NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 28 febbraio 2018

Una formiana alla corte della Regina Elena

Sul quotidiano “La Stampa” del 12 febbraio 1937, venne pubblicato il seguente articolo:
La Regina protagonista di un gentile ignorato episodio.
Roma, 11 notte. 
Articolo tratto dalla pagina FB "Come eri bella Formia"
I Sovrani Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia a pesca sul porto di Gianola.

Soltanto ora si viene a conoscenza di un gentile episodio del quale è stata protagonista la nostra graziosa Sovrana. Come è noto l'augusta Imperatrice si reca sovente a Formia, nel più stretto incognito per passare alcune ore sul mare dedicandosi allo svago della pesca. In un pomeriggio dello scorso autunno la Sovrana, mentre si recavo alla località detta il Porticciuolo di Giano, incontrava una giovinetta diciottenne. Raffaella Di Lorenzo figlia di un colono abitante nei dintorni, e la Invitava a portare una valigetta fino al Porticciuolo. La ragazza accettava e durante la strada parlava della sui famiglia e delle sue condizioni rivolgendo poi alcune domande alla sconosciuta signora. La giovinetta rimase poi fino a sera con la Sovrana che a pesca terminato le offri di dividere con lei sulla spiaggia un pasto frugale.
Tornata a casa la giovinetta raccontò al familiari l'Incontro, manifestando la bontà e la squisitezza dei modi della signora, che aveva promesso di ricercarla. Per dimostrare la sua gratitudine la giovinetta avrebbe offerto alla signora un cesto d'uva. Il giorno dopo un'automobile, passa davanti alla casa dei Di Lorenzo. La ragazza vede la signora e le offre il cesto. La macchina sosta un istante e la Regina avverte Raffaella che poco dotto manderà a ritirare l'uva. Difatti appena un'ora dopo un'altra macchina si ferma alla casa dei Di Lorenzo e un distinto signore fra la viva meraviglia di Raffaella e dei suoi familiari chiede il cesto d'uva per la Sovrana. La giovinetta commossa non seppe trovare parole per accompagnare il dono gentile.
La Regina, come avevo promesso, tornò. Cercò ancora la ragazza e la volle ancora presso di se sulla spiaggia a pescare. Parlò con lei delle cose umili e semplici della vita di ogni giorno. Volle sapere come passava le giornate, chi erano le sue amiche, se il raccolto era stato buono quell'anno e poi Infine volle sapere se Raffaella voleva andare a Roma. E' facile immaginare la risposta eli Raffaella. In breve la Sovrana accompagnò in casa la ragazza per ottenere dai familiari il permesso di farla andare a Roma. In casa c'era un ammalato grave e la Regina fece chiamare un medico di Scauri e si, trattenne molto tempo a conversare con i Di Lorenzo. Alla fine la Sovrana disse al padre di Raffaella che avrebbe fatto presto a chiamare la ragazza presso “una famiglia di sua conoscenza”.
Oggi Raffaella Di Lorenzo è a Roma a Villa Savoia nella casa, della Regina e la Sovrana d'Italia ama spesso intrattenerli con lei a parlare delle cose semplici che le sono tanto care.”


Lo stesso posto ai nostri giorni

martedì 27 febbraio 2018

Un voto contro il caos


di Aldo A. Mola                       
Giornale del Piemonte  25-02-2018



Malgrado l'apparenza e le narrazioni mediatiche, l'Italia è il paese più stabile d'Europa. Numericamente irrilevanti e (per ora) “dimostrativi” ma non “ultimativi”, i  deplorevoli ma  circoscritti “crimini” a sfondo  politico di questi giorni provano che è fallito l'enorme sforzo eterodiretto di dividere gli italiani in fazioni scatenate in zuffe continue. L'ormai noiosa reinvenzione della contrapposizione fascismo-antifascismo (o “resistenza”) mostra la povertà della subcultura estremistica, incapace di vedere i problemi italiani del Terzo Millennio. Benché noto, va ripetuto che  non c'è mai stato “il” fascismo. Tra il 1922 e il 1943 l'Italia fu governata da aggregazioni disparate, con progetti per nulla univoci, nel caos dell'Europa uscita da cinque anni di guerra devastante, squassata da rivoluzioni e movimenti armati. Evocare il “fascismo” quale soggetto politico dell'Italia odierna è irreale e infantile (semmai va ricordato che il suo vero unico argine fu la monarchia con Vittorio Emanuele III). Lo stesso vale della “resistenza” o “guerra partigiana”, che fu coacervo di pulsioni e progetti niente affatto convergenti. L'unico suo elemento unificante fu infine il tricolore indossato obbligatoriamente dal Corpo Volontari della Libertà, comandato del generale Raffaele Cadorna, da ricordare tra i “Sacerdoti di Marte” biografati dallo storico Oreste Bovio nell'ottimo volume edito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. 

