di Domenico Giglio
Oltre alla attuale continua polemica
neoborbonica antirisorgimentale ed antisabauda,vi è anche una contestazione di fondo
del processo unitario, parlandone come di una “conquista” di Regni che avevano avuto
settecento anni di storia e di autonomia. Bene togliamo al 1860 settecento anni
ed arriviamo al 1160. Effettivamente con i Normanni, si era stabilito da circa un
secolo un regno in Sicilia, riconquistata agli arabi, e nell’Italia Meridionale.
Vi era dunque un Re, ma la dinastia, gli Altavilla, era, all’origine, una dinastia
di conquistatori, venuta dall’Europa del nord, anche se presto accclimatatasi e
con alcuni Sovrani saggi amministratori. Su questo ceppo si innestò, per via matrimoniale,
un’altra dinastia straniera, gli svevi Staufen, ed in Italia, nelle Marche, a
Jesi ( 1196), nacque il futuro Federico II, figlio “…della gran Costanza -, che
del secondo vento di Soave -, generò il terzo ed ultima possanza” ( Dante:
Paradiso- canto III ). Effettivamente chiamato “puer Apuliae”, il giovane svevo,
cresciuto ed educato sotto la guida di un grande Pontefice, Innocenzo III, dei Conti
di Segni, Papa dal 1198 al 1216, anno della sua morte, può essere ritenuto più italiano
dei suoi predecessori e non a caso sotto di Lui si svilupperà la “Scuola poetica
siciliana”, in lingua “volgare”, e lui stesso forse poetò “…di mio amor vo’ che
si ammanti,-e portine ghirlanda”, oltre a scrivere in latino il famoso trattato
sulla “falconeria”. Ed è con questo Imperatore, “stupor mundi”, “loico e
clerico grande”, come lo definì Dante nel Convivio, con la sua legislazione,le “Costituzioni
Melfitane”, la fondazione dell’Università a Napoli, che ancor oggi porta il suo
nome, il nuovo vigore dato alla Scuola Medica Salernitana, la costituzione di
una “Magna Curia”, che riuniva il fior fiore delle intelligenze del Regno,
precorrendo quasi le corti del Rinascimento, con la rinascita di una scultura classicheggiante,
per non parlare dell’architettura e dei suoi grandi castelli, che l’Italia Meridionale
ebbe i suoi indiscutibili primati e funzionari meridionali imperiali, specie pugliesi,
furono mandati a governare città del settentrione. “Ahi troppo breve stagione!
“ quella di Federico. Incoronato nel 1220, mancato nel 1250, a Castelfiorentino,
in quella Puglia che amava, e con la morte, a cui molti non credettero, così che
nacque la leggenda del suo ritorno, cadeva anche la sua determinazione di fare un’Italia
unita, per la quale aveva cozzato per decenni contro l’implacabile azione contraria
svolta dal Papato, per motivi politici e non religiosi. Così un Papa Francese, Clemente
IV,chiamò in Italia un principe anche lui francese, Carlo d’ Angiò, e lo scagliò
contro il suo successore, Manfredi, il figlio naturale avuto da Federico, con Bianca
Lancia, e quindi ancor più italiano del padre, che fu sconfitto ed ucciso nella
famosa battaglia di Benevento nel febbraio del 1266, a cui Francesco Domenico Guerrazzi
dedicò uno dei più famosi romanzi storici scritti nel XIX secolo ed a cui Dante,
rese giustizia nel Canto Terzo del Purgatorio. Con la caduta degli Svevi si interrompeva
per seicento anni il sogno unitario e l’ago della bussola della cultura e delle
arti si orientava verso il Nord. Nel grande regno federiciano, per diritto di conquista
e con vassallaggio alla Chiesa, si insediarono gli angioini, che a causa dei “Vespri
siciliani”, persero fin dal 1282 la Sicilia passata agli aragonesi, che successivamente
acquisirono anche il trono di Napoli, con Alfonso il Magnanimo ( 1396-1453 ),
quinto per l’Aragona e primo per Napoli. Come lui, anche altri Sovrani erano stati
o furono saggi e prestigiosi, ma erano pur sempre principi stranieri. Poi per oltre
cento anni si ebbero i Vicerè spagnoli, senza che mai sorgesse una famiglia nobile
meridionale che si proponesse come alternativa. Le congiure baronali furono numerose,
ma mai che avessero uno scopo liberatorio dal potere straniero ed un fine unitario,
ed anche quando, nel 1647, fu il popolo ad insorgere con Masaniello,
l’esperimento durò lo spazio d’un mattino e finì con l’uccisione dello stesso capopopolo.
