusati sulle
future intenzioni del Cadorna, qualora fosse stato destinato all'incarico, ed
in particolar modo in riferimento al mantenimento delle prerogative del Re
(formalmente comandante in capo dell'esercito), sul cui rispetto si voleva
evidentemente ottenere dal generale formale assicurazione, con scarsissimo
spirito diplomatico, egli replicò sostenendo il principio dell'unicità ed
indivisibilità del comando: in tale circostanza, benché i poteri del sovrano
fossero sanciti dallo Statuto, Cadorna si dimostrò sin troppo deciso a chiarire
come, a suo parere, la responsabilità del comando dell'esercito spettasse “de facto” al Capo di Stato Maggiore.
Benché con le sue dichiarazioni egli fosse allora
consapevole di essersi estromesso definitivamente dalla partita con le sue
proprie mani, la nomina di Pollio inaugurò una stagione di rapporti difficili
fra le due alte personalità destinata a concludersi soltanto nel 1914, con l’improvvisa
morte di quest'ultimo.
All'amarezza di Cadorna per essersi visto preferire
il collega (a cui si rinfacciavano peraltro le umili origini, essendo questi
figlio di un ex capitano dell'esercito borbonico) si aggiungevano inoltre
stridenti contrasti di natura dottrinale, laddove alla rigida impostazione
offensivistica del pensiero tattico cadorniano, il nuovo Capo di Stato Maggiore
contrapponeva concezioni operative improntate ad una maggiore flessibilità e
fondate sulla consapevolezza dell'impatto delle moderne armi da fuoco e
dell'artiglieria sul campo di battaglia.
La carriera di Cadorna, nonostante tutto, proseguì,
e nel 1911,
assunse il comando del Corpo di Armata di Genova.
L'anno successivo scoppiava il conflitto con l'Impero
Ottomano e, benché egli rappresentasse il candidato “in pectore” per il comando di un Corpo d'Armata
destinato al servizio oltremare, nella conduzione delle operazioni militari in Libia gli venne preferito,
ancora una volta un altro Ufficiale, il generale Carlo Caneva (1845-1922).
Cadorna, quindi, alla soglia dei sessantuno anni,
doveva pertanto vedersi ancora assegnato il primo comando operativo in guerra:
tale ritardo si sarebbe tuttavia rivelato altrettanto vantaggioso, poiché il
generale poté presentarsi alla suprema prova, costituita dal Primo Conflitto Mondiale,
con le proprie potenzialità di comandante inespresse ma altresì prive di
macchia e di smentita, giacché la sua carriera non era stata in alcun modo
offuscata dai frequenti insuccessi che avevano costellato la storia delle armi
dell'Italia unita, dalla campagna d'Abissinia
culminata con la disfatta di Adua, sino alle sanguinose e
dispendiosissime operazioni militari contro la guerriglia
libica (che verrà definitivamente piegata soltanto nel 1934).
Il giorno 1 luglio 1914 moriva improvvisamente il generale Alberto
Pollio, ufficialmente stroncato da un infarto, ma si dice anche in circostanze misteriose.
Il precedente 28 giugno il serbo Gavrilo
Princip (1894-1918) aveva assassinato in quel di Sarajevo
l'arciduca ereditario Francesco Ferdinando di
Absburgo Lorena (1863-1914) e la consorte.
Il successivo 27 luglio, Luigi Cadorna, non
sicuramente su indicazione e designazione del re Vittorio Emanuele III (1869-1947), veniva
nominato Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano.
Il 23 luglio l'Austria-Ungheria aveva infatti consegnato
il proprio ultimatum alla Serbia, innescando una reazione a catena che, dopo il
dipanarsi di una lunga serie di crisi diplomatiche e contromosse
politico-militari, avrebbe portato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale in base alle
clausole dei trattati della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa.
L'esercito che il generale ereditava dal proprio
predecessore affrontava allora un periodo di transizione irto di difficoltà; al
processo di ammodernamento, rallentato significativamente dalle insufficienti
risorse industriali del Paese, si aggiungeva il dispendio di materiali
richiesto dalla campagna libica ed il relativo stravolgimento organizzativo e
logistico provocato dall'approntamento del consistente corpo di spedizione: nel
1914, ovvero a due anni
dall'ufficiale conclusione delle ostilità, i 35.000 uomini inizialmente inviati
erano saliti a 55.000, insufficienti comunque per venire a capo dello stato di
guerriglia che travagliava il nuovo possedimento coloniale italiano.
La preparazione di una guerra contro l'ex alleato
austro-ungarico non trovava difficoltà nelle convinzioni politiche del generale
Cadorna, a cui non si riconoscevano particolari simpatie e che poteva anzi proprio
essere sospettato di sentimenti anti-austriaci, quantomeno in conseguenza della
carriera militare dell'illustre genitore [(battutosi in tutte e tre le guerre
d'Indipendenza (I, 23 marzo 1848/6agosto 1848; II, 26 aprile 1859/10 novembre
1859, e III, 8 aprile 1866/3 ottobre 1866)] ed in virtù di quei sentimenti
risorgimentali che, per logica conseguenza, impregnavano la sua dedizione al
mestiere delle armi ed al servizio del Re e quindi dello Stato. Nella stesura
dei necessari piani di guerra il nuovo Capo di Stato Maggiore fu semmai
intralciato dalle riserve e dai tentennamenti del secondo gabinetto di Antonio Salandra
(1853-1931), deciso a trattare contemporaneamente con le potenze dell'Intesa e
con gli Imperi Centrali nel tentativo di strappare
eventualmente a Vienna,
sul tavolo delle trattative, quei compensi territoriali a cui il Regno
d'Italia ambiva.