Con gesti delittuosi, ripresi ad arte ed enfatizzati dai “media”, qualcuno tenta ora di esibire  all'interno e all'estero il ritratto di un'Italia in preda a convulsioni. Tra una settimana i cittadini diranno quale essa in effetti è. Lo faranno col voto; e anche col probabile 35% di non votanti. Anche questo fa parte della dialettica democratica e dà il polso del paese. Infatti, a parte qualche desolato e isolato “predicatore” dell'astensione (per deluse ambizioni personali), molti italiani non andranno alle urne nella pacata certezza che il treno-Italia continuerà comunque a correre nei binari della ordinaria normalità. L'astensione “all'italiana” non è un squillo di tromba contro le istituzioni ma frutto della pigra fiducia che esse reggono anche sul silenzioso consenso di chi non va ai seggi ma fa la sua parte nella vita quotidiana.
Passato in rassegna il panorama dei partiti e dei movimenti in lizza, una constatazione s'impone: a parte frange ideologiche estreme, tutti dichiarano di voler governare e di cercare adesioni e suffragi “in Aula”, cioè nella sede deputata ad approvare o negare la fiducia al governo. Questa è la realtà di un paese dopotutto tranquillo, di cittadini che chiedono solo di essere amministrati meglio. Pesantemente tartassati da imposte e balzelli, gli italiani si attendono una politica estera decorosa (a proposito: dov'è Alfano?), sicurezza pubblica, servizi all'altezza dei tempi e a costi ragionevoli, l'attuazione del titolo II della Costituzione (rapporti etico-sociali) e dell'articolo 47: lo Stato “incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”, impegno solenne, questo, che oggi suona beffardo, come la tutela della proprietà privata, della libertà di insegnamento e di tanti altri diritti enunciati della Carta.

L'Italia non ha le esasperate divisioni linguistico-religiose del Belgio, né una mina vagante come la pretesa di una parte dei catalani di ergersi a repubblica indipendente. A differenza di Berlino, non sconta il passivo storico dei quarant'anni di regime dispotico-terroristico imposto alla Germania Orientale, a suo tempo detta “Democratica”. L'Italia è un Paese con tante difficoltà ma un retaggio millenario di fondo, grazie al quale in dieci anni realizzò il “miracolo” dell'unificazione (1859-1870) e in altri dieci (1948-1960) quello della ricostruzione.

Lasciati nella polvere i fatui libretti esaltanti il brigantaggio come eroica lotta contro i “carnefici” del Mezzogiorno, per intendere il lento positivo progresso conseguito basta un'occhiata all'Italia del 1948. Appena uscita da una guerra civile che si trascinò molto oltre il maggio 1945 e dopo il cambio della forma dello Stato, essa rimase annichilita dal sanguinoso colpo di stato filo-sovietico a Praga (20-25 febbraio), culminato con l'assassinio di Jan Masaryk. Il 3 aprile venne definitivamente varato il Piano Marshall per la ricostruzione europea (ERP). L'Italia ne trasse enormi benefici nel periodo medio-lungo. Le elezioni del 18-19 aprile 1948 decretarono la clamorosa sconfitta del Fronte popolare (partito comunista di Togliatti, partito socialista di Nenni e frange dell'ex partito d'azione in netto conflitto con Ugo La Malfa e Ferruccio Parri che all'ANPI ormai succuba dei social-comunisti contrappose la FIAP) e la vittoria della Democrazia Cristiana. In Parlamento, però, entrò un centinaio di senatori di diritto (Bencivenga, Croce, Einaudi, Arturo Labriola, Emilio Lussu, Nitti, Orlando, Ruini...), che fecero la differenza. Impedirono a De Gasperi di governare con la sola DC e lo obbligarono a varare l'alleanza “centrista”, a “occidentalizzarsi”. All'inizio dell'anno una vignetta del “Travaso” rappresentò l'Italia con un fantaccino di spalle, armato di un fuciletto a tappo innalzante un tricolore ormai senza scudo sabaudo, minuscolo dinnanzi a due enormi militari ritti su carri armati, con in mano l'atomica e la controatomica. Benché sconfitta, l'Italia già aveva avviato la ripresa. Il 22 marzo il marchese Antonio Meli Lupi di Soragna presentò a Pio XII le credenziali di ambasciatore straordinario e plenipotenziario. Era iniziato un nuovo corso.

Ora il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, rappresentante di un artificioso frammento della storia qual è il Granducato di Lussemburgo, vede fosco il futuro di Italia, Germania e Spagna, paesi a suo avviso politicamente in stallo. Che cosa gli rimane dell'“Europa” del dopo Brexit? Il Benelux? La Francia? Da sola, con un presidente votato dal 20% degli aventi diritto e lacerazioni di gran lunga più profonde ed esplosive di quelle nostrane, Parigi non è un volano ma un problema. Non le basterà la fusione normativa con la Germania in questioni bancarie e fiscali. La Storia è politica estera e armi. 
L'Italia ce la fece e ce la farà con tenacia e senso pratico. Sul Paese incombono fantasmi fanatici. Ne è documento la relazione finale della “Commissione antimafia” che qualcuno vorrebbe elevare a Superpotere, col diritto di epurare le liste dei candidati alle urne e di stabilire quali associazioni siano lecite e quali no (per esempio quelle massoniche e “similari”) sulla base di chissà quali criteri, come avvenne nella Francia giacobina, della “legge sui sospetti” e delle esecuzioni capitali senza processo. Questo è il vero rischio politico incombente. Per fermarlo, comunque, gli italiani hanno a portata di mano la scheda elettorale: risposta pacata ma ferma all'estremismo ideologico dei cattocomunisti che vorrebbero precipitare in una sorta di guerra di religione un Paese che non conobbe eresie perché congenitamente politeista o, se si preferisce, “liberale”. 
Il voto è l'argine contro il caos e il fanatismo.

Aldo A. Mola

Arte orientale: la moda del ‘700 nella raccolta di Tomaso di Savoia

L’allestimento, dal 27 febbraio al Mao di Torino, presenta una selezione della collezione del Castello di Aglié, oggetti acquistati o donati al duca di Genova, durante i suoi viaggi

Pregiate porcellane cinesi, lacche giapponesi, maschere thailandesi e anche un tamburo rituale birmano fra gli oggetti donati dalle diplomazie asiatiche, o acquistati da Tomaso di Savoia, duca di Genova, (1854-1931), durante il suo viaggio in Asia in mostra al Mao, Museo d’Arte Orientale di Torino, dal 27 Febbraio 2018 al 3 Giugno.