E se vi fu un risveglio, tra la fine del 1600 ed i primi del 1700 di studi storici,
economici ed amministrativi lo stesso, massimi esponenti Giambattista Vico (
1668-1744 ), e Pietro Giannone,( 1676- 1748 ),e da lui venne una schiera di “innumerevoli
giannonisti, difensori costanti e intrepidi dei diritti dell’uomo”, fu una
fioritura spontanea, non collegata né promossa dai governanti succedutisi in
quel periodo, e Napoli, per virtù propria, rappresentò la sede in Italia, come già
nel lontano passato, del pensiero e della filosofia, come rileva e scrive Benedetto
Croce.
Poi succedette qualche
decennio di vicereame asburgico ed infine, nel 1734, la conquista da parte di una
nuova dinastia straniera, i Borbone con Carlo III, l’unico a cui si devono importanti
realizzazioni in ogni campo, i cui discendenti regnarono fino al 1861, per 127 anni.
Tornati Napoli e Sicilia a Regno, questo reame era veramente indipendente ? Legato
dinasticamente alla Spagna fino alla fine del diciottesimo secolo quale politica
autonoma poteva avere ? E dopo ? Alla Spagna subentra l’Inghilterra che salva il
trono dei Borbone dalle invasioni francesi, trasferendo Ferdinando IV, in Sicilia,
a Palermo, dove non era mai stato, e dirigendone la politica. E ancora dopo il rientro
a Napoli nel 1815, come Ferdinando I delle Due Sicilie, l’Austria manda e
mantiene per anni le sue truppe onde evitare la costituzionalizzazione del Regno,
concessa e poi tradita. Ed anche quando sale al trono nel 1830 un giovane,
Ferdinando II, non trova una classe dirigente altrettanto giovane di età ed idee
perché i suoi predecessori avevano scavato un fossato all’epoca, dal 1799 al 1821,
con la classe intellettuale, per cui troviamo nel governo e nell’esercito anziani
aristocratici e generali, senza particolari slanci, spirito di iniziativa, volontà
realizzatrice. E lui stesso approfondisce il fossato con l’intellettualità liberale
nel 1848. Dicono ci fossero le migliori leggi, ma quale era la loro applicazione
? Dicono ci fossero progetti di strade, porti, ferrovie, dopo la prima modesta realizzazione
della Napoli-Portici, 8 chilometri, nel 1838, ma quando furono realizzati ? E a
fronte di una minoranza culturalmente valida, una percentuale di analfabeti con
punte del 90%.Che conta poi che Napoli fosse la città più popolosa d’Italia quando
vi regnava miseria di molti e nobiltà di pochi.
Settecento anni di storia,
ricca di personaggi, di guerre, di rivolte ed altri eventi, ma quale autonomia politica
e statale dopo il 1266 ? Certamente il processo unitario risorgimentale non fu facile,
anche se lo stesso aveva avuto proprio nel Mezzogiorno precursori e protagonisti
non certo secondari ; certamente nel fenomeno del brigantaggio che era endemico
da secoli, si inserì, anche largamente finanziata, la componente legittimista borbonica
costringendo il giovane Stato Italiano ad intervenire con durezza per diversi
anni, circa un quinquennio dopo il 1860, ma nel frattempo e via via sempre più negli
anni successivi si costruirono strade e ferrovie, diminuì l’analfabetismo, si combatterono
malattie storiche, ma soprattutto si consentì in tutti i campi quella libertà di
pensiero e mobilità di ingegni, che era mancata, se non combattuta nel periodo borbonico,
specie per i pensatori politici. Così fin dalla nascita del Regno d’Italia e specialmente
dopo il 1870, con Roma capitale, uscendo dal provincialismo e dall’isolamento scrittori
come Verga, De Roberto, Capuana e poi d’Annunzio e ancora Pirandello, furono conosciuti,
apprezzati, editi in tutta l’Italia, così musicisti come Leoncavallo e Cilea, pittori
come De Nittis, Palizzi, Morelli, Gigante, Michetti, scultori come Gemito ed infine
nel campo degli studi storici Volpe e Rodolico, in quelli filosofici Spaventa,
Gentile,Croce, pure storico insigne, ed infine, ma non certo ultimi per importanza,
politici come Crispi, Amari, De Santis, Settembrini,Nicotera, Mancini, Fortunato
e poi Di Rudinì ( in misura minore), Nitti, Di San Giuliano, Salandra, Orlando,
militari come Cosenz, Pollio e Diaz, assunsero, per limitarci al primo
cinquantennio dell’Unità, a ruoli ed incarichi della massima importanza e responsabilità
nella vita nazionale, elevando il livello intellettuale, culturale e sociale dell’Italia
e facendo finalmente risplendere il sole del, e sul, nostro Mezzogiorno.
Domenico Giglio
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