NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 30 giugno 2018

Il libro azzurro sul referendum - XI cap - 7



Al Contrammiraglio Ellery Stone, Capo della Commissione Alleata di Controllo,
e per conoscenza : agli Ambasciatori delle Potenze Alleate in Roma.
Il sottoscritto Tullio Benedetti, già Consultore alla Consulta d'Italia ed ora eletto Deputato all’Assemblea Costituente, si rivolge alla Signoria Vostra Illustrissima, e nella sua qualità di Presidente Nazionale dell'Unione Monarchica Italiana, per esplicito mandato ricevuto dall'Unione medesima, in rappresentanza anche di tutte le altre Associazioni Monarchiche italiane, prega voler prendere in esame la seguente precisa dichiarazione:
Risulta all U.M.I. in modo ineccepibile che nel referendum istituzionale sono stati compiuti i più gravi e patenti brogli elettorali onde alterare il suo risultato in favore della Repubblica. Continuano a pervenire infiniti reclami in
tal senso.
Ciò stante, il sottoscritto ha l'onore di chiedere formalmente con la presente, a nome dell'Unione Monarchica Italiana, che le Autorità Alleate procedano ad una immediata verifica delle schede, dei verbali elettorali e dei reclami inoltrati dai cittadini elettori, disponendo la visione di tutto il materiale elettorale accentrato presso la Suprema Corte di Cassazione d'Italia, prima che questa proceda alla proclamazione ufficiale dei risultati.
Il fondamento morale e giuridico della richiesta risiede nell'impegno formale assunto dagli Alleati di assicurare al popolo italiano la perfetta regolarità della consultazione elettorale e in particolar modo di quella riguardante la forma istituzionale dello Stato.
Soltanto il richiesto controllo, e la garanzia da parte degli Alleati della regolarità delle operazioni elettorali, potrà porre lo spirito pubblico in condizioni di fare giustizia delle troppe presunzioni di brogli elettorali e renderà possibile una serena, piena e definitiva accettazione dei risultati del referendum in conformità all'impegno preso anche dalle organizzazioni monarchiche.
Ciò renderà al tempo stesso tranquillità all'opinione democratica internazionale, nel senso di non essersi resa involontariamente complice di una sopraffazione antidemocratica.
Con osservanza.
Tullio Benedetti

venerdì 29 giugno 2018

Io difendo la Monarchia cap IV - 7


Qui non si vuol, dunque, rifare la storia del fascismo, ma ristabilire certi rapporti, fissare certe verità, smentire troppi luoghi comuni correnti, dare a Cesare quel che è di Cesare. Così, non è giusto e non è sopportabile il processo grossolano e sbrigativo dell'antifascismo fuoruscito e  professionale insediatosi sulle rovine del paese per accusare in blocco la Monarchia la borghesia e le classi medie per tutti gli eventi trascorsi dal 1922 al 1943. Non è sopportabile che uomini e partiti che a giudizio degli stessi storici dell’antifascismo furono responsabili del sorgere e dell'affermarsi del fascismo, si siano oggi insediati come giudici. Soprattutto non è sopportabile che un partito che ha venduto una parte del territorio italiano (la  Venezia Giulia e Trieste) non pure alla Russia, ma al neo dittatore iugoslavo, divenga arbitro nel giudizio di condanna e di epurazione di tutta la società italiana che ha vissuto e lavorato, fra il 1922 e il 1943» strappando per anni ed anni grida di entusiasmo all’opinione pubblica straniera. Così infine non è neppure concepibile oltre che tollerabile che i Governi anglosassoni incoraggino in Italia la turpe oclocrazia, la tirannide plebea dominata dal partito socialcomunista; che proclamano ad ogni istante di voler impedire in Europa e in Italia l’avvento di un altro totalitarismo Europeo, essi che su ogni frontiera d’Europa e in ogni paese d'Europa ed Asia sono già in lotta serrata per arrestare la pressione del bolscevismo-imperialismo asiatico, essi che in Grecia hanno già dovuto ricorrere alle armi per respingere quella pressione e punire i delitti che l'accompagnavano; essi che già con un proclama di Alexander hanno accusato Tito e le sue bande di aver ereditato i metodi del nazismo hitleriano.
Questa politica repugnante al buon senso è solo spiegabile con gli stretti legami dell’invasione straniera. Non c’è dubbio sulla criminalità della politica fascista di aggressione all’Etiopia, all'Albania, alla Grecia, alla Iugoslavia e sulla stoltezza della guerra dichiarata al gruppo anglosassone e alla Russia. Ma non può costituire merito di nessun cittadino italiano l’avere operato e parlato contro i propri concittadini nella lotta più dura della loro storia. Non vi è una politica fascista da condannare in blocco e una politica antifascista da esaltare in blocco. Vi è un quarto di secolo di storia italiana da esaminare in cui i partiti e gli uomini assumono a volte posizioni ragionevoli e a volte irragionevoli, compiono a volte delle meritorie azioni, a volte degli imperdonabili  errori. Non vi è una politica estera del fascismo ma ve ne sono venti; non vi è una politica interna, sociale ed economica del fascismo, ma ve ne sono molte Mussolini ha tentato tutte le vie; dell’insurrezione della normalità costituzionale e della repubblica sociale - della esaltazione del capitalismo (vedi un significativo discorso al Senato del 1928 :  siamo appena all’aurora del capitalismo...) e della lotta alle plutodemocrazie e alla borghesia; in politica estera ha seguito in alcuni momenti la politica del disarmo, della cancellazione dei debiti della conciliazione europea, della Società delle Nazioni; in altri momenti la politica degli armamenti delle aggressioni ai liberi paesi, della guerra mondiale.
Ha seguito la politica di stretta intesa con l’Inghilterra (ricordare le crociere mediterranee di Austin Chamberlain) e la politica antibritannica; la politica della revisione dei trattati a favore dei tedeschi e la politica di Stresa; la politica enunciata nei violenti discorsi alla Camera e al Senato contro Stresemann e la politica dell’Asse; la politica d'intesa con la Francia (accordo Laval) e la politica dell’odio pregiudiziale e ostinato contro i nostri vicini. La stessa politica dell’Asse è ricca di con-traddizioni; di furori antihitleriani e di supina soggezione al tedesco. Non si ha davanti a noi un uomo di Stato illuminato dalla ragione, ma un uomo governato da istinti irrazionali, da passioni e da mutevoli impulsi: guidato dall'odio, dall'ambizione e dalla paura. Una sola idea è in lui fissa e immutabile: non abbandonare il potere. Negli ultimi anni egli aveva smarrito ogni virtù di intuizione e ogni luce di verità e di umanità, ma quando appariva in pubblico egli sapeva assumere l’antica maschera di bronzo o di pietra che faceva pensare a una illimitata riserva di sicurezza e di energia. Oggi sappiamo invece, da molte rivelazioni (vedi diario Ciano) e dalla dura esperienza, che dietro quella maschera non v’era che un povero cervello privo di utili cognizioni e agitato dalla follia. Eppure vi è stato un momento in cui egli è sembrato agli stranieri, l’unico uomo sano in un mondo malato. « Quando - scrive Herbert L. Matthews nel suo libro : I frutti del fascismo (Laterza, Bari) - si guardano ora i suoi ritratti, la sua grossa faccia pesante, gli occhi sporgenti e un cranio calvo sormontato da una bozza deformante, riesce difficile ricordare che venti anni fa egli fu il romantico eroe di un mondo malato e stanco che stava sforzandosi di riconquistare la sua gioventù dopo l’esaurimento della guerra! Così egli divenne padre modello, soldato, aviatore, atleta, operaio, agricoltore e uomo di stato. Si insegnò ai bambini italiani a riverire in lui un eroe quasi mitologico, una
versione moderna dell'imperatore romano deificato, tutti i buoni fascisti dovettero emularlo e divenire via via buoni padri, soldati ecc. mentre in tutto il mondo la gente sospirava perché i suoi uomini di stato non erano abbastanza simili a Mussolini».
Anche questa,. come le altre considerazioni che abbiamo riportate, sono di un antifascista. Noi ci siamo proposti di ignorare gli addomesticati libri del fascismo. E su l’ottimo, persuasivo fondamento di tanti rilievi e tante conclusioni di avversari, affermiamo che non si può rimproverare alla Monarchia di aver sentito la fortissima corrente che prevaleva e sospingeva da ogni lato. E se quelle conclusioni hanno avuto una così inaspettata smentita, diciamo che hanno sbagliato anche i più... saggi: e che i severi censori della Monarchia giudicano col senno del poi.

