da www.ilgiornale.it
La Monarchia borbonica non aveva alcuna
speranza. La modernità spingeva altrove
Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire,
semplificando un po', «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che
continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A
cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene
leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier
Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna
Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del
Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e
prima dell'Unità sia stata realizzata solo un'altra novantina di chilometri di
binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia
di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d'Italia in seguito portò il
ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l'anno nel primo decennio
post unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in
regime protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa
fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall'alto, sarebbe stata la
causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità
dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a
fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi
con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che
esistesse ben prima dell'arrivo dei Savoia e che fosse il risultato
dell'arretratezza economica di quei territori che erano tutt'altro che felici
anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo?
La tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui
era partita l'insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe
borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l'unità ha preso
semplicemente un'altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto
che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente
era inevitabilmente destinato all'estinzione. L'Europa intera stava andando
verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e
fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la
vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle
Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno
d'Italia, ottenendo un'ampia rappresentanza politica d parlamentare.
E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio.
Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è
solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti
demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo.
Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte
direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del
Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione
del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad
altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna
(1833-1840 e 1872-1876)).
Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove
vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che
negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da
Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini
della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu
certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni 40mila),
citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si sarebbe
passati dall'oblio al mito senza tappe intermedie.
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