La moda europea 
L’allestimento «I tesori esotici del duca. Selezione di opere orientali dal Castello di Aglié», in collaborazione con il Polo Museale del Piemonte, propone in anteprima, al piano nobile di Palazzo Mazzonis, alcune tra le opere più significative della raccolta di manufatti asiatici del secondo duca di Genova, mentre l’intera collezione sarà studiata e restaurata in vista di una futura presentazione museale proprio nel Castello Ducale di Aglié, una delle residenze dei Savoia. Gli oggetti raccolti dal figlio di Ferdinando, fratello minore di Vittorio Emanuele II - che, dopo essersi imbarcato come guardiamarina a soli 17 anni, ebbe una carriera militare fulminea diventando una figura di primo piano nella storia del Regno d’Italia - testimoniano l’apertura dei paesi orientali nei confronti dell’Occidente e, per contro, l’inclinazione per oggetti e arredi asiatici delle mode del Settecento e dell’Ottocento europei.
[...]

lunedì 26 febbraio 2018

Il libro azzurro sul referendum - X cap - 4


Voti annullati e non controllati
L’« Italia Nuova » dell’8 giugno pubblicò: «La Suprema Corte di Cassazione incontrerà difficoltà forse insuperabili per poter accertare l’esatta entità di voti annullati e delle schede bianche inquantochè moltissimi seggi elettorali all’atto dello scrutinio non hanno verbalizzato i dati relativi alle schede non ritenute valide ed hanno anzi addirittura distrutto le schede stesse senza allegarle al verbale dello scrutinio ».
Solo 5 su 22 Corti d’Appello furono in grado di inviare alla Corte di Cassazione i plichi contenenti le schede annullate, cosi che non fu possibile un controllo su scala nazionale del come e perché furono annullati oltre un milione di voti. Molti verbali erano vergati a lapis.

Da testimonianza degna di fede risulta che le prefetture di Cagliari, Sassari, Nuoro trasmisero in cifra i dati della votazioni; tali dati non coincisero colle cifre comunicate dal Ministero dell’Interno.

Ricorso di elettori del Collegio di Roma - Viterbo - Latinia (7 giugno 1946)
A S. E. il Primo Presidente della Corte di Cassazione,
A S. E. il Procuratore Generale della stessa Corte,
I sottoscritti elettori del Collegio di Roma-Viterbo-Latinia segnalano alle LL. EE. la singolarità della proclamazione dei risultati del « referendum » istituzionale fatta dal Ministro dell’Interno, con l’annuncio di una maggioranza repubblicana. I sottoscritti non possono non rilevare che l’art. 2 del D.L.L. 16 marzo 1946 n. 98 richiede per il cambiamento della forma istituzionale dello Stato «la maggioranza degli elettori votanti», compresi quindi nel computo a sensi dell’art. 15 del D.L.L. 23 aprile 1946 n. 219, anche i voti nulli e le schede bianche.
Il Ministro Romita invece ha proclamato una maggioranza risultante dal solo computo dei voti validi, senza tener conto, né dare comunicazione, del numero di tutti gli altri votanti.
I sottoscritti non dubitano che le precise disposizioni di legge riceveranno retta applicazione; e che pertanto realizzandosi questa ipotesi, il presente formale ricorso avrà solo valore di segnalazione.
Con osservanza. Seguono le firme (Data: Roma 7 giugno 1946).

Passo Cattani - Cassandro - Comunicato circa la cosiddetta mozione liberale (7 giugno 1946)
«Il Presidente del Consiglio De Gasperi ha ricevuto stamane al Viminale il Segretario del Partito Liberale Cassandro e il Ministro Cattani. Essi hanno richiamato l’attenzione del Presidente sul fatto che la legge del 16 marzo 1946 n. 98 stabilisce all’art. 2 che «qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della repubblica, l’assemblea, dopo la sua costituzione, come suo primo atto eleggerà il Capo provvisorio dello Stato »....
Essi hanno chiesto che venga accertato se i voti ottenuti dalla repubblica hanno effettivamente raggiunto il numero richiesto dalla Legge.
Il presidente del Consiglio ha dichiarato che la procedura è nelle mani della magistratura, la quale applicherà la legge nella lettera e nello spirito».


Lettera del Presidente dell’U. M. I. al Capo della Commissione Alleata (8 giugno 1946)
Al Contrammiraglio Ellery Stone, Capo della Commissione Alleata di controllo e per conoscenza : agli Ambasciatori delle Potenze alleate in Roma.
Il sottoscritto Tullio Benedetti, già consultore della Consulta d’Italia, ed ora eletto Deputato all’Assemblea Costituente, si rivolge alla Signoria Vostra Illustrissima, e nella sua qualità di Presidente Nazionale dell’Unione medesima, in rappresentanza anche di tutte le altre Associazioni Monarchiche italiane, prega voler prendere in esame la seguente precisa dichiarazione: Risulta all’U.M.I. in modo ineccepibile che nel « referendum » istituzionale sono stati compiuti i più gravi e patenti brogli elettorali onde alterare il suo risultato in favore della Repubblica.
Continuano a pervenire infiniti reclami in tal senso.
Ciò stante, il sottoscritto ha l’onore di chiedere formalmente con la presente, a nome dell’Unione Monarchica Italiana, che le Autorità Alleate procedano ad una immediata verifica delle schede, dei verbali elettorali e dei reclami inoltrati dai cittadini elettori, disponendo la visione di tutto il materiale elettorale accentrato presso la Suprema Corte di Cassazione d’Italia, prima che questa proceda alla proclamazione ufficiale dei risultati.
Il fondamento morale e giuridico della richiesta risiede nell’impegno formale assunto dagli Alleati di assicurare al popolo italiano la perfetta regolarità della consultazione elettorale e in particolar modo di quella riguardante la forma istituzionale dello Stato.
Soltanto il richiesto controllo, e la garanzia da parte degli alleati della regolarità delle operazioni elettorali, potrà porre lo spirito pubblico in condizioni di fare giustizia delle troppe presunzioni di brogli elettorali e renderà possibile una serena, piena e definitiva accettazione dei risultati del «referendum» in conformità all’impegno preso anche dalle organizzazioni monarchiche.
Ciò renderà al tempo stesso tranquillità all’opinione democratica internazionale, nel senso di non essersi resa involontariamente complice di una sopraffazione antidemocratica.