mercoledì 27 giugno 2018

La ’crociata’ per piazza Savoia, 700 cittadini contro il Comune: "Non si può cancellare la storia"


Dai residenti della zona a magistrati, commercianti e professionisti: almeno 700 persone hanno firmato la petizione per bloccare il cambio di denominazione di piazza Savoia in piazza Falcone e Borsellino. "Sono stati due grandi magistrati e ci dobbiamo inchinare davanti a loro, e non siamo nemmeno monarchici. Ma a Falcone e Borsellino si poteva dedicare una scuola o il Tribunale", sottolineano il tenente colonnello Mario Capone e Silvana Folchi (figlia del famoso pittore), promotori del comitato che sta raccogliendo le firme che saranno consegnate al sindaco e al prefetto.





di Stefania Potente

Sembrava che Campobasso si fosse abituata (o rassegnata, dipende dai punti di vista) all’idea: piazza Savoia diventerà piazza Falcone e Borsellino. In Comune l’iter per il cambio di denominazione si è concluso e tutti gli atti sono stati inviati in Prefettura, con commenti entusiastici e soddisfatti da parte degli amministratori di palazzo San Giorgio. Tutti felici e contenti? Non proprio.

In realtà, si è accesa una ‘sommossa carbonara’ contro l’iniziativa dell’amministrazione, una ‘crociata’ avviata dal tenente colonello Mario Capone, da Silvana Foschi, figlia del noto pittore molisano, e da Michele Palange. Sono stati loro, qualche settimana fa, dopo aver ascoltato la conferenza stampa del consigliere di opposizione Francesco Pilone, a fondare un comitato e ad avviare una raccolta firme per chiedere al Comune e alla Prefettura di lasciare tutto così com’è: piazza Savoia al suo posto, dunque. Mentre ai due magistrati uccisi dalla mafia “si potrebbe intitolare una scuola o il palazzo di Giustizia di Campobasso”, la proposta del tenente colonnello.

Le valutazioni politiche non c’entrano nulla con questa ‘battaglia’: anzi, la petizione è stata firmata "pure da persone di sinistra". “Noi non siamo monarchici – ha puntualizzato la signora Silvana – ma la storia non può essere cancellata né dimenticata. Mi sembra una iniziativa inutile, alla luce di tutti i problemi che ha Campobasso. Con tutto il rispetto per i giudici Falcone e Borsellino, che devono essere ricordati, però la toponomastica non può essere stravolta. Ci sono tanti altri spazi che possono essere dedicati a loro, soprattutto nella zona nuova della città.

Sullo sfondo motivazioni storiche. Piazza Savoia fa quasi da ‘porta d’ingresso’ ad un quartiere la cui toponomastica è fortemente ’impregnata’ dallo spirito monarchico: ci sono via conte Rosso e via Conte Verde, via Duca d’Aosta e via Principe di Piemonte, ad esempio. Poco distante dalla piazza inoltre sorgono l’edificio degli ex Orfani di guerra (alle spalle del Conservatorio, attualmente ospita la scuola Pertini) e le villette che sono state costruite per gli ex combattenti e i reduci di guerra. "E’ un’area che si è sviluppata nei primi decenni del Novecento, dedicata alla memoria storica e che inizia da via Petrella, senatore del regno d’Italia, e via Scatolone, medaglia d’oro della Prima guerra mondiale", la loro tesi. Dal punto di vista amministrativo, invece, il regolamento comunale stabilisce "il rispetto della toponomastica esistente, della memoria storica, oltre all’omogeneità di determinate zone storiche" per "non variare l’assetto territoriale" e "non apportare disagi ai cittadini". E questo è un punto fondamentale.