Il progressivo irrigidimento su posizioni
irrevocabilmente interventiste spinse il 26 febbraio 1915 Antonio Salandra
ed il Ministro degli Esteri Giorgio Sidney Sonnino
(1847-1922) ad intavolare le trattative che avrebbero portato alla stipula del c.
d.”Patto di Londra”.
Avviati quindi il 4 marzo i negoziati, essi si
sarebbero protratti sino al 26 aprile, mentre l'incertezza, che regnava allora
nei circoli politico-diplomatici in conseguenza di una condotta improntata a
simili criteri opportunistici, determinò un significativo ritardo
nell'emanazione dei primi ordini di mobilitazione.
Quest'ultima fu infatti avviata, ed in forma
parziale, soltanto il giorno 1 marzo, mentre la vaghezza delle direttive
politiche e l'assenza di un significativo spirito di collaborazione fra il
governo ed i vertici militari spinse lo Stato Maggiore, nella persona del
generale Cadorna, ad accelerare, ma di propria iniziativa, i preparativi di
guerra.
Come accaduto quasi un anno prima in occasione
dello scoppio della guerra sugli altri fronti, i provvedimenti militari
finirono per forzare, a loro volta, la
mano alla politica, spingendo infine il gabinetto Salandra a contrarre accordi
vincolanti con le potenze dell'Intesa che prevedevano la dichiarazione di
guerra da parte dell'Italia all'Austria-Ungheria entro un mese dalla
ratifica degli accordi medesimi.
Dopo le prime disposizioni per una mobilitazione
parziale e puramente cautelativa, soltanto il 5 maggio, tuttavia, Cadorna venne
esplicitamente informato da Salandra
circa la necessità di ricorrere alla mobilitazione generale nella prospettiva
di scendere in guerra contro l'Austria-Ungheria entro il giorno 26 dello stesso
mese.
L'avvio delle operazioni militari si ebbe il 23
maggio, traducendosi in una lenta avanzata verso il corso dell'Isonzo della II
e III Armata, senza che gli italiani incontrassero una significativa resistenza
da parte del nemico. I combattimenti si accesero solamente ai primi di giugno e
la spinta offensiva voluta dal Nostro raggiunse il suo apice fra il 25 ed il 30
giugno 1915.
Dopo alcuni scacchi iniziali, costati pesanti
perdite, il Monte Nero venne conquistato il 16 giugno
da un fulmineo assalto di sei battaglioni di alpini, mentre
le restanti vette rimasero in mano austriaca.
Quello stesso giorno il generale Pietro
Frugoni (1851-1940) ordinò la sospensione delle operazioni offensive
della II Armata contro Plava, posizione che sarebbe stata nuovamente teatro di
ferocissimi combattimenti durante la seconda e la terza battaglia dell'Isonzo.
Con questo ordine di Frugoni si esauriva così la
prima fase dell'offensiva.
Sin dall'inizio della guerra la I Armata italiana,
schierata lungo il fronte trentino al comando del generale Roberto
Brusati, aveva assunto un atteggiamento offensivo improntato ad una
lenta ma costante avanzata in territorio austriaco; tale condotta era stata
informalmente avallata dallo stesso Cadorna, a patto tuttavia che gli sforzi di
Brusati non sottraessero uomini e mezzi al principale scacchiere isontino.
Quando, a partire dal febbraio del 1916, il comando della I Armata segnalò una crescente
concentrazione di truppe nemiche nel settore, Cadorna liquidò simili notizie
sostenendo di non credere alla remota possibilità che l'esercito imperial-regio
orchestrasse un attacco di prima grandezza.
Al contrario, quella che sarebbe passata alla
storia come “Strafexpedition” aveva
l'ambizioso obiettivo di sfruttare il saliente trentino che, profondamente
incuneato nel territorio italiano, minacciava alle spalle lo schieramento
isontino ove era attestata la massima parte dell'esercito italiano.
Partendo quindi dagli altopiani di Folgaria e Lavarone le forze austro-ungariche si
lanciarono all'assalto il 15 maggio 1916, dopo una lunga serie di rinvii determinati dalle avverse
condizioni meteorologiche. I risultati immediati furono incoraggianti: durante
i primi giorni l'offensiva portò alla conquista di Arsiero
ed Asiago,
due importanti punti d'accesso alle pianure meridionali, ed alla cattura di 40.000
prigionieri e 300 cannoni.
In tali critiche circostanze, il generale Luigi Cadorna
attribuì ogni responsabilità al Brusati.
Costui aveva perso la testa sino a paventare un
collasso dell'intero fronte trentino.