"Latinia" non è una nostra svista né un errore del programma che usiamo per correggere i testi. E' riportato così nel libro e tale lo riportiamo sul blog. E' evidente che c'era confusione tra l'originaria Littoria e la ribattezzata Latina.


domenica 25 febbraio 2018

I violenti e le parole ambigue


Se il fascismo è violenza, illegalità e soppressione delle libertà, la sua antitesi non è l’antifascismo, è la democrazia
di Ernesto Galli della Loggia
[...]

Di fronte ai fatti di violenza di questi giorni la quale pretende essere di sinistra, la domanda da porsi è: quale linea politica, quale parola d’ordine, servono per tracciare rispetto a tale violenza la linea di confine più invalicabile? Quale valore serve a prenderne le distanze nel modo più netto? La parola d’ordine e il valore dell’antifascismo o della democrazia e della legge? Se il fascismo è violenza, illegalità e soppressione delle libertà, ebbene, allora la sua antitesi non è l’antifascismo, è la democrazia. La storia del resto conta pure qualcosa: mentre non è mai esistita una democrazia o un democratico che non fosse antifascista, più e più volte, all’opposto, persone, movimenti e regimi che si identificavano con l’antifascismo hanno mostrato che con la democrazia non avevano molto a che fare. L’antifascismo (insieme alla vittoria degli Alleati) ha dato al nostro Paese la democrazia, e ciò resta a suo merito. Ma oggi dei suoi emuli violenti della venticinquesima ora non c’è alcun bisogno: per guardarsi dai pericoli la democrazia italiana basta a se stessa.



sabato 24 febbraio 2018

Monarchici d'Italia, dove siete?


E' uno scherzo e come tale lo riportiamo, perché non ci manca il senso dell'umorismo.
E poi perché c'è una bellissima foto di Re Vittorio Emanuele III e di Re Umberto, allora Principe di Piemonte.















Come ragazzo sono sempre stato monarchico. Vediamo insieme oggi 

sul Foglio la componente monarchica dei vari partiti quanto vale.
– Partito democratico 4 per cento (dei militanti: la simpatia per la 
Monarchia e spera in un ritorno)
– Forza Italia 15 per cento (forse anche di più)
– Lega 10 per cento
– Fratelloni d’Italia 10 per cento
– 5 stelle 10 per cento
– Rivoluzione democristiana di Rotondi 21 per cento
– Ferrero, Civati, Articolo 1 e compagnia di giro 0 per cento (cioè nessuno 
dei loro militanti ha nostalgia del Re).

[...]



Palazzo Spada, l’uomo del governo è incompatibile


L’esecutivo, pur essendo in ordinaria amministrazione, ha espresso tre nomi per i vertici del Consiglio di Stato. Uno di essi, appartenendo già all’organismo, è in conflitto di interessi. L’unica donna, invece, è stata collaboratrice stretta della Boschi


di SALVATORE SFRECOLA
C’è da essere certi che a Santi Romano o a Meuccio Ruini, giuristi illustri, certo tra più presidenti del Consiglio di Stato, sarebbe corso un brivido lungo la schiena a leggere la richiesta di parere sulle nuove nomine a consigliere di Stato nell’aliquota riservata all’esecutivo, giunta a Palazzo Spada all’inizio di gennaio. Dei tre  candidati, infatti, uno è modesto, un altro è incompatibile. Ed è certo che saranno in forte imbarazzo i  componenti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi, in particolare i togati che parteciperanno oggi alla seduta nella quale su quella richiesta di parere dovranno pronunciarsi. Perché c'è dell’anomalia grave in questa vicenda. Infatti, il governo è in carica per l’ordinaria amministrazione, essendo sciolte le Camere. Ed è la stessa presidenza del Consiglio che, con una circolare del 29 dicembre 2017, nel definire i poteri che residuano a Palazzo Chigi in questa situazione, ha previsto che si possono effettuare nomine solamente «per assicurare la funzionalità di enti e organi». E non è certo il caso del Consiglio di Stato che può benissimo funzionare senza i tre che il governo vorrebbe nominare.
Ma cè di più. I tre sono Carla Ciuffetti, funzionario della Camera, Luigi Fiorentino, dirigente della presidenza del Consiglio, e il professor Pierluigi Mantini. Già parlamentare del Partito democratico, che ha svolto funzioni di vicepresidente del Consiglio di presidenza come componente di elezione parlamentare. Mantini, alla data del 23 dicembre 2017, quando il governo ha deliberato la sua designazione al Consiglio di Stato, era in carica e in quel ruolo è rimasto fino al 3 gennaio 2018, data in cui la richiesta del governo è pervenuta a Palazzo Spada, Escluso Luigi Fiorentino, che ha un curriculum professionale e scientifico certamente adeguato alla nomina, la Ciuffetti è  soprattutto una stretta collaboratrice del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi. E basta. In precedenza, al massimo organo della giustizia amministrativa giungevano dalle Assemblee parlamentari candidati particolarmente titolati. Insomma segretari generali o vice segretari generali, cioè funzionari al vertice della burocrazia di Montecitorio e Palazzo Madama. Per quanto possa essere brava e stimata dalla Boschi, la Ciuffetti è solamente funzionario di medio rango.
Ma la cosa che più desta sconcerto è la proposta di nomina del professor  Mantini per la quale osta un chiaro disposto normativo, l’art. 7, comma 5, della legge 27 aprile 1982, n. 186, sull’ordinamento della giustizia amministrativa, a tenore del quale ai componenti laici del Consiglio di presidenza (quelli eletti da Camera e Senato) «si applica il disposto dell’art. 12 della legge 13 aprile 1988, n. 117». Questo richiama, a sua volta, le disposizioni della legge 24 marzo 1958, n. 195, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in cui all’art. 36 si prevede che «i componenti del Consiglio superiore eletti dal Parlamento non possono essere assunti in magistratura per meriti insigni, fin quando sia in carica il Consiglio al quale appartengono o hanno appartenuto». Non possono, cioè, essere nominati consiglieri di Cassazione e, quindi, in forza del rinvio, neppure consiglieri di Stato, È evidente un conflitto di interessi e una manifesta lesione recata all’indipendenza della giustizia amministrativa. Insomma, Mantini non può essere assunto per nomina governativa al Consiglio di Stato, almeno fino a quando rimarrà in carica  l’attuale Consiglio di presidenza per avervi egli appartenuto fino al 3 gennaio 2018.
Le regole non sono forma ma sostanza, in particolare considerato che parliamo dei massimi giudici degli atti amministrativi del Governo.
Un po’ di garbo istituzionale non guasterebbe.