Chi è contrario al cambio di denominazione, sostiene anche motivi strettamente pratici. “Sono preoccupati dal cambio di denominazione coloro che vivono in piazza Savoia e che dovrebbero cambiare tutti i documenti. Parliamo dei residenti (molti dei quali anziani) dello storico palazzo Incis, ma anche i professionisti che hanno lì il loro studio”, ha sottolineato a Primonumero Capone. Non sono stati nemmeno interpellati dal Comune su questa novità.

La battaglia finora ha raccolto parecchi consensi: sui fogli bianchi distribuiti tra la cittadinanza hanno apposto la loro firma professionisti, magistrati, commercianti, associazioni combattentistiche, i reduci di guerra, l’Università della Terza età.

La petizione sta procedendo a gonfie vele. "Sono stato contattato da campobassani che vivono a Nuova Comunità o a Coste di Oratino e che si oppongono a questa iniziativa, ma non possono firmare. Tuttavia, i più incavolati di tutti sono gli abitanti delle contrade", ha raccontato il tenente colonnello. "Ho lasciato un foglio per la raccolta firme ad un negozio di biancheria, è stato riempito in pochissime ore".

Le firme poi saranno consegnate alle istituzioni preposte, con ogni probabilità al sindaco Antonio Battista e alla prefetta Maria Guia Federico per provare a fermare l’iter di denominazione. Nei prossimi giorni inoltre si svolgerà un incontro pubblico.

"La storia ci ha insegnato ad aggiungere, non a cancellare", l’opinione di Francesco Pilone. "Se fra 100 anni ci saranno altri magistrati illustri, cambiamo di nuovo la denominazione di piazza Falcone e Borsellino? Già abbiamo cancellato il teatro Margherita che è stato chiamato teatro Savoia, non rifacciamo questo errore. A Falcone e Borsellino, due personaggi martiri e per l’alto valore didattico e di moralità, - la proposta del consigliere comunale - possiamo dedicare una delle quattro scuole nuove che saranno costruite".
La ’crociata’ è solo agli inizi. Ma forse già si sta trasformando in un braccio di ferro. Di sicuro, a palazzo San Giorgio non si potrà ignorare il malcontento di chi ha firmato per evitare la cancellazione di piazza Savoia.

(Pubblicato il 27/06/2018)



Gaeta, Montenegro e Casa Savoia


Una delegazione del Montenegro è tornata a Gaeta a distanza di due anni dalla loro ultima visita. Alcuni componenti dell'associazione culturale "Dukljani", dopo aver fatto visita alla tomba della Regina Elena presso il Santuario a Vicoforte (Cuneo), si sono recati presso il monumento intitolato ai caduti di "Elena", in Villa delle Sirene. Qui hanno deposto un cuscino di fiori in ricordo della comunità di cittadini montenegrini che popolò la zona del Golfo dal 1919 al 1922 per poi recarsi in Comune.

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Gaeta, Montenegro e Casa Savoia: dove nasce questo legame d'amicizia, nel segno della Storia.

Gaeta dal 1897 al 1927, aveva assunto come Comune autonomo la denominazione di "Elena" differenziandosi così da Gaeta S. Erasmo. SI scelse questo nome In onore della Principessa Jelena Petrovic-Njegos, sesta figlia di Re Nicola I del Montenegro e di Milena Vukotic, diventata consorte di Re Vittorio Emanuele III, quindi seconda Regina d'Italia e madre di Re Umberto II e delle Principesse, Iolanda, Giovanna, Maria Francesca e Mafalda. 















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Articolo completo:

http://www.gazzettinodelgolfo.it/montenegrini-nei-luoghi-della-storia-laccoglienza-in-comune/

martedì 26 giugno 2018

Re Vittorio abbandonò Roma per difenderla


A 70 anni dal settembre 1943 la vicenda va riletta nella sua oggettività. Il sovrano soldato non fuggì, ma fu costretto ad andarsene.

Poté così esercitare le sue funzioni da uomo libero ed evitare la vendetta di Hitler, che avrebbe altrimenti distrutto la città eterna