Ma, sotto questo aspetto, la salda assunzione del
controllo delle operazioni da parte del Capo di Stato Maggiore in persona
dovrebbe essere pertanto considerata provvidenziale.
Al contrario di quanto dimostrato da molti
ufficiali, al Cadorna non difettarono mai tenacia e sangue freddo, ed egli guidò
con mano salda il ripiegamento dell'armata sconfitta su nuove posizioni; nel
frattempo provvide a costituire con notevole celerità e spirito
d'improvvisazione una nuova formazione, la V Armata ,
concentrando 179.000 uomini fra Vicenza e Padova, ed assegnandone il comando al
generale Pietro Frugoni.
Nei piani di Cadorna tale forza era destinata a
fronteggiare gli austriaci qualora questi fossero spuntati in pianura, ma una
simile minaccia non si materializzò, dal momento che anche nel settore di
massima penetrazione, quello dell'Altopiano di Asiago, l'offensiva austriaca
venne arginata già entro i primi quindici giorni di giugno.
Le forze austro-ungariche continuarono a riscuotere
una serie di successi tattici minori, ma l'irrigidimento della difesa italiana,
e nel contempo l'allungamento delle linee di comunicazione ed il previsto
sovraccarico della limitata rete logistica di cui il generale Franz Conrad Von
Hötzendorf (1852-1925) poteva disporre
in Trentino fecero sfumare l'agognata
prospettiva di uno sfondamento strategico.
L'offensiva del generale russo Aleksej Alekseevič
Brusilov (1853-1926) scatenata infine in Galizia, determinò la definitiva
cessazione di qualsiasi movimento offensivo ed il rapido ridispiegamento ad est
delle principali grandi unità impegnate nella “Strafexpedition.”
Sul fronte dell'Isonzo, Cadorna
aveva disposto, a sud (riva destra), la III Armata
comandata dal Principe Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta (1869-1931);
a nord (riva sinistra), la II Armata, comandata dal generale Luigi Capello
(1859-1941) e costituita da otto corpi d'armata.
Ma l'offensiva
austro-tedesca iniziò alle ore 2.00 del 24 ottobre 1917 con tiri di
preparazione dell'artiglieria, prima a gas, poi a granate fino alle 5.30 circa.
Verso le 6.00 cominciò un violentissimo tiro di distruzione a preparazione
dell'attacco delle fanterie. I rapporti del comando d'artiglieria del XXVII
Corpo d'armata indicano che il tiro tra
le 2.00 e le 6.00 produsse perdite molto lievi.
Solo nella conca di Plezzo i gas
ebbero effetti apprezzabili.
L'attacco delle fanterie cominciò alle ore 8.00 con
uno sfondamento immediato sull'ala sinistra, nella conca di Plezzo sul
fianco sinistro della II Armata. Tale parte di fronte era presidiata a sud, tra
Tolmino
e Gabrije (paese a metà
strada tra Tolmino
e Caporetto),
dal XXVII Corpo d'armata del generale Pietro
Badoglio (1871-1956).
A complicare le cose sopraggiunse la
situazione – solo leggermente meno drammatica - del fronte del IV Corpo
d'armata, confinante a sud con il Corpo d'armata comandato dal Badoglio.
Ma un vero ed autentico disastro, infatti, cominciò
quando il nemico, arrivò a Caporetto, da entrambi i lati dell'Isonzo.
La mancata risposta delle artiglierie Italiane sul
fronte del XXVII Corpo d'armata è una delle ragioni accertate, ma anche provate
dello sfondamento; il generale Badoglio, per effetto del fuoco del nemico, che aveva
individuato la sua posizione perché trasmetteva in chiaro, perse il
collegamento con l’Ufficiale, che, come da ordini ricevuti, restò inerte.
Incuneato tra i due corpi d'armata ed in posizione più arretrata era stato
disposto molto frettolosamente anche il VII Corpo d'armata comandato dal
generale Luigi Bongiovanni (1866-1941).
La sua efficacia fu nulla. La mancanza di riserve
dietro il IV Corpo d'armata, fu senz'altro uno dei motivi principali che
contribuirono alla disfatta.
Badoglio, pur essendo a pochi chilometri dal
fronte, seppe dell'attacco delle fanterie nemiche solo verso mezzogiorno, e
riuscì a comunicarlo al comando della II Armata (generale Capello) soltanto
qualche ora dopo.
Cadorna seppe della gravità dello sfondamento e del
fatto che il nemico aveva conquistato alcune forti posizioni solo alle ore
22.00.
Al di là delle responsabilità di singole piccole e
medie unità, le colpe maggiori di ordine strategico non possono che essere
attribuite al comando supremo (Luigi Cadorna) per non aver controllato
l'esecuzione dei suoi ordini (ed è anche provato che volutamente furono
eseguiti in ritardo), e al comando d'armata interessato (gen. Capello) per non
aver eseguito l'ordine di assumere uno schieramento difensivo, mentre quelle di
ordine tattico ai tre comandanti dei corpi d'armata coinvolti [Pietro Badoglio,
quindi, Alberto Cavaciocchi (1862-1925) e Luigi Bongiovanni].
