Nel nuovo speciale di Storia in Rete
(allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs
Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto
caldo: il Risorgimento
Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della
rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le
posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento. Il volume
contrappone le ragione dell’Unità d’Italia con quelle di chi sostiene che il
Regno delle Due Sicilie ebbe solo a perdere dall’annessione alla Monarchia
Sabauda.
Qui abbiamo sintetizzato, per quanto possibile, gli argomenti presentati
dai due «schieramenti». La rivista presenta interventi e interviste tra gli
altri di: Pino Aprile, Alessandro Barbero, Sergio Boschiero, Gennaro De
Crescenzo, Gigi Di Fiore, Dario Marino, Emanuele Mastrangelo, Aldo A. Mola,
Pierluigi Romeo di Colloredo. Il dibattito resta aperto.
Altro che briganti, fu
una resistenza contro un'invasione
Quali sono gli argomenti più forti di coloro che sostengono che il Regno
delle Due Sicilie con l'ingresso nel regno di Italia ebbe - economicamente,
socialmente - solo da perderci? Lo speciale di Storia in rete intitolato Savoia
vs Borbone ne fa una belle cernita, attingendo alle opere di molti degli autori
più noti nell'aver cercato percorsi diversi da quelli della storiografia più
battuta sul Risorgimento: da Gennaro De Crescenzo a Pino Aprile passando per
Gigi di Fiore.
Partiamo dall'economia. Per quanto la pubblicistica inglese, sin dalle
lettere di William Ewart Gladstone del 1851, descriva il regno borbonico come
un luogo arretratissimo, gli storici che rivalutano i Borbone pongono l'accento
su quelli che secondo loro sono chiari segni di sviluppo del Regno. Il più noto
è il primato ferroviario della Napoli-Portici, la prima strada ferrata della Penisola
(lunga 7,5 chilometri) del 1839. Ma sono molte le industrie specializzate del
Sud, spesso nate direttamente con patrocinio Reale, che sono state riscoperte
negli ultimi anni: le Reali Officine di Mongiana (armi), una cantieristica
sviluppata, il perfezionamento a livello altissimo delle tecniche di produzione
delle ceramiche... Si pone anche molta attenzione ai dati statistici che - pur
con l'affidabilità limitata dell'epoca - lasciano in più casi intendere come i
livelli occupazionali del Sud erano più alti di quelli di alcune regioni del
Nord; e anche l'apporto alimentare medio era maggiore.
Tutti dati che, invece, precipiterebbero verso il basso dopo
«l'occupazione» piemontese. Una occupazione che, secondo la maggior parte di
questi autori, si sarebbe volta rapidamente in predazione di ricchezze. Secondo
alcuni, come Pino Aprile (lo ha sostenuto nel suo saggio Carnefici, 2016),
addirittura in un vero e proprio genocidio. I metodi utilizzati contro i
«briganti» (etichetta che funzionava benissimo per delegittimare i sostenitori
del passato regime) furono quanto mai brutali.
Ed è questo uno di quei temi in cui la storiografia che potremmo definire
«borbonica» è riuscita a mettere in piena luce episodi che, indubbiamente,
furono molto violenti. Un esempio può essere il caso della distruzione dei
paesi di Pontelandolfo e Casalduni. Nei pressi dei due abitati un contingente
di 40 bersaglieri e 4 carabinieri, nel giugno del 1861, venne aggredito da
bande di legittimisti sostenute dagli abitanti locali. I soldati del Regno
d'Italia vennero prima costretti alla resa e poi massacrati (si salvarono
soltanto in due). La risposta del generale Cialdini a questo atto, inumano
anche per i criteri del tempo, fu ancora più inumana. Ordinò di fare terra
bruciata, distruggendo completamente le due località. Gli ordini prevedevano
non venissero passati per le armi donne e bambini. Ma andò diversamente...
Il livello di violenza dello scontro tra «briganti» e truppe regie fu
altissimo. Come è chiaro che la tassazione elevata e la mancata eliminazione
del latifondo colpirono duramente la popolazione meridionale. Secondo molti
storici i quali rivalutano l'amministrazione borbonica, gli effetti furono così
gravi da spiegare il calo demografico che, secondo la documentazione disponibile,
sembrerebbe caratterizzare buona parte del territorio meridionale. Il genocidio
di cui appunto parla Pino Aprile. A questo andrebbero sommate politiche
chiaramente volte a favorire le industrie del Nord del Paese e a far gravare
tutti i costi del conflitto sugli «sconfitti».
Abbastanza, secondo alcuni, per attribuire il divario nord-sud non a una
situazione preesistente ma proprio dalle scelte portate avanti da Casa Savoia e
dai suoi ministri intenti a trattare il Sud alla stregua di una colonia, più
che di un «pezzo» di una nazione unitaria.
La povertà meridionale
era già lì, Savoia l'unico futuro
Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire,
semplificando un po', «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che
continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A
cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene
leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier
Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna
Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del
Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e
prima dell'Unità sia stata realizzata solo un'altra novantina di chilometri di
binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia
di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d'Italia in seguito portò il
ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l'anno nel primo decennio post
unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in regime
protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa
fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall'alto, sarebbe stata la
causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità
dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a
fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi
con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che
esistesse ben prima dell'arrivo dei Savoia e che fosse il risultato
dell'arretratezza economica di quei territori che erano tutt'altro che felici
anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo? La
tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui era
partita l'insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe
borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l'unità ha preso
semplicemente un'altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto
che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente
era inevitabilmente destinato all'estinzione. L'Europa intera stava andando
verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e
fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la
vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle
Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno
d'Italia, ottenendo un'ampia rappresentanza politica d parlamentare.
E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio.
Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è
solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti
demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo.
Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte
direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del
Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione
del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad
altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna (1833-1840
e 1872-1876)).
Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove
vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che
negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da
Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini
della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu
certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni
40mila), citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si
sarebbe passati dall'oblio al mito senza tappe intermedie.
fonte.http://www.ilgiornale.it/news/cultura/guerra-civile-italiana-1544140.html
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