di Salvatore Sfrecola

Il giornalista Marco Patricelli annota per La Verità l’ultima puntata di La grande storia di Paolo Mieli, in onda su Rai 3. In particolare, il giornalista - storico si sarebbe appisolato parlando di Mafalda di Savoia e della sua «cattura» da parte delle SS di Herbert Kappler. Precisa Patricelli che Mafalda, figlia di Vittorio Emanuele III e moglie del principe Filippo d'Assia, non era stata arrestata in Bulgaria, come affermato da Mieli, ma a Roma, di ritorno da Sofia, dopo le esequie del cognato,Boris III, marito di sua sorella Giovanna, avvelenato per ordine di Adolf Hitler. La principessa fu «invitata» a recarsi all’ambasciata tedesca, dove scattò la trappola che la portò prima a Berlino e poi nel campo di concentramento di  Buchenwald, dove sarebbe morta il 28 agosto 1944.
Scrivendo di quel tragico settembre del 1943. Patricelli aderisce alla vulgata della «fuga» del Re da Roma. Eppure, a oltre 70 anni, dovrebbe essere agevole considerare i fatti sine ira ac studio, abbandonata ogni suggestione politica. È noto, intatti, che dopo il 25 luglio, le dimissioni di Benito Mussolini e la caduta del fascismo. Hitler, certo che l’Italia avrebbe chiesto l’armistizio agli angloamericani, dislocò in Italia numerose divisioni. Firmato l'armistizio, gli angloamericani ne danno l’annuncio prima del previsto, spiazzando il governo e i reparti militari, che non sarebbe stato possibile informare senza che la «notizia» fosse intercettata dai tedeschi. Tutti, pertanto, ne vengono a conoscenza dal maresciallo Pietro Badoglio, attraverso il noto messaggio radiofonico dell’8 sera quando, nel comunicare che il governo
italiano aveva chiesto l'armistizio, precisava che «conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». L’esercito, si dice, non aveva avuto ordini. Ma l’indicazione di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» non è forse un ordine preciso?
Il Re è stato accusato di non aver difeso Roma. Per alcuni doveva morire a Porta San Paolo, alla testa dei suoi soldati. Gli si chiedeva un «bel gesto». Sarebbe stata la cosa più semplice per l’anziano sovrano, il «Re soldato» della Grande guerra. Ma, poi, gli sarebbe stato rimproverato di aver mancato al proprio dovere di preservare
la sua persona, unica autorità legittima di un Regno senza Parlamento. Inoltre, resistendo a Roma, avrebbe concorso alla sua distruzione. La città, indifendibile, sarebbe stata distrutta nei combattimenti tra tedeschi e alleati e i monumenti della sua straordinaria storia sarebbero stati sepolti per sempre sotto le bombe. Non avrebbe avuto pietà Hitler, desideroso di vendicarsi del traditore italiano e di papa Pio XII, che aveva pensato di rapire. Né avrebbero avuto remore gli angloamericani, come dimostrerà la distruzione della millenaria Abbazia di
Montecassino al solo sospetto che vi fossero nascosti tedeschi. A chi avrebbero addebitato i romani e la storia, la distruzione della città? Al Re del «bel gesto», naturalmente. È stato facile da parte degli antifascisti dell’ultima ora parlare di «fuga» del Re. Altri sovrani dei Paesi occupati dai tedeschi si erano rifugiati in Inghilterra. Nessuno ha parlato di fuga. Lo ha spiegato bene Alessandro Meluzzi, all'indomani del ritorno della salma del Re in Italia: «Gli han fatto pagare gli errori di un Paese».
Quelli dei popolari di Luigi Sturzo, dei liberali di Giovanni Giolitti e dei socialisti di Filippo Turati che, nel 1922, invitati dal re a formare un governo che affrontasse la crisi del dopoguerra, non vollero. Alcuni votarono la fiducia al governo di Mussolini. E quando cominciò a delinearsi la soppressione delle libertà statutarie, dalle Camere non venne quel segnale che attendeva. Era un formalista. Re Vittorio, ma il 25 luglio 1943 fece tutto da solo concordando con Dino Grandi, tramite il ministro della Reai Casa, Pietro d’Acquarone. l’ordine del giorno che, approvato dal Gran Consiglio del Fascismo, gli avrebbe restituito i poteri di capo supremo delle forze armate.
Con la «fuga» del Re si è giustificata la «morte della patria», per dirla con Ernesto Galli della Loggia, e si è aperta la strada alla perdita dell’identità nazionale. Lo dice bene Indro Montanelli, nel libro L'Italia della Repubblica: «Di coloro che avevano votato la Repubblica, pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità... Scomparso anche quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione».

lunedì 25 giugno 2018

UN PRIMATO ( NEGATIVO ) DELLE “DUE SICILIE”



Nel 1840 avviene nel Regno Unito, una grande rivoluzione postale. Il costo del servizio viene pagato in anticipo e così nasce il “francobollo”, il primo nel mondo e con l’effigie della Regina Vittoria. Nel giro di qualche anno, cominciando un cantone svizzero, Zurigo, nel 1843, seguito lo stesso anno dall’Impero del Brasile, i principale stati dell’ Europa e del Mondo si adeguano emettendo anche loro i primi francobolli. E in Italia ? Dobbiamo attendere un decennio ed il Lombardo-Veneto, sotto il governo austriaco, il primo giugno del 1850 emette una prima serie. A distanza di sei mesi, primo gennaio 1851 arriva il Regno di Sardegna con tre francobolli, aventi l’effigie del re Vittorio Emanuele II, su carta non filigranata. Seguono tutti gli altri stati, dal Granducato di Toscana, il primo aprile dello stesso anno, e nel 1852 il Ducato di Parma e quello di Modena e anche lo Stato Pontificio. Un solo Stato manca all’appello, il Regno delle Due Sicilie! Dobbiamo attendere 8 anni ed il primo gennaio del 1858, finalmente, per la sola parte peninsulare del Regno vengono emessi i primi francobolli, napoletani, tutti di colore rosso carminio, in quanto il pavido governo borbonico temeva che francobolli di diverso colore, come avevano fatto tutti gli altri stati preunitari, potessero prestarsi a combinazioni non gradite. La Sicilia doveva attendere un altro anno e nel 1859 veniva finalmente dotata di francobolli con l’effigie di Ferdinando II, bellissimi come disegno, opera di uno Juvarra, Tommaso Aloysio, effigie stranamente non usata per i precedenti francobolli napoletani, quasi a sfregio dei siciliani, il cui Parlamento, nella storica seduta del 1848 aveva per sempre dichiarato decaduta la dinastia borbonica. E per evitare appunto sfregi sul volto del Sovrano, veniva predisposto un tipo di annullo che doveva racchiudere l’effigie senza appunto deturparla. Purtroppo ed è un altro triste primato, i francobolli napoletani furono anche i più numerosi ad essere falsificati, per un fraudolento uso postale, tanto da far pensare che i falsari agissero con complicità di impiegati, circostanza evidenziata in tutti i cataloghi e quindi nota a tutti i filatelisti. Riepilogando perciò nelle Due Sicilie, si ebbe un ritardo di 8 e 9 anni, unito e dovuto logicamente anche alla pochezza del numero degli uffici postali esistenti, assolutamente minoritario rispetto a tutti gli altri già in funzione nel resto dell’ Italia. Gli uffici postali operanti nelle Due Sicilie erano solo 153 nella parte “al di qua del Faro” e 85 “Al di là del Faro”, quando lo Stato Pontificio, che pure non era all’avanguardia del progresso ne aveva 415, il Piemonte più la Liguria ne aveva 685,ed in Sardegna 180, il  che costrinse il nuovo governo del Regno d’Italia, subito dopo il 1861, ad impegnare notevoli somme per dotare quanti più possibile comuni meridionali di questo fondamentale servizio, creandone nel napoletano dal 1861 al 1863 altri 189, ed in Sicilia 105, insieme con strade e ferrovie, anche queste carenti nel reame borbonico, che costituivano il trinomio della civilizzazione e del progresso nel diciannovesimo secolo.