Tutti vennero giudicati colpevoli dalla commissione d'inchiesta (del 1918-19)
di prima istanza, di cui parlerò tra poco, con l'unica eccezione di Badoglio.
Tuttavia l'errore tattico più sconcertante ed
oggettivamente misterioso fu senza dubbio operato dal Badoglio sul suo fianco
sinistro (riva destra dell'Isonzo tra la testa di ponte austriaca davanti a Tolmino
e Caporetto).
Questa
linea, lunga pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di competenza
del Corpo d'armata di Badoglio (riva destra) e la zona assegnata al
IV Corpo d'armata di Cavaciocchi (riva sinistra). Nonostante tutte
le informazioni indicassero proprio in questa linea la direttrice dell'attacco
nemico, la riva destra fu lasciata praticamente sguarnita con il solo presidio
di piccoli reparti, mentre il grosso della 19ª divisione e della brigata Napoli
era arroccato sui monti sovrastanti. In presenza di nebbia fitta e pioggia, le
truppe italiane in quota non si accorsero minimamente del passaggio dei
tedeschi in fondovalle, e, in sole quattro ore, le unità tedesche risalirono la
riva destra arrivando integre a Caporetto, sorprendendo da dietro le unità del IV Corpo
d'armata.
Il 25 ottobre 1917 il parlamento italiano negò la
fiducia al governo presieduto da Paolo Boselli
(1838-1932) che fu costretto a dimettersi.
Il 30 ottobre il governo si ricostituì sotto la
guida dell’illustre giurista Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), il
quale, già nei colloqui dei giorni precedenti, aveva richiesto al Re la
rimozione di Cadorna. Nel frattempo arrivarono a Treviso il comandante supremo
dell'esercito francese generale Ferdinand
Foch (1851-1929) e il generale William Robert
Robertson (1860-1933), capo di stato maggiore dell'esercito
britannico.
Nella notte dal 30 al 31 ottobre Cadorna ordinò
alla IV armata - schierata in Cadore al comando del generale Mario Nicolis di Robilant (1855-1943) - di
accelerare il movimento di ripiegamento sulla destra del Piave, che avrebbe
dovuto presidiare il settore tra la Val Brenta
e Vidor occupando il Monte Grappa.
Il Duca d'Aosta, comandante
della III armata, era già riuscito a porre in salvo le sue truppe a ovest del Tagliamento.
Di Robilant eseguì in ritardo e con riluttanza
l'ordine di Cadorna, tanto che il 3 novembre, vedendo in pericolo il progetto
di saldatura tra le due armate sulla nuova linea difensiva, il comandante
supremo dovette ribadire l'ordine di ripiegamento.
La sera del 3 novembre il generale Cadorna fece
partire per Roma
un suo fedelissimo, il colonnello Angelo Gatti (1875-1948), con una lettera al presidente
del consiglio Orlando in cui affermava che la situazione era «critica» e sarebbe potuta «da un momento all'altro diventare
criticissima ed assumere carattere di eccezionale gravità, ove l'offensiva
nemica che, attraverso molteplici indizi, pare imminente sul fronte trentino,
si sferrasse con tale violenza che le nostre forze fossero impari a
fronteggiarla».
La sera del 5 novembre, in Rapallo,
si incontrarono per un vertice interalleato il nuovo Capo del Governo, i Primi
ministri di Francia
e Gran Bretagna
ed i generali Foch e Robertson. In una riunione propedeutica i rappresentanti
stranieri si espressero subito per l'allontanamento di Luigi Cadorna dal
comando, e la sua sostituzione con il Duca d'Aosta, Comandante
dell’Invitta III Armata.
Nel vertice del giorno successivo la sostituzione
di Cadorna fu imposta come condizione per l'invio dei rinforzi alleati e fu
proposta l'istituzione di un Consiglio supremo di guerra alleato
di cui avrebbero dovuto fare parte i generali Foch per la Francia,
Wilson per la Gran Bretagna
e Cadorna per l'Italia.
I partecipanti al vertice di Rapallo si trasferirono
quindi a Peschiera del Garda il giorno 8 novembre per
riferire i risultati al Re, il quale si oppose alla nomina del Duca d'Aosta a
Capo di Stato Maggiore , ma confermò la rimozione del Cadorna.
Il generale Armando Diaz
(1861-1928), fino a quel momento comandante del XXIII Corpo d'armata, fu
nominato Comandante Supremo dell'Esercito Italiano con Decreto del 9 novembre,
in sostituzione di Luigi Cadorna, il quale, dopo un iniziale rifiuto, accettò
l'incarico di rappresentante presso il consiglio di guerra interalleato.
Tuttavia l'intuizione di Cadorna, espressa con
lettera del 3 novembre, di un imminente attacco sul fronte trentino si dimostrò
giusta: il 9 novembre la coda della IV Armata e tre divisioni del XII Corpo
d'armata in ripiegamento dalla Carnia furono sopraffatte con gravi perdite dalla XIV Armata
austro-tedesca che, dopo avere forzato il ponte di Cornino sul Tagliamento
il 2 novembre, aveva iniziato una manovra eccentrica rispetto all'asse
principale di avanzata. La III
Armata si attestò sulla sinistra del Piave dal Ponte della
Priula al mare il 9 novembre, mentre la
IV non aveva ancora completato il suo schieramento.