Io difendo la Monarchia - Cap III - 3


Ma il socialismo, quello delle origini e quello del 1919-1922, non era insorto contro la democrazia? In un opuscolo: Fascismo e democrazia (Roma 1924) di un autore antifascista, S. Merlino, si legge: « La democrazia era morta da un pezzo quando il fascismo venne e la seppellì. Essa non era già più che una larva. Non dobbiamo tacere del contributo che alla decadenza della democrazia portò involontariamente una certa propaganda dei partiti sovversivi contro lo Stato additato all'avversione delle moltitudini come il braccio destro della borghesia, il gendarme messo a guardia della proprietà individuale. Lo Stato era questo, ma era anche altro. Il suo contenuto non è ristretto alla difesa de capitalismo, ma comprende interessi generali di prim’ordine e non soltanto materiali. I socialisti di tutte le scuole batterono furiosamente contro lo Stato e contro la democrazia, specialmente contro il regime parlamentare e rappresentativo denunciandone le deficienze, la corruzione e il tradimento. E non badavano che, fomentando sfiducia e il disgusto per il regime costituzionale favorivano le mene e le mire degli assolutisti che stavano in agguato e attendevano l’occasione per uscire a foraggiare.  Così il fascismo sorse dalla degenerazione della democrazia». Sviluppo fatale, quindi, anche se non benefico.
Sviluppo logico, quindi, di precedenti errori e su di un terreno, come quello italiano, particolarmente negato alla democrazia. Ecco, a conferma di ciò, quel che dice un altro scrittore antifascista: Mario Vinciguerra: «Il fascismo ha potuto sfruttare ampiamente uno di quegli stati di animo diffuso di sfiducia esasperata, da parte della borghesia e di aspettative deluse da parte del proletariato, prima ubbriacato di rivoluzionarismo e poi abbandonato barcollante a uno svolto di strada. Si era giunti a quel tale punto critico nel quale le classi che pesano di più sulla condotta di un paese arrivavano a dire, crollando le spalle, che, tutto sommato, meglio che la turbolenza intermittente e il marasma economico, in cui si era caduti, era ingolfarsi in una rivoluzione dalla quale qualche cosa di nuovo sarebbe venuto fuori. Era naturale che quando si è presentato il fascismo, rivoluzionario bensì, ma già con un programma di rinnovato ordine e rinnovata autorità nessuno — altro che qualche solitario — si è curato di rilevare e preoccuparsi delle contraddizioni fra i detti che passano e gli atti che fanno la storia di oggi e preparano la storia di domani. Il fatto sta che il fascismo ancora esso ha giocato d’azzardo su di un tavolo troppo uso ai giuochi di azzardo. Si parla di rinnovamento a ciascuno di questi movimenti tellurici, che scuotono il nostro terreno politico e ogni volta, ora rivoltati di qua, ora rivoltati di là, sono gli stessi elementi ancora grezzi e caotici, i quali — si dovrebbe vedere da tutti ormai — non sono sufficienti per costituire quell’amalgama che si chiama uno Stato. Il male originario della nostra improvvisata e rafforzata forma vedere da tutti ormai — non sono sufficienti per costituire quell’amalgama che si chiama uno Stato. Il male originario della nostra improvvisata e rafforzata formazione nazionale risale alla superficie di volta in volta più cancrenosa pel fatto stesso che negli anni che sono passati non hanno sollevata di un pollice, anzi hanno abbassata e abbruttita la mentalità, l'educazione politica del nostro paese » (1).
Dunque l'ultima crisi del Ministero Facta prolungata per oltre un mese senza alcuna conclusione (dimostrazione impressionante del dissolvimento parlamentare) stimolava Mussolini ad accelerare i tempi.  Esisteva ormai un governo di fatto, più forte e più attivo di quello legale. Ma ad esso mancava il Mezzogiorno. La penetrazione dei moti politici del Nord nelle provincie del Sud è sempre avvenuta lentamente e con difficoltà. Così fu con il movimento mazziniano, così per la penetrazione del Piemonte tra il 1860 ed il 1870; così ancora con il socialismo, così per il fascismo.
Il fondo del Mezzogiorno è più inerte e, in sostanza, più individualista di quello del Nord: ma la borghesia è più dotata di senso politico, di spirito critico e di senso del diritto. Mussolini sapeva che il Mezzogiorno era monarchico e che egli non poteva sperare di raggiungere il Governo con un atto di forza se non abbandonava la sua antica riserva verso la Monarchia. Il paese voleva l’ordine e la fine dei conflitti sociali, voleva la rivendicazione della vittoria e la difesa degli interessi nazionali, ma appunto, per questo non poteva accettare una crisi istituzionale provocata da Mussolini. Egli comprese e preparò la sua falsa conversione con il discorso di Udine: (20 settembre) poi annunciò che a Napoli avrebbe precisato ancora meglio la posizione del fascismo verso la Monarchia.