Domenico Giglio

Eroi dimenticati: l’ultimo Conte di Salemi e quel diritto alla prima linea


Era una calda giornata del 22 giugno 1889 quando Maria Letizia Bonaparte, seconda moglie di Amedeo I di Spagna e pronipote di Napoleone, mise al mondo Umberto. Pochi mesi più tardi, il re di allora Umberto I conferì al neonato il titolo di Conte di Salemi, carica che non venne più rinnovata a nessun altro. Umberto aveva altri due fratellastri: Emanuele Filiberto, Vittorio Emanuele conte di Torino e Luigi Amedeo Duca degli Abruzzi.


Dopo che ebbe terminato gli studi, Umberto frequentò l’Accademia Navale di Livorno nel 1908 e partì volontario per il fronte nel 1915. Fervente nazionalista e coraggioso soldato, Umberto volle combattere in prima linea e, dopo aver ottenuto il permesso su sua personale richiesta, si distinse in combattimento ottenendo due medaglie d’argento al valor militare e la successiva promozione a ufficiale.


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Tommaso Lunardi


domenica 24 giugno 2018

La prima guerra civile italiana


Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento
Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento. Il volume contrappone le ragione dell’Unità d’Italia con quelle di chi sostiene che il Regno delle Due Sicilie ebbe solo a perdere dall’annessione alla Monarchia Sabauda.

Battaglia di Mola di Gaeta (Formia), 1860

Qui abbiamo sintetizzato, per quanto possibile, gli argomenti presentati dai due «schieramenti». La rivista presenta interventi e interviste tra gli altri di: Pino Aprile, Alessandro Barbero, Sergio Boschiero, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore, Dario Marino, Emanuele Mastrangelo, Aldo A. Mola, Pierluigi Romeo di Colloredo. Il dibattito resta aperto.
Altro che briganti, fu una resistenza contro un'invasione
Quali sono gli argomenti più forti di coloro che sostengono che il Regno delle Due Sicilie con l'ingresso nel regno di Italia ebbe - economicamente, socialmente - solo da perderci? Lo speciale di Storia in rete intitolato Savoia vs Borbone ne fa una belle cernita, attingendo alle opere di molti degli autori più noti nell'aver cercato percorsi diversi da quelli della storiografia più battuta sul Risorgimento: da Gennaro De Crescenzo a Pino Aprile passando per Gigi di Fiore.
Partiamo dall'economia. Per quanto la pubblicistica inglese, sin dalle lettere di William Ewart Gladstone del 1851, descriva il regno borbonico come un luogo arretratissimo, gli storici che rivalutano i Borbone pongono l'accento su quelli che secondo loro sono chiari segni di sviluppo del Regno. Il più noto è il primato ferroviario della Napoli-Portici, la prima strada ferrata della Penisola (lunga 7,5 chilometri) del 1839. Ma sono molte le industrie specializzate del Sud, spesso nate direttamente con patrocinio Reale, che sono state riscoperte negli ultimi anni: le Reali Officine di Mongiana (armi), una cantieristica sviluppata, il perfezionamento a livello altissimo delle tecniche di produzione delle ceramiche... Si pone anche molta attenzione ai dati statistici che - pur con l'affidabilità limitata dell'epoca - lasciano in più casi intendere come i livelli occupazionali del Sud erano più alti di quelli di alcune regioni del Nord; e anche l'apporto alimentare medio era maggiore.
Tutti dati che, invece, precipiterebbero verso il basso dopo «l'occupazione» piemontese. Una occupazione che, secondo la maggior parte di questi autori, si sarebbe volta rapidamente in predazione di ricchezze. Secondo alcuni, come Pino Aprile (lo ha sostenuto nel suo saggio Carnefici, 2016), addirittura in un vero e proprio genocidio. I metodi utilizzati contro i «briganti» (etichetta che funzionava benissimo per delegittimare i sostenitori del passato regime) furono quanto mai brutali.
Ed è questo uno di quei temi in cui la storiografia che potremmo definire «borbonica» è riuscita a mettere in piena luce episodi che, indubbiamente, furono molto violenti. Un esempio può essere il caso della distruzione dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni. Nei pressi dei due abitati un contingente di 40 bersaglieri e 4 carabinieri, nel giugno del 1861, venne aggredito da bande di legittimisti sostenute dagli abitanti locali. I soldati del Regno d'Italia vennero prima costretti alla resa e poi massacrati (si salvarono soltanto in due). La risposta del generale Cialdini a questo atto, inumano anche per i criteri del tempo, fu ancora più inumana. Ordinò di fare terra bruciata, distruggendo completamente le due località. Gli ordini prevedevano non venissero passati per le armi donne e bambini. Ma andò diversamente...
Il livello di violenza dello scontro tra «briganti» e truppe regie fu altissimo. Come è chiaro che la tassazione elevata e la mancata eliminazione del latifondo colpirono duramente la popolazione meridionale. Secondo molti storici i quali rivalutano l'amministrazione borbonica, gli effetti furono così gravi da spiegare il calo demografico che, secondo la documentazione disponibile, sembrerebbe caratterizzare buona parte del territorio meridionale. Il genocidio di cui appunto parla Pino Aprile. A questo andrebbero sommate politiche chiaramente volte a favorire le industrie del Nord del Paese e a far gravare tutti i costi del conflitto sugli «sconfitti».
Abbastanza, secondo alcuni, per attribuire il divario nord-sud non a una situazione preesistente ma proprio dalle scelte portate avanti da Casa Savoia e dai suoi ministri intenti a trattare il Sud alla stregua di una colonia, più che di un «pezzo» di una nazione unitaria.
La povertà meridionale era già lì, Savoia l'unico futuro
Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire, semplificando un po', «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e prima dell'Unità sia stata realizzata solo un'altra novantina di chilometri di binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d'Italia in seguito portò il ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l'anno nel primo decennio post unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in regime protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall'alto, sarebbe stata la causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che esistesse ben prima dell'arrivo dei Savoia e che fosse il risultato dell'arretratezza economica di quei territori che erano tutt'altro che felici anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo? La tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui era partita l'insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l'unità ha preso semplicemente un'altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente era inevitabilmente destinato all'estinzione. L'Europa intera stava andando verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno d'Italia, ottenendo un'ampia rappresentanza politica d parlamentare.
E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio. Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo. Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna (1833-1840 e 1872-1876)).
Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni 40mila), citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si sarebbe passati dall'oblio al mito senza tappe intermedie.
fonte.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/guerra-civile-italiana-1544140.html