Tale indugio consentì alla IV Armata di mettere in
salvo le artiglierie di medio e grosso calibro, che tanto contribuirono a
salvare il Monte Grappa.
Le idee di Cadorna, in merito alle tattiche
d'attacco, non differivano poi molto da quelle dei generali suoi contemporanei:
dalla dottrina francese incentrata essenzialmente sull'”elan”, sino alla massima austriaca del «Vorwärts
bis in den Feind» ("Sempre e in
ogni caso avanti fino al nemico").
Tranne che quello tedesco, alla vigilia della Prima
Guerra Mondiale nessun esercito aveva correttamente valutato l'impatto
dell'appoggio di una forte artiglieria all'avanzata delle fanterie sul
campo di battaglia.
A Luigi Cadorna, a sua discolpa, si può comodamente
affermare che nel 1915 egli commise i medesimi errori che Joseph Jacques Césaire
Joffre (1852-1931), Douglas Haig (1861-1928) e Robert Georges Nivelle (1857-1924) continuarono a
ripetere nel 1916
e nel 1917.
Come ricordato dallo storico John Schindler le principali manchevolezze
evidenziate dalla condotta di Cadorna, soprattutto durante i primi mesi di
guerra, furono di natura più strategica che strettamente tattica: il cruciale
ritardo di un mese nell'orchestrare la prima offensiva dell'Isonzo permise
infatti agli austriaci di concentrare quelle poche truppe raccogliticce
sufficienti ad arrestare l'avanzata italiana. I generali di Cadorna esitarono
di fronte alla prospettiva di un'azione rapida, ed in questo modo andò sprecata
l'occasione di una facile avanzata sino a Trieste,
possibile per l'assenza di rilevanti forze nemiche lungo il fronte isontino (il
comandante generale della cavalleria fu rimosso per questa esitazione).
Le undici "spallate"
isontine sottolineano, ed al meglio, le convinzioni tattiche e belliche di
Cadorna. Infatti non appena il nemico gliene diede l'opportunità, mostrò quello
di cui era capace (la brillante manovra per linee interne nel '16 che portò
alla conquista di Gorizia).
La sua determinazione nel picchiare contro linee
che si andavano progressivamente irrigidendo può essere ricondotta alla ben
nota ostinazione che lo contraddistingueva ma anche alla sua convinzione,
confermata da tutta la storia militare, che le guerre si vincono concentrando
la massa dei propri uomini sul fronte debole del nemico.
Sull'Isonzo le fanterie italiane continuarono ad
attaccare in colonne compatte sotto il fuoco nemico; ma Cadorna seppe trovare
la soluzione all'esigenza di rompere il fronte nemico con l'istituzione del
Corpo degli Arditi che dimostrarono sul campo di riuscire laddove i soldati non
specificamente addestrati avevano fallito.
Un simile approccio, tuttavia, non testimonia
solamente della scarsa considerazione nutrita da Cadorna nei confronti della
vita dei propri uomini e della sua considerazione per il fattore umano in
termini meramente quantitativi: l'adozione delle formazioni chiuse era infatti
prediletta dagli stessi ufficiali e sottufficiali poiché aumentava il controllo
su coscritti scarsamente addestrati. A Cadorna andrebbe quantomeno ascritto il
merito di aver compreso, sin dalla conclusione delle prime due battaglie
dell'Isonzo, che l'artiglieria avrebbe svolto un ruolo cruciale nelle
operazioni successive, in base alla constatazione che le perdite subite dagli
austriaci in questi primi scontri erano state inflitte proprio dal fuoco dei
cannoni italiani.
Sempre Schindler ricorda come per la terza battaglia dell'Isonzo furono
radunate ben 1372 bocche da fuoco di cui 305 di grosso calibro: dati che
inducono l'autore ad identificare proprio in Cadorna il primo grande interprete
della cosiddetta “Materialschlacht”
(la c. d. “battaglia di materiale”). Anche in questo caso il
ragionamento sotteso alle decisioni di Cadorna seguiva una semplice logica
quantitativa, basata sul teorema che prevedeva maggiore potenza di fuoco per
scalzare trinceramenti sempre più estesi e profondi.
In conclusione andrebbe tuttavia evidenziato che il
confronto impostato da Cadorna secondo i termini della “Materialschlacht” avrebbe inevitabilmente condotto
l'Austria-Ungheria alla disfatta in virtù della semplice disparità delle forze
in gioco: già all'epoca della conquista di Gorizia,
Cadorna aveva appena iniziato ad intaccare le proprie riserve umane, mentre gli
austro-ungarici dovettero in quel momento fronteggiare la prima seria crisi
dall'inizio delle operazioni.
Spesso si dimentica che all'indomani dell'undicesima battaglia dell'Isonzo
la situazione austriaca si era fatta disperata, con il solo monte Ermada
rimasto ormai a sbarrare il passo all'avanzata italiana attraverso il Carso in
direzione di Trieste: la resistenza era giunta ad un punto di rottura, e
proprio tale evidenza indusse l'Alto Comando tedesco a concedere infine gli
agognati rinforzi che portarono alla costituzione della XIV Armata in vista di
quella programmata offensiva di alleggerimento che portò in ultima analisi per
l'Italia alla disfatta di Caporetto.