Il 13 agosto a Milano Michele Bianchi aveva già enunciato con chiarezza il programma del partito per l'immediato futuro. «O il fascismo potrà permeare legalmente della sua linfa vitale lo Stato o esso prenderà il potere con la forza». Si cominciava così a parlare della «marcia su Roma» e si costituiva per iniziativa di Balbo un consiglio militare delle squadre presso la Direzione del Partito. In seguito Balbo divenuto Maresciallo Ministro e Governatore sarà uno degli elementi più frondisti del Partito : contrario al razzismo, contrario all’Asse e contrario alla guerra. Nel 1920-1922 era stato però l'elemento più estremista. Era stato contrario alla pacificazione con i socialisti e aveva capeggiato il movimento squadrista con il netto proposito di costituire un esercito volontario per la conquista dello Stato.
A Udine il 20 settembre Mussolini fece il gran gesto per guadagnare le simpatie del Mezzogiorno e per non
trovare sui suoi passi l’Esercito nel momento decisivo. Egli disse : «Credo si possa rinnovare il regime lasciando la Monarchia. In caso contrario gran parte dell’Italia non ci seguirebbe. E poi avremmo dei casi di separatismo regionale». Conclusione: «Dobbiamo avere il coraggio di essere monarchici». Si vede dal tenore di queste dichiarazioni che egli faceva un grande sacrificio. Roma valeva più di una abiura e più di una messa.
È un discorso interessante quello di Udine perché il romagnolo anche fingendo, per opportunismo, aveva scatti preoccupanti di sincerità. A un certo punto nelparlare di Roma e della democrazia romana ha un curioso inciso. Da Roma — egli dice — «dove si stampano troppi giornali, molti dei quali non rappresentano nessuno o niente». E pensare che nella grande maggioranza furono favorevoli alla «marcia su Roma». E in un altro punto: «l’Inghilterra a mio avviso dimostra di nonavere più una classe politica all’altezza della situazione.
Infatti voi vedete che fin qui, da quindici anni, un solo uomo impersonò la politica inglese. Non è stato ancora possibile di sostituirlo. Lloyd George che a detta di coloro che lo conoscono intimamente è un mediocre avvocato, rappresenta la politica dell’Impero da tre lustri. L’Inghilterra, anche in questa occasione, rivela la mentalità mercantile di un impero che vive sulle sue renditee che abborre da qualsiasi sforzo che sia suo proprio, che gli costi del sangue».
Dove si vede che Mussolini non era un genio nel 1922 e un povero uomo frusto e stanco nel 1939, ma era demagogo, rozzo, inesperto ed incolto nel 1922, come nel 1935, come nel 1940. Non sarebbe bastato un simile giudizio sul mondo inglese (giudizio rimasto in lui invariato, nonostante il lungo periodo di governo, e che lo ha portato a considerare finita la guerra dopo la sconfitta francese nel 1940 e a precipitare nella lotta l’Italia per non perdere la sua parte di bottino), per impedirgli di assumere un mese dopo il governo dello Stato?
E infine ecco quel che disse sul tema della Monarchia: egli ricordò le polemiche sulla sua tendenzialità repubblicana che erano appena di un anno prima e disse che avevano la loro ragione d’essere e rispondevano a un determinato e meditato pensiero. E poi si domandava: «è possibile una profonda trasformazione del nostro regime politico senza toccare l’istituto monarchico?... ».
«Il nostro atteggiamento di fronte alle istituzioni politiche non è impegnativo in nessun senso... (una voce grida: Viva Mazzini!)... ora io penso che si possa rinnovare profondamente il regime lasciando da parte la istituzione monarchica. Noi dunque lasceremo in disparte, fuori dal nostro giuoco che avrà altri bersagli, l’istituto monarchico anche perché pensiamo che gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto. Avremmo forse del separatismo regionale perché succede sempre così... In fondo io penso che la Monarchia non ha alcun interesse a osteggiare quella che ormai bisogna chiamare rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse perché se lo facesse diventerebbe subito bersaglio e se diventasse bersaglio è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita e di morte... Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile » (2).
Vale la pena di esaminare questo discorso perché esso torna attuale quando Mussolini fonda, dopo 21 anno,
con l'aiuto dell'odiato tedesco la repubblica sociale italiana. Si vede che il romagnolo compie un grande sacrificio  perché, probabilmente, dopo avere sperato di divenire il capo dello Stato, si accorge che avrebbe incontrato
l’ostacolo dell'Esercito e del Mezzogiorno. Decide allora di cominciare a ricattare la Monarchia. O il Re darà il potere al fascismo o diventerà bersaglio del fascismo. Noi fascisti siamo e rimaniamo repubblicani, ma non bisogna  mettere tutto in giuoco in un solo istante. Lasciamo per ora fuori del nostro giuoco la Monarchia. Ecco la chiara anticipazione di quella funesta diarchia che il romagnolo confesserà di avere attuato per ben ventuno anno nel suo libro: Storia di un anno. 


