A 70 anni dal settembre 1943 la vicenda va riletta nella sua oggettività.
Il sovrano soldato non fuggì, ma fu costretto ad andarsene.
Poté così esercitare le sue funzioni da uomo libero ed evitare la vendetta
di Hitler, che avrebbe altrimenti distrutto la città eterna
di Salvatore Sfrecola
Il giornalista Marco Patricelli annota per La Verità l’ultima puntata di La
grande storia di Paolo Mieli, in onda su Rai 3. In particolare, il giornalista -
storico si sarebbe appisolato parlando di Mafalda di Savoia e della sua «cattura»
da parte delle SS di Herbert Kappler. Precisa Patricelli che Mafalda, figlia di
Vittorio Emanuele III e moglie del principe Filippo d'Assia, non era stata
arrestata in Bulgaria, come affermato da Mieli, ma a Roma, di ritorno da Sofia,
dopo le esequie del cognato,Boris III, marito di sua sorella Giovanna,
avvelenato per ordine di Adolf Hitler. La principessa fu «invitata» a recarsi
all’ambasciata tedesca, dove scattò la trappola che la portò prima a Berlino e poi nel campo di
concentramento di Buchenwald,
dove sarebbe morta il 28 agosto 1944.
Scrivendo di quel tragico settembre del
1943. Patricelli aderisce alla vulgata della «fuga» del Re da Roma. Eppure, a oltre
70 anni, dovrebbe essere agevole considerare i fatti sine ira ac studio,
abbandonata ogni suggestione politica. È noto, intatti, che dopo il 25 luglio,
le dimissioni di Benito Mussolini e la caduta del fascismo. Hitler, certo che
l’Italia avrebbe chiesto l’armistizio agli angloamericani, dislocò in Italia
numerose divisioni. Firmato l'armistizio, gli angloamericani ne danno
l’annuncio prima del previsto, spiazzando il governo e i reparti militari, che
non sarebbe stato possibile informare senza che la «notizia» fosse intercettata
dai tedeschi. Tutti, pertanto, ne vengono a conoscenza dal maresciallo Pietro
Badoglio, attraverso il noto messaggio radiofonico dell’8 sera quando, nel
comunicare che il governo
italiano aveva chiesto l'armistizio, precisava che «conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». L’esercito, si dice, non aveva avuto ordini. Ma l’indicazione di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» non è forse un ordine preciso?
italiano aveva chiesto l'armistizio, precisava che «conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». L’esercito, si dice, non aveva avuto ordini. Ma l’indicazione di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» non è forse un ordine preciso?
Il Re è stato accusato di non aver difeso
Roma. Per alcuni doveva morire a Porta San Paolo, alla testa dei suoi soldati.
Gli si chiedeva un «bel gesto». Sarebbe stata la cosa più semplice per
l’anziano sovrano, il «Re soldato» della Grande guerra. Ma, poi, gli sarebbe stato
rimproverato di aver mancato al proprio dovere di preservare
la sua persona, unica autorità legittima di un Regno senza Parlamento. Inoltre, resistendo a Roma, avrebbe concorso alla sua distruzione. La città, indifendibile, sarebbe stata distrutta nei combattimenti tra tedeschi e alleati e i monumenti della sua straordinaria storia sarebbero stati sepolti per sempre sotto le bombe. Non avrebbe avuto pietà Hitler, desideroso di vendicarsi del traditore italiano e di papa Pio XII, che aveva pensato di rapire. Né avrebbero avuto remore gli angloamericani, come dimostrerà la distruzione della millenaria Abbazia di
Montecassino al solo sospetto che vi fossero nascosti tedeschi. A chi avrebbero addebitato i romani e la storia, la distruzione della città? Al Re del «bel gesto», naturalmente. È stato facile da parte degli antifascisti dell’ultima ora parlare di «fuga» del Re. Altri sovrani dei Paesi occupati dai tedeschi si erano rifugiati in Inghilterra. Nessuno ha parlato di fuga. Lo ha spiegato bene Alessandro Meluzzi, all'indomani del ritorno della salma del Re in Italia: «Gli han fatto pagare gli errori di un Paese».
la sua persona, unica autorità legittima di un Regno senza Parlamento. Inoltre, resistendo a Roma, avrebbe concorso alla sua distruzione. La città, indifendibile, sarebbe stata distrutta nei combattimenti tra tedeschi e alleati e i monumenti della sua straordinaria storia sarebbero stati sepolti per sempre sotto le bombe. Non avrebbe avuto pietà Hitler, desideroso di vendicarsi del traditore italiano e di papa Pio XII, che aveva pensato di rapire. Né avrebbero avuto remore gli angloamericani, come dimostrerà la distruzione della millenaria Abbazia di
Montecassino al solo sospetto che vi fossero nascosti tedeschi. A chi avrebbero addebitato i romani e la storia, la distruzione della città? Al Re del «bel gesto», naturalmente. È stato facile da parte degli antifascisti dell’ultima ora parlare di «fuga» del Re. Altri sovrani dei Paesi occupati dai tedeschi si erano rifugiati in Inghilterra. Nessuno ha parlato di fuga. Lo ha spiegato bene Alessandro Meluzzi, all'indomani del ritorno della salma del Re in Italia: «Gli han fatto pagare gli errori di un Paese».
Quelli dei popolari di Luigi Sturzo, dei liberali di Giovanni Giolitti e
dei socialisti di Filippo Turati che, nel 1922, invitati dal re a formare un
governo che affrontasse la crisi del dopoguerra, non vollero. Alcuni votarono
la fiducia al governo di Mussolini. E quando cominciò a delinearsi la
soppressione delle libertà statutarie, dalle Camere non venne quel segnale che
attendeva. Era un formalista. Re Vittorio, ma il 25 luglio 1943 fece tutto da
solo concordando con Dino Grandi, tramite il ministro della Reai Casa, Pietro
d’Acquarone. l’ordine del giorno che, approvato dal Gran Consiglio del Fascismo,
gli avrebbe restituito i poteri di capo supremo delle forze armate.
Con la «fuga» del Re si è giustificata la
«morte della patria», per dirla con Ernesto Galli della Loggia, e si è aperta la
strada alla perdita dell’identità nazionale. Lo dice bene Indro Montanelli, nel
libro L'Italia della Repubblica: «Di coloro che avevano votato la Repubblica,
pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il risorgimento,
unico tradizionale mastice della sua unità... Scomparso anche quello, il Paese
era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione».
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