Terminato
quindi l’incarico bellico, in un primo momento, il Nostro rifiutò di rappresentare
l’Italia nel Consiglio Superiore di Versailles (Giolitti gli si scagliò contro),
ma poi accettò. Da vero ed autentico militare, non sopportava a lungo
l’inattività e sembra anche che fu implorato dal Ministro della Guerra,
generale Vittorio Luigi Alfieri (1863-1918), in quanto unica personalità
autorevole da inviare al Consiglio medesimo in un momento tanto buio per i
destini della Nazione.
Certamente la presenza di Cadorna alla Conferenza
fu un fattore positivo, anche se lui la considerò «[…] un parlamentino di 75 persone […] più inconcludente che mai. Mentre
noi qui si discute, gli Austro-tedeschi picchiano sodo».
Mentre Cadorna era a Versailles, in Italia, alla
Camera dei Deputati, fu soggetto di feroci attacchi. Il deputato Alfredo
Sandulli ne chiese il deferimento all’Alta Corte di Giustizia, il socialista
Michele Gortani (1883-1966) l’arresto, mentre Napoleone Colajanni (1847-1921)
addirittura la fucilazione, e proprio il Ministro della Guerra Alfieri gli
attribuì ogni sorta di colpa per Caporetto
e per la condotta generale della guerra.
Ma tali attacchi proseguirono anche al Senato del
Regno, ove, come gli comunicò Vittorio Emanuele Orlando in una lettera del 2
gennaio 1918, venne istituita una Commissione d’inchiesta sui fatti dei mesi di
ottobre/novembre 1917.
Degli attacchi alla Camera, il Nostro si
disinteressò rispondendo, come disse lui, «con
il silenzio», ma come Senatore del Regno (lo era dal 16 ottobre 1913) si
sentì aggredito e così si sfogò: «Razza
di vigliacchi!..... Ma io non andrò più in Senato. Non posso dare le
dimissioni, ma non ci andrò più. Non voglio andare fra quella gente falsa che vive sotto la ferula dei
neutralisti e dei disfattisti».
Tale Commissione fu presieduta dal generale Carlo
Caneva, vecchio generale austriaco, rivale di Cadorna per il comando delle
truppe in Libia, come già poc’anzi detto, ed era composta da viceammiraglio
Felice Napoleone Canevaro (1838-1926), dal generale Ottavio Ragni (1852-1919), silurato
da Cadorna nel 1915, dall’avvocato Donato Tommasi del Tribunale Speciale di
Guerra, dai senatori del Regno Paolo Emilio Bensa (1858-1928), Alessandro
Stoppato (1858-1931), e dal deputato Orazio Raimondo (1875-1920), socialista
interventista nonché massone, che poi era l’avvocato difensore del colonnello
Giulio Douhet (1869-1930), definito dal colonnello Gatti «[…] indiscutibilmente un uomo geniale ma grafomane», il quale fu arrestato e condannato per aver scritto un memoriale diffamatorio
nei confronti di Luigi Cadorna.
Quindi il 17 gennaio 1918, Cadorna, ferito come comandante e come Senatore del
Regno soprattutto per la mancata difesa del Re Vittorio Emanuele III, concluse
la sua missione al Consiglio di Versailles
ed, amareggiato, citò i versi del Tasso: “Viddi e conobbi ancor le inique corti”.
Tutt’altro la notizia non entusiasmò assolutamente
gli Alleati, che, in seno della Conferenza di Versailles, avevano avuto modo di
farsi un ottimo concetto del generale Cadorna, ben diverso dalle giornate di
Rapallo.
Prima di lasciare Versailles, il Generale,
grandissimo ammiratore di Napoleone Bonaparte (1769-1821), volle visitare il
castello di Fontainebleau, ove, nel marzo 1814, il mitico Córso abdicò baciando
l’Aquila del 1ere
Regiment des Grenadiers à Pied , portataGli dal tenente Forti, piemontese
come il Nostro.
Tornato in Italia, il Cadorna subì ogni sorta di
umiliazione e di meschino attacco.
Egli divenne il capro espiatorio su cui caricare
tutte le colpe della guerra, tutte le durezze e tutti gli orrori.
Nel frattempo la “Reale Commissione d’inchiesta sul ripiegamento al Piave”, come era
denominata, svolgeva il suo lavoro
giornaliero e dopo diciotto mesi di lavoro e duecentoquarantuno sedute presentò
la propria relazione al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti
(1868-1953) il 24 luglio 1919.
Pur avendo apparentemente valore di documento
alquanto ufficiale, come documento storico ne ha invece scarsissimo se non
nullo.
Il generale Emilio Faldella (1897-1975) nel suo “La Grande Guerra II. Da Caporetto al Piave”
(Milano 1965)” ha sottolineato come la detta relazione «mostrasse mancanza di obiettività,
trascurato approfondimento di questioni di importanza fondamentale, voluta
parzialità nei giudizi» tanto che a sua volta il generale Raffaele Cadorna,
figlio del Nostro, potè tranquillamente scrivere, ed a ragione, di «leggende propagate ad arte» dalla
Commissione d’Inchiesta.