(1) M. Vinciguerra: Il fascismo, Torino, 1923, pag. 6.
(2)  Benito Mussolini: I discorsi della rivoluzione. Edizioni Alpes, Milano 1929

mercoledì 21 febbraio 2018

Fascismo, vietato vietare





Alla cara presidentessa della Camera che grida contro le organizzazioni neofasciste (da sciogliere immediatamente) e fa risalire alla Costituzione tale dovere e parla di Repubblica nata dall'antifascismo, vorrei ricordare alcune cosette.
La Repubblica Italiana nasce il 2 giugno 1946 a seguito di un referendum istituzionale, che avrebbe anche potuto concludersi con una scelta a favore dei Savoia (sostenuti dagli Inglesi, notoriamente filomonarchici). Così non fu, ma per pochi voti. La scelta repubblicana fu maggioritaria, ma non di molto e – secondo il parere di molti storici accreditati – un buon numero di ex-repubblichini e dei loro familiari, in odio a Badoglio e a “Vittorietto”, colpevoli di aver tradito Mussolini, votarono contro la Monarchia.
Per chi non lo sapesse, nelle scuole e negli edifici pubblici, durante la Repubblica Sociale Italiana, il ritratti dei sovrani (Vittorio Emanuele III e della Regina Elena) furono bruciati, distrutti, calpestati e sostituiti da un ritratto dell’incolpevole Giuseppe Mazzini.
La “repubblica antifascista” nacque dunque con il concorso, se non determinante, molto incisivo degli ex-fascisti. Se infatti la Repubblica avesse vinto con un minimo scarto, le cose si sarebbero parecchio complicate.
Basterebbe ricordare che a Napoli vi fu una grande protesta contro i risultati elettorali (ritenuti “taroccati) e che in via Medina la polizia sparò contro i monarchici, causando morti e feriti.
Circa la nostra Costituzione, il divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista è contenuto non nel testo vero e proprio della carta fondamentale, ma in una disposizione transitoria, così come lo era il divieto (poi abrogato) per i discendenti di Casa Savoia di rientrare in Italia.
Transitoria al punto che, per gli ex capi del fascismo, un’altra disposizione  prevedeva che gli ex capi fascisti non avrebbero potuto candidarsi per cinque anni, dopo i quali ogni divieto sarebbe venuto a cessare. Tant'è vero che numerosi ex gerarchi furono eletti nelle liste del MSI, partito di cui il vecchio PCI non propose mai lo scioglimento, perché i vecchi capi comunisti avevano un’intelligenza politica e una perspicacia sconosciute alla Boldrini e capivano che era meglio avere una forza “parlamentarizzata”, conosciuta e controllabile che non una miriade di associazioni illegali, pericolose e difficili da contrastare. Non a caso,infatti, il PCI votò contro la cosiddetta “legge Scelba”.
Salvina Bassi


I nostri complimenti alla Signora Bassi, che con rara capacità di sintesi ha riportato fatti del tutto dimenticati e ragionamenti che condividiamo in toto.

martedì 20 febbraio 2018

Torino, 21 Febbraio


9 maggio 1946: Umberto di Savoia da Luogotenente a Re D’Italia



Testo della conferenza del 4 Febbraio 2018 per il Circolo Rex
di Domenico Giglio


EPILOGO
In queste ore infatti si decide se e come reagire alla decisione del Governo presa alle 2 di notte, con il voto unanime del Consiglio dei Ministri eccettuato il voto del liberale Leone Cattani Ministro dei Lavori Pubblici, e l’astensione di De Courten ministro della Marina che si riteneva ministro tecnico.-Si scontrano nuovamente i fautori di una risposta forte che già il Re in precedenza aveva respinto perché avrebbe portato fatalmente alla guerra civile che per il Sovrano e lo era stato anche per il Padre in occasione di determinate decisioni ( firma cosiddette leggi razziali ed entrata in guerra nel 1940 che ora ipocritamente gli vengono rinfacciate ) significava un trono macchiato di sangue e la rottura dell’unità nazionale che era stata raggiunta proprio con e grazie alla Casa Savoia. A queste considerazioni storico-politiche si aggiungeva la profonda fede religiosa di Umberto alieno dalla violenza ed il suo senso di responsabilità ed umanità perché fossero evitati nuovi morti.
Le quattro alternative erano le seguenti: dimettere il Ministero ribelle e nominarne uno nuovo; tacere ed andare avanti come se nulla fosse accaduto; rimanere-protestando; protestare e partire. Il Re respinse subito i primi due mentre ci si soffermò sul terzo, in quanto alcuni consiglieri ritenevano-che il Re con la sua sola presenza in Roma poteva esercitare una influenza morale sulla Corte di Cassazione essere cioè l’unica vera forza per coloro che intendevano rispettare la legge. Anche questa ipotesi fu però scartata per cui rimase l’ultima e fu questa che il Re scelse. Si apriva però il problema di una legittima protesta e quindi della stesura del proclama che partendo, Umberto II avrebbe-indirizzato alla nazione. Proclama alto e preciso nella rivendicazione dei diritti calpestati ma netto altrettanto nell’invito ai monarchici di astenersi da qualsiasi atto di rivolta verso le nuove istituzioni.
I consiglieri del Re in questa ultima mattina furono come già in precedenza il giurista Carlo Scialoia il senatore Alberto Bergamini ed i politici Enzo Selvaggi e Roberto Lucifero che insieme con Bergamini erano stati eletti alla Costituente nel già citato Blocco della Libertà e, logicamente il Ministro della Real Casa. I “politici” erano per una risposta forte e fino all’ultimo pregavano il Re, “Maestà non parta” ma tenuto conto della volontà del Sovrano addivennero alla stesura di quel messaggio agli italiani dove dopo una prima bozza in cui si definiva l’atto del Governo come un “colpo di stato” si affermava egualmente chiaro e forte che si era trattato di “un gesto rivoluzionario unilaterale ed arbitrario”, che aveva posto il Re nella alternativa da Lui rifiutata “di provocare spargimento di sangue”. Così Umberto II compiva con la partenza per l’esilio un “sacrificio nel supremo interesse della Patria” ma elevava al tempo stesso una ferma protesta contro la violenza perpetrata. Ma a questa protesta il Re faceva seguire coerente con la nobiltà del suo atteggiamento tenuto dal 5 giugno del 1944 un invito ai monarchici di continuare ad operare per il bene della nazione sciogliendo infine quanti lo avevano prestato dal giuramento di fedeltà al Re, ma non alla Patria.
Così alle ore 16,09 del 13 giugno il velivolo “S.M.95”, ovvero un “Savoia Marchetti”, con a bordo Umberto II si levava in volo dall’aeroporto di Ciampino, e contemporaneamente veniva ammainata la bandiera tricolore con scudo sabaudo e corona reale dalla Torre del Quirinale.