La povertà meridionale era già lì, i Savoia erano l'unico futuro

da www.ilgiornale.it
La Monarchia borbonica non aveva alcuna speranza. La modernità spingeva altrove

Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire, semplificando un po', «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e prima dell'Unità sia stata realizzata solo un'altra novantina di chilometri di binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d'Italia in seguito portò il ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l'anno nel primo decennio post unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in regime protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall'alto, sarebbe stata la causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che esistesse ben prima dell'arrivo dei Savoia e che fosse il risultato dell'arretratezza economica di quei territori che erano tutt'altro che felici anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo? La tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui era partita l'insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l'unità ha preso semplicemente un'altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente era inevitabilmente destinato all'estinzione. L'Europa intera stava andando verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno d'Italia, ottenendo un'ampia rappresentanza politica d parlamentare.
E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio. Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo. Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna (1833-1840 e 1872-1876)).
Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni 40mila), citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si sarebbe passati dall'oblio al mito senza tappe intermedie.
fonte:

venerdì 22 giugno 2018

Consegna al Governo italiano della parte della collezione delle monete del Re Vittorio Emanuele III rimasta in possesso del Re Umberto II


Fausto Solaro del Borgo  Febbraio 1983:


         In occasione di uno dei miei incontri con S.M. il Re Umberto II a Ginevra, nel febbraio del 1982, il Re mi accennò al problema delle monete della collezione donata da Suo Padre, il Re Vittorio Emanuele III, al Popolo Italiano (con lettera al Presidente del Consiglio, On. Alcide De Gasperi, scritta a Napoli il 9 maggio 1946), rimaste in Suo possesso dopo la morte del Genitore. Si trattava di due cassette contenenti i pezzi più preziosi, in quanto  più antichi, che il vecchio Re, partendo per l’esilio in Egitto, portò con se (rilasciandone regolare ricevuta alla Presidenza del Consiglio) al fine di riordinarne la catalogazione. Queste monete si trovavano ad Alessandria d’Egitto al momento della morte del Re Vittorio Emanuele III, avvenuta il 28 dicembre 1947, quattro giorni prima della entrata in vigore della nuova Costituzione che prevedeva l’avocazione dei beni dell’ex Sovrano. Esse rappresentavano l’unico bene patrimoniale importante su cui la Famiglia Reale, che rischiava di restare senza mezzi di sostentamento, potesse contare sicché fu  deciso di non procedere alla restituzione. 
 
Il 9 maggio del 1946 il vecchio Re dalla lancia che lo avrebbe portato verso l’esilio, tornando col pensiero a quella che era stata la più grande passione della sua vita, donava la propria collezione al POPOLO ITALIANO.
        Il Re Umberto mi precisò che intendeva affidare a me l’incarico di concordare con il Governo Italiano la restituzione delle due cassette conservate nel caveau del Credit Suisse di Losanna, che doveva essere effettuata in via riservata senza coinvolgere alcuno dei Suoi Consiglieri e Familiari, tutti ancora contrari a restituire un bene di così rilevante importanza patrimoniale al Paese che aveva espropriato l’intero patrimonio del Sovrano.
         All’inizio dell’estate 1982, in occasione della mia visita a Cascais del 27 luglio, fu deciso che avrei avviato in autunno i contatti con il Governo Italiano per individuare le procedure per la restituzione. L’aggravamento della malattia del Re ai primi di agosto e il Suo ricovero a Londra provocò, come tutti ricorderanno, un’ondata di simpatia per il Malato in esilio, sicché da molte parti si invocava un provvedimento del Parlamento che consentisse ad Umberto II di morire in Italia. In relazione a ciò, con la signorilità, la sensibilità e la bontà che hanno sempre caratterizzato le Sue azioni, il Re mi invitò ad astenermi dall’avanzare proposte di restituzione delle monete,  perché non voleva che un tale Suo spontaneo gesto venisse interpretato come una forma di “do ut des”.
         Nei mesi dell’autunno 1982 non parlammo della questione nei nostri incontri alla clinica londinese, se non saltuariamente, sempre sentendomi confermare la preoccupazione per una possibile interpretazione che il gesto fosse legato all’ipotetico rientro in Italia. Da parte mia continuavo a notare un peggioramento delle condizioni di salute del Re con il rischio conseguente che, con la Sua scomparsa, le monete per le quali  non avevo disposizioni scritte non venissero, dagli Eredi, più restituite all’Italia. Il 23 gennaio 1983, in occasione di una delle mie visite alla London Clinic, presi il coraggio a due mani e feci capire al Re che, date le circostanze ed i rischi connessi ad ulteriori rinvii, occorreva procedere e quindi aprire il negoziato con il Governo.
L’amor di Patria e la grande delicatezza del Re Umberto II si manifestarono ancora una volta quando volle suggerirmi di contattare, per un consiglio sulla procedura da seguire, il Sen. Giovanni Spadolini, all’epoca  Ministro della Difesa del Governo Fanfani, dicendomi “Ė il presidente del partito repubblicano, ma sono certo che, da uomo di cultura, metterà da parte in questa occasione  le sue idee politiche”. Mi diede anche la precisa disposizione che unica condizione da porre era che nessuna notizia in merito alla riconsegna fosse data prima della Sua morte.   Tornato a Roma, tramite un’amica che lo conosceva molto bene,  chiesi un incontro con il Ministro della Difesa. Il Sen. Spadolini, per incontrarmi, mi fece chiedere di che cosa intendevo parlargli e, saputolo, mi fece dire che “non vedeva la ragione perché ci si rivolgesse a lui per una questione che riguardava Casa Savoia”. Chiusa questa porta, non avendo rapporti con il mondo politico, mi rivolsi all’amico Marcello Sacchetti che mi propose di incontrare l’On. Nicola Signorello, Ministro del Turismo e Spettacolo. Eravamo intanto arrivati al 18 febbraio e l’On. Signorello, che mi ricevette subito, udito quello di cui si trattava mi disse che ne avrebbe parlato in via confidenziale con il Presidente del Consiglio Sen. Fanfani che doveva incontrare, di lì a poco, in Consiglio dei Ministri. Questo avveniva intorno alle ore 16 del venerdì 18 febbraio.
       Descrivo sinteticamente la cronologia degli avvenimenti che portarono al rientro in Italia delle monete mancanti alla collezione donata al Popolo Italiano dal  Re Vittorio Emanuele III.