Si tratta di un documento di voluta parzialità,
teso a scaricare sul Comando Supremo tutte le colpe, iniziando dal malgoverno
della truppa come causa unica del basso morale, argomento chiaramente e
volutamente gonfiato dal deputato Raimondo, socialista, e dallo stesso Orlando,
e ciò al fine di nascondere le gravissime colpe del difattismo socialista –
finanziato in buona parte dagli Imperi Centrali – e le omissioni del ministero
degli Interni al fine di reprimerle.
Né si puo’ tacere come questo tentativo di
nascondere le responsabilità materiali e morali dei socialisti coincidesse
perfettamente con il governo di Nitti, che fu poi quello dell’amnistia per i
disertori.
Per la Commissione a provocare la disfatta di
Caporetto non furono cause tecnico-militari, i tedeschi od il
disfattismo, ma solo e soltanto i generali Luigi Cadorna, Luigi Capello e Carlo Porro (1854-1939) ed il malgoverno della truppa.
Celeberrima è la questione dello stralcio delle
tredici pagine della Relazione dedicate al Comando del XXVII Corpo d’Armata.
Ciò ha fatto si che nella Relazione, per quanto riguarda lo sfondamento del
settore tra il IV ed il XXVII Corpo d’Armata, tutte le colpe siano ricadute sul
generale Alberto Cavaciocchi, comandate del IV, e nessuna su Badoglio,
comandante del XXVII.
La leggenda dice che Badoglio fu salvato dalla
Massoneria.
Invece la testimonianza del deputato Giuseppe
Paratore (1876-1967) dimostra che
codesto stralcio fu voluto dal presidente Vittorio Emanuele Orlando (e quindi
dal generale Armando Diaz) per proteggere Pietro Badoglio, Sottocapo di Stato
Maggiore, cui si dovevano la ristrutturazione dell’Esercito nel 1918 ed in
buona parte le vittorie del Piave e di Vittorio Veneto.
Oltretutto, al momento della pubblicazione della
Relazione, il Badoglio era Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Tra l’altro il Badoglio accusò Cadorna di essere
fuggito ad Udine, ed il Nostro così commentò: «Egli doveva a me tutta la sua carriera […] ed ora mi si rivolta contro.
Nulla avrei da replicare a cose giuste e vere, ma le sue critiche sono pure e
semplici sciocchezze, fondate sulla più completa ignoranza».
Pubblicati e terminati i lavori della Commissione,
la vita pubblica del generale Luigi Cadorna cadde in un doveroso silenzio.
Fu Benito Mussolini (1883-1945), uno sempre
lungimirante e già bersagliere di Cadorna sul Carso, ma anche il Fascismo della
prima ora, cioè quello dei reduci dei
sansepolcrini, a far tornare in auge la sua figura.
Infatti il Duce fece nominare il Nostro, nel sesto
anniversario della Vittoria, il 4 novembre 1924, Maresciallo d’Italia.
E fu Mussolini che lo ricordò: «Nel novembre 1924, ristabilii il grado di
Maresciallo d’esercito esistente nell’esercito sardo prima delle guerre
napoleoniche; non fu facile far accettare a Diaz – artefice della Vittoria –
una parità di annuario con Cadorna […] Bisognava sanare la piaga della polemica
di Caporetto. Imposi i mio punto di vista».
Purtroppo ulteriori pressioni del Capo del Governo
sul Re non riuscirono a far concedere il Cavalierato della Santissima
Annunziata al Nostro.
Vittorio Emanuele III non ha mai considerato il
generale, anche se egli, da militare e da piemontese, era più che fedele al Re
ed a Casa Savoia.
La nomina del Cadorna a Maresciallo d’Italia gli
fece anche riprendere l’attività in Senato.
Purtroppo, però, la sua salute, colpito da
arteriosclerosi, iniziò a declinare.
Agli inizi di novembre 1928, Luigi Cadorna,
accompagnato dalla moglie e dalla figlia, si trasferì nella cittadina ligure di
Bordighera, rinomata per il suo clima mite.
Il 17 dicembre, le condizioni del Generale
peggiorarono.
Morì, munito dei conforti religiosi, alle 4 e 10
del pomeriggio del 21 dicembre 1928.
Il 24 maggio 1932
venne inaugurato il mausoleo cadorniano di Pallanza.
Scrissero del generale Cadorna il “General der Infanterie” Alfed Krauss
(1862-1938) ed il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia (1862-1945).
Scrive il Krauss nel suo “Die Ursachen unserer Niedelage. Erinnerungen und Urteile aus dem Weltkrieg”: «[…] Soltanto una potente, energica volontà poteva trascinare gli
Italiani, il cui temperamento non è tanto tenace, a sempre nuovi, continui
attacchi, a così lunghi sforzi, malgrado i loro insuccessi. Nel fatto stava a
capo dell’esercito italiano questo forte uomo così poco corrispondente al
carattere italiano, Cadorna […] sottoposto a inchiesta e dovette giustificarsi
davanti a delle nullità […]».