CONSIDERAZIONI FINALI
Solo oggi dopo 72 anni si può capire e constatare che ammainando quella bandiera che era quella del Risorgimento e della Unità Nazionale non si ammainava un pezzo di stoffa ma un insieme di valori dalla fedeltà, all’ onore all’ amor di Patria alla lealtà al senso del servizio verso lo Stato ed il Sovrano, allo spirito unitario e nazionale, che avevano accompagnato prima l’ascesa dell’Italia ed allora anche dopo lutti e dolori della guerra già ne stavano accompagnando la ripresa della quale aveva posto le basi il vecchio Re ed ora stava proseguendo il nuovo Sovrano, come tardivamente ed in molti casi ipocritamente riconobbero anche gli avversari.

DOMENICO GIGLIO


Appendice:







BIBLIOGRAFIA:

1) Italicus (Ezio Saini) - “Storia segreta di un mese di Regno” - edizioni “Sestante” - Roma - 1947
2) Falcone Lucifero - “L’ultimo Re - Diari del Ministro della Real Casa 1944 - 1946” - Edizioni Mondadori - “le Scie” - ottobre 2002
3) Vittorio Prunas Tola e Niccolò Rodolico - “Libro azzurro sul referendum” -editrice Superga - 1963
4) Ludovico Incisa di Camerana - “L’ultimo Re - Umberto II di Savoia e l’Italia della Luogotenenza” - edizioni Garzanti - Milano 2016
5) Gianni Oliva - “ Umberto II. L’ultimo Re “ - edizioni Mondadori - Milano 2000
6) Aldo A.Mola - “ Declino e crollo della Monarchia in Italia “ edizioni Mondadori - “le Scie” - 2006
7) Giovanni Artieri - “Cronaca del Regno d’Italia“ - volume II - edizioni Mondadori - Milano 1978
8) Giovanni Artieri - “Il Re“ – edizioni del “Borghese” - Milano 1959 (il libro a cura di P. Cacace e F. Perfetti è stato ripubblicato con il titolo “Umberto II - il Re Gentiluomo - Colloqui sulla fine della Monarchia - edizioni “le Lettere“ - Firenze 2002)
9) Giovanni Semerano e Camillo Zuccoli - “Dalla parte del Re - 1946 la verità sul Referendum” - edizioni “Monarchia Nuova” - Roma 1996
10) Franco Malnati - “La grande frode “ - edizioni Bastogi – 1997
11) Paolo Monelli - “Il giorno del Referendum“ - edizioni “Le lettere“ - Firenze 2007
12) Luigi Barzini - “La verità sul referendum “ - edizioni “Le lettere“ - Firenze 2005
13) Aldo A. Mola - “Storia della Monarchia in Italia“ - edizioni Bompiani – 2002
14) Aldo A. Mola - “Il referendum Monarchia - Repubblica del 2-3 giugno 1946 - Come andò davvero “edizioni Bastogi - 2016
15) Domenico Fisichella - “Dittatura e Monarchia – L’Italia tra le due guerre “- edizioni Carocci - Roma 2014
16) Falcone Lucifero - “Il Re dall’esilio“ - edizioni Mursia - Milano-1978
17) Fernando Etnasi - “Repubblica o Monarchia“ – edizioni Dies – 1966
18) Carlo Richelmy – “Cinque Re “ - editrice Gherardo Casini – 1952
19) Francesco Cognasso - “I Savoia” – editrice Corbaccio – Milano 1999
20) Alfredo De Donno - “I Re d’Italia- vita pubblica e privata dei Savoia-Carignano -1831-1946“. Edizioni Panella - Roma 1971
21) Oreste Genta - “S.M.Umberto II nei due anni di Regno“ - conferenza tenuta al Circolo REX il 21-1-1990 - editore INGORTP-
22) Luciano Regolo - “Il Re Signore” - editrice Simonelli -1998
23) Vincenzo Staltari - “Umberto II”- editrice Istituto Teano - 2003
24) Franco Garofalo - “Un anno al Quirinale“ - editrice Garzanti
25) Enrica Rodolo - “I Savoia” - editrice Piemme - 1998
26) Silvio Bertoldi - “Savoia - Album dei Re d’Italia“ - editrice Rizzoli - 1996
27) Aldo A. Mola - “Umberto II di Savoia“ - editrice Giunti - 1996