Sabato 19 febbraio.

-         Ore 9,00: mi chiama al telefono il Professor Damiano Nocilla, Capo dell’Ufficio Legislativo della Presidenza  del Consiglio dei Ministri, pregandomi di recarmi a Palazzo Chigi.
-         Ore 10,30: incontro il Prof. Nocilla, il quale mi comunica di aver avuto incarico dal Presidente Fanfani di chiedermi chiarimenti su quanto a lui comunicato, il pomeriggio precedente, dal Ministro Signorello. Dopo avermi ascoltato mi chiese - essendo completamente all’oscuro su quanto concerneva la donazione del Re Vittorio Emanuele III che risaliva al 1946 - qualche ora di tempo per aggiornarsi sulla pratica.
-         Ore 15,00:     seconda convocazione a Palazzo Chigi da parte del Prof. Nocilla, il quale nel frattempo aveva trovato gli incartamenti originali della donazione, compresa la ricevuta con la quale il Re Vittorio Emanuele dichiarava di portare con se le due cassette per l’aggiornamento della catalogazione, sicché  potemmo finalmente affrontare nei dettagli l’esame della procedura da seguire per la riconsegna. Durante il colloquio mi chiese di allontanarsi per andare a riferire al Presidente Fanfani che, indisposto, era a letto nell’ appartamento di Palazzo Chigi riservato al Presidente del Consiglio.
-         dopo circa mezz’ora il Prof. Nocilla mi informa che il Presidente Fanfani, pur febbricitante,  era sceso nel suo studio e desiderava parlare con me.
-         Ore 16: il Presidente, che da anni era in rapporti molto amichevoli con mio Padre Alfredo, mi accoglie nel suo ufficio con grande cordialità, esprimendo tutta la sua ammirazione per il gesto che il Re morente intendeva fare nei confronti del Popolo Italiano e, dopo essersi fatto esporre in dettaglio la situazione, con la mia richiesta di riservatezza sul mantenimento della quale mi diede la sua personale assicurazione, mi comunicò che intendeva assentarsi e mi pregava di attendere il suo rientro.
-         Intorno alle 17 il Presidente Fanfani rientra a Palazzo Chigi e mi informa che il Presidente della Repubblica Pertini, dal quale si era nel frattempo recato, anche lui riconoscente per il gesto di Umberto II,  aveva disposto che la riconsegna delle  monete avvenisse nel più breve tempo possibile, mettendo a mia disposizione l’aereo presidenziale per il loro trasporto a Roma.
-         Da questo momento in poi, seduto davanti alla sua scrivania, ho l’occasione di sperimentare l’efficienza dell’uomo Fanfani:        
§  Siamo ormai nel tardo pomeriggio, ed il Presidente del Consiglio chiama alla Farnesina l’Ambasciatore Malfatti, Segretario Generale del Ministero Affari Esteri, il quale arriva nel giro di un quarto d’ora.
§  Nel frattempo concorda con il Prof. Nocilla le modalità legali per la consegna da farsi, a Losanna, attraverso l’Ambasciatore d’Italia a Berna.
§  Chiede che l’Ambasciatore a Berna, Rinieri Paulucci di Calboli Barone, venga convocato a Roma e, a seguito dell’osservazione dell’Amb. Malfatti che si poteva parlargli per telefono, saputo che io lo conoscevo bene, lo chiama direttamente e, senza fornirgli spiegazioni, gli da disposizioni di recarsi a Losanna con il suo Cancelliere il martedì  successivo per incontrarsi con me e fare quanto gli avrei indicato.
§  Concorda con i presenti, per salvaguardare le disposizioni di massima segretezza dell’intera operazione, fino alla morte di Umberto II, di rivolgersi ai Carabinieri: il Presidente Fanfani chiama al telefono il Comandante Generale dell’Arma e gli chiede di organizzare il deposito a Roma.
-         Intorno alle 19,30 mi congedo dal Presidente Fanfani assicurandogli che avrei fatto il possibile per concludere l’operazione entro il martedì successivo e ricordo bene che lo stesso, avendo appreso da me delle gravissime condizioni in cui versava il Re Umberto, mi disse “Caro Solaro, faccia in modo che il tutto avvenga prima della morte di Umberto II e si ricordi che, se questo non dovesse avvenire, sarà solo colpa sua”.
-         Dopo aver definito meglio con il Prof. Nocilla gli aspetti legali da osservare, e predisposta una bozza di verbale di riconsegna, lascio Palazzo Chigi intorno alle 22. Viene deciso che, per garantire la massima regolarità, non avendo io alcun mandato scritto del Re, la parte formale sarebbe stata svolta da mio Padre nella sua qualità di Procuratore Generale di Umberto II, ed anche perché, non volendo coinvolgere l’Amministratore del Sovrano, era l’unico ad avere accesso al caveau del Credit Suisse dove si trovavano le cassette.

Domenica 20 febbraio.

Il Presidente Fanfani mi fa pervenire una lettera indirizzata a mio Padre, quale Procuratore Generale del Re, confermando l’accettazione delle monete ed esprimendo la riconoscenza del Governo e del Paese per il gesto del Sovrano morente.