Tuttavia il ritratto tracciato di Cadorna ne
sottolinea la grandezza morale; è un brano degno del grande storico greco Plutarco
(46/48 d. C.-125/127 d. C.) (in lingua greca “Πλούταρχος”), e forse Cadorna sarebbe stato l’unico generale
italiano di cui il detto storico avrebbe potuto scrivere una degna e precisa
biografia.
Sono parole, codeste del generale Krauss,
avversario dell’Italia, che andrebbero lette e meditate dai troppi autori,
siano giornalisti prestati alla Storia o storiografi, che scrivono troppo
superficialmente su questi argomenti tranciando giudizi totalmente infondati.
Scrive il Caviglia, non certamente cadorniano, nel
suo “La Dodicesima battaglia (Caporetto)”:
«Cadorna lasciò il comando dell’esercito
a testa alta, senza debolezza. Era un uomo non comune, di forte carattere e di
grande altezza d’animo. Possedeva un’elevata coscienza del suo dovere, e se
assumeva le responsabilità con serena e forte volontà, senza preoccupazioni né
per la sua posizione personale né per il giudizio della storia. Disdegnava le
transazioni, i mezzi termini, le posizioni incerte. […] Fu perciò il solo
generale dell’Intesa che si mostrò degno di esercitare il comando supremo degli
eserciti alleati. Però questa sua concezione larga dell’azione militare
oltrepassava le ragioni politiche e gli scopi della nostra guerra. Egli aveva
dato più di ciò che doveva dare.».
Ulteriore limpido giudizio fu del grande storico
Gioacchino Volpe (1876-1971) nel suo “Il
popolo italiano nella Grande Guerra”, ma anche, passim, nel suo “Caporetto”,
che considerava il Nostro un condottiero: «Vecchio
soldato piemontese e intransigente quanto a disciplina, era anche persuaso che
la disciplina dovesse poggiare essenzialmente su le forze morali del soldato,
da educare e mantenere vive ed operose. Le sue circolari erano sempre un
documento di fede: la fede che, nella battaglia, il volere di vincere è tutto;
la fede, anche, nelle qualità del nostro soldato, intelligenza sveglia,
prestanza fisica, generosità e slancio, naturale audacia, con le quali si
doveva bene avere ragione del pesante metodismo del nemico.».
Più complessa risulta la valutazione di Cadorna
come condottiero d'uomini in quanto la sua condotta fu condizionata dal secondo
articolo del Patto di Londra che obbligava l'Italia ad attaccare con tutte le
sue risorse per evitare travasi di forze nemiche sul fronte occidentale. Cadorna
ebbe più sensibilità per le sofferenze dei soldati al fronte, di quanta ne ebbero gran parte degli alti
ufficiali della Grande Guerra dal detto generale Haig, a Erich Von Falkenhayn
(1861-1922) sino a Franz Conrad Von Hötzendorf (1852-1925) e Svetozar Boroević Von Bojna (1856-1920).
Si dice che in seno all'esercito poté godere di
libertà del tutto sconosciute agli altri comandanti alleati, e la sua influenza
si estese sino a condizionare l'operato e gli orientamenti del Ministero della
Guerra e dello stesso governo; dalla caduta del II governo Salandra, in conseguenza della “Strafexpedition”
lanciata dagli austriaci, sino a Caporetto, il generale concentrò nelle proprie
mani poteri e prerogative comparabili soltanto a quelli della "dittatura militare".
A causa di tale stato di cose Cadorna poté
esercitare il proprio potere in modo quantomeno arbitrario, facendo e
disfacendo i quadri superiori delle forze armate.
Il sollevamento dal comando per le più disparate
ragioni (sino a giungere al paradosso dei siluramenti "preventivi") divenne pratica
talmente diffusa da inibire completamente lo spirito d'iniziativa dei
comandanti ad ogni livello, ciascuno paventando di essere rimosso dal proprio
superiore diretto anche in conseguenza di scacchi e fallimenti marginali.
Ma è necessario, e quindi doveroso, aggiungere che,
spesso e volentieri, gli ordini del Cadorna o non venivano eseguiti o, se
eseguiti, con ritardo anche di giorni.
Un esempio fu Caporetto.
Anche la leggenda del dispotismo del Nostro va’
sfatata. Lo scrive lui stesso in una lettera del 6 giugno 1917 al Presidente
del Consiglio Paolo Boselli: «[…]Ho già
avuto altre precedenti occasioni di accennare esplicitamente a ciò nelle mie
precedenti comunicazioni al Governo; vi ritorno oggi perché quanto avviene in
questi giorni in alcuni reparti delle nostre truppe è di così minacciosa
gravità che io mancherei al primo dei miei doveri se non manifestassi con rude
franchezza e con la convinzione di servire onoratamente e onestamente gli
interessi del Paese e della Monarchia […]».
Il Generale allude a fenomeni di indisciplina ed a
sobillatori (socialisti) inviati ad arte tra le truppe.
La storia militare dell’Italia vanta un numero
limitato di buoni comandanti.
Di veramente grandi ne ha avuto uno solo: Luigi
Cadorna.
E lo ha dimenticato.
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