 Martedì 22.

Alle nove mi incontro all’Hotel Palace di Losanna con l’Ambasciatore d’Italia a Berna, Rinieri Paulucci de Calboli Barone, che trovo abbastanza seccato per il modo in cui era stato trattato dal Presidente del Consiglio e, senza mezzi termini, mi dichiara che mai durante la sua carriera gli era stato chiesto di mettersi a disposizione di un “laico”, portando con se il Cancelliere Capo dell’Ambasciata, il sigillo e la ceralacca. Gli spiego tutto quanto era stato concordato a Roma ed i motivi, purtroppo molto tristi, che avevano richiesto l’adozione di una procedura di particolare urgenza con tempi brevissimi a disposizione.
Con lui e con il Cancelliere mi reco al Credit Suisse, dove incontriamo mio Padre e l’Avvocato dello Stato addetto alla Presidenza del Consiglio, Raffaele Tamiozzo, accompagnato dal Colonnello dei Carabinieri Giovanni Danese, arrivati da Roma con l’aereo presidenziale. La consegna non richiede molto tempo in quanto io avevo preteso ed ottenuto a Roma che le cassette  venissero aperte solo dopo la morte del Re, in mia presenza. 
Terminata l’apposizione dei sigilli ai due contenitori e la sottoscrizione del verbale da parte di mio Padre per la consegna, dell’Ambasciatore d’Italia per il ritiro, e dei due funzionari presenti, le cassette sono caricate sulla macchina dell’Ambasciata, vengono trasportate all’aeroporto di Ginevra e imbarcate sul DC9 presidenziale. All’arrivo a Ciampino le cassette vengono prese in consegna dal Colonnello Comandante della Legione Carabinieri di Roma e portate nella Caserma del Reparto Operativo di Via Garibaldi, dove concludono il loro periglioso peregrinare durato 37 anni da Roma ad Alessandria d’Egitto, a Cascais,  a Ginevra e, finalmente, di nuovo a Roma.
Il 25 febbraio, vedendo avvicinarsi la fine, i Figli organizzarono il trasporto del Genitore  in Svizzera all’Hôpital Cantonal di Ginevra, e  il 13 marzo  i medici  mi permisero di entrare nella Sua stanza per comunicargli l’avvenuta riconsegna delle monete; ricordo le poche parole che riuscii ad udire  Grazie… è la più bella notizia che potevi darmi  che mi confermarono, ancora una volta, che gli unici pensieri di quell’Uomo in fin di vita erano per il Suo Paese.
Il Re Umberto II muore a Ginevra il 18 marzo 1983. La Sua ultima parola percepita è stata “Italia”.
Il 21 dello stesso mese il Governo Italiano emette un comunicato ufficiale con il quale, dando notizia dell’avvenuta consegna delle  due cassette di monete, ricorda la generosità del gesto compiuto dal Re prima della Sua morte.
Il giorno 28 vengo convocato per l’apertura delle due cassette, che avviene alla presenza del Colonnello Ivo Sassi, Comandante della Legione Carabinieri di Roma, del Professor Damiano Nocilla, Capo dell’Ufficio Legislativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Dottoressa Silvana Balbi de Caro, Direttrice del Museo Nazionale Romano, Museo delle Terme, e di altri Funzionari del Ministero degli Esteri e dell’Avvocatura dello Stato.
La storia non finisce ancora in quanto, una volta aperte le due cassette dalla Direttrice del Museo, Dottoressa Balbi de Caro, comincia l’esame delle monete seguendo il vecchio catalogo del Re Vittorio Emanuele III (Corpus Nummorum Italicorum) e, dove dovevano esservi delle monete d’oro, si trovavano solo delle bustine vuote. Dopo circa mezz’ora in cui, proseguendo nella ricerca, si continuavano a trovare bustine vuote, nell’imbarazzo generale, si decide di sospendere il trasferimento delle cassette dalla Caserma dei Carabinieri al Museo delle Terme, per riferire al Presidente del Consiglio. Io non potevo nemmeno considerare l’ipotesi che il Re Umberto avesse trattenuto le monete d’oro senza farmene cenno; comunque, dovevo arrendermi all’evidenza. Alcuni giorni  dopo mi chiama personalmente al telefono il Presidente Fanfani, che aveva saputo del mio dramma da Nocilla, e mi informa che tutte le monete erano state trovate  in una parte della cassetta dove, evidentemente, il Re Vittorio Emanuele le aveva  raggruppate per la nuova catalogazione.
L'allora presidente del consiglio, Alcide De Gasperi, inviò a Re Vittorio Emanuele III il seguente telegramma ad Alessandria d'Egitto per ringraziarlo della donazione.:

SM Vittorio Emanuele - Alessandria d’Egitto
 
ho letto al Consiglio dei Ministri la lettera con la quale VM annunciava la cessione della raccolta numismatica allo Stato italiano. Il Consiglio dei Ministri, il quale sa apprezzare tutto il valore del dono per la storia del nostro Paese, mi ha incaricato di esprimere a VM la gratitudine del Governo. Adempiendo a tale gradito incarico, La prego di accogliere i sensi del mio profondo ossequio. 
Alcide De Gasperi

Finalmente, con la sottoscrizione di un ultimo verbale e con il trasferimento delle monete al Museo delle Terme, dove era conservato il resto della collezione donata dal Re Vittorio Emanuele III, finisce il mio coinvolgimento in una operazione fortemente voluta dal Re Umberto che mai aveva pensato di appropriarsi di quanto donato da Suo Padre al popolo italiano.
Una decina di giorni dopo ricevetti una telefonata da Palazzo Chigi: il Presidente del Consiglio Fanfani mi comunicava che, a seguito di una valutazione del complesso dei beni da me riportati in Italia per conto di un Signore a cui la Repubblica aveva confiscato tutto il patrimonio, era stato appurato che il loro valore  superava i venti miliardi di lire. Alla mia domanda se si conosceva il valore dell’intera collezione, il Presidente Fanfani mi disse che lo stesso superava i cento miliardi (anno 1983).