NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 29 novembre 2018

Un ricordo della Regina Elena, a sessantasei anni dalla sua morte


 di Emilio Del Bel Belluz

Sono passati sessantasei anni dalla morte della Regina Elena. Era il 28 novembre del 1952, la sovrana moriva a Montpellier in Francia, dove si trovava dalla morte dell’amato marito, Vittorio Emanuele III. Il dolore di quella morte accomunò tante persone, sia in Italia sia in Francia, perché veniva a mancare una donna di grande bontà che era nata per aiutare gli altri. La regina Elena era stata mandata sulla terra dal buon Dio per essere vicina ai poveri, ai bisognosi e la sua vita era diventata una missione. La prima volta che sentii parlare del suo buon cuore, fu da alcune donne di Rivarotta, il mio amato paese in provincia di Pordenone. Queste anziane signore, in gioventù, erano state a prestare servizio presso delle famiglie benestanti in Francia. Una di esse mi raccontò che la sovrana era molto umile e s’intratteneva volentieri a conversare con loro, che erano delle povere domestiche. Quand’era in Francia si prodigava per chi abbisognava di una parola e di un aiuto economico. La Regina degli umili si recava personalmente a portare conforto a quelli che le erano segnalati. Si può definire una donna coraggiosa, piena di forza nel momento in cui vedeva il bisogno. Si relazionava con gli umili, come se fossero dei nobili. Per la buona regina non c’erano distinzioni, perché chi nasce con il cuore buono non può agire diversamente. In questi giorni pensavo con rammarico che nessun regista ha mai dedicato un film alla Regina Elena di Montenegro. Allo stesso tempo, in questi anni in cui si ricorda la Grande Guerra, non si è dedicato molto spazio a questa donna che aiutò come crocerossina i soldati feriti, quei nostri giovani che avevano dato un grande esempio al Paese con il loro sacrificio. Sono passati sessantasei anni dalla sua morte, la Regina fino all’ultimo aveva sperato di poter morire in Italia, vicino al popolo che aveva amato. Non accettò l’esilio, lei che dovette prima riparare in Egitto e poi in Francia. Il Re Umberto II dichiarò: “ Mia madre desiderava intensamente di rientrare in Italia almeno per morirvi. M’addolora maggiormente la sua scomparsa, perché questo desiderio non è stato esaudito …” Queste le amare parole dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II. Anche lui aveva desiderato, negli ultimi mesi della sua vita, di morire nel suo Paese, ma non fu accontentato. I parlamentari italiani, eccetto rare eccezioni, si rifiutarono di donargli almeno la speranza che questo desiderio sarebbe stato accolto. E’ stata pura arroganza il non voler premiare un uomo che non aveva mai interferito nella politica italiana. Una persona che aveva sempre sperato il bene del Paese. La madre di Umberto si era dimostrata una figura di donna dedita alla famiglia e ai figli. Madre esemplare cui il destino non aveva risparmiato davvero nulla. Si pensi alla fine dell’amata figlia, Mafalda di Savoia, morta in un campo di concentramento. La Regina Elena non aveva potuto portarle nemmeno un fiore sulla tomba. La vita di Elena fu un esempio per molte mamme italiane. C’è un fatto che mi piace ricordare per comprendere come fosse il cuore di questa nobile. Il 14 marzo 1912, l’anarchico Antonio D’Alba cercò di uccidere la Regina Elena e il suo consorte, che in carrozza stavano recandosi al Pantheon per una Santa Messa in suffragio del Re Umberto I. Nel momento drammatico la Regina Elena aveva fatto scudo con il suo corpo al marito, con un coraggio davvero unico. Il buon Dio volle che l’attentato fallisse e ci fu l’arresto del colpevole. La Regina coraggiosa si recò più tardi dalla mamma dell’attentatore incarcerato, portandole viveri e denaro. Aveva saputo che la famiglia era in difficoltà economiche e bastò quello per annullare ogni barriera provocata dal male che il figlio della donna aveva tentato di fare. Il perdono della Regina fu immediato. Trovai questa notizia scritta in alcune pagine del mensile, Portavoce di San Leopoldo Mandic’, da Ubaldo Badan. Nel titolo dell’articolo si diceva: “ L’augusta Regina e il fratino santo. La singolare vicenda di due oriundi montenegrini la Regina Elena di Savoia e padre Leopoldo. Con ruoli e compiti alquanto diversi, entrambi trascorsero gran parte della loro vita in Italia”. Si faceva un paragone tra questi due personaggi, che avevano avuto lo stesso destino, perché oriundi del Montenegro, si erano stabiliti in Italia. Naturalmente con ruoli diversi, ma con lo stesso cuore, che era quello di essere d’aiuto a chi soffre. San Leopoldo lo faceva come confessore nel convento, dove viveva, avendo una porta aperta per tutti quelli che stavano nel dolore e nel peccato. La Regina Elena non si stancava mai nel soccorrere i bisognosi. Ancora Badan scrive: “ Nel 1908 Reggio Calabria e Messina furono colpiti da un disastroso terremoto e maremoto. La Regina Elena si dedicò subito ai soccorsi. Durante la Prima Guerra mondiale fece l’infermiera e con l’aiuto della regina madre trasformò in ospedali il Quirinale e Villa Margherita. Per la sua grande fede e le attività benefiche da lei sostenute, Pio XI le conferì la più alta onorificenza prevista a quei tempi per una donna, la “ Rosa d’oro della Cristianità”. Nel 2002, nel 50° anniversario della sua morte, il vescovo di Montpellier diede ufficialmente inizio alla causa di canonizzazione. Nel dicembre 2017, le spoglie di Elena sono rientrate in gran segreto in Italia nel santuario di Vicoforte vicino a Mondovì (Cn) “. Non credo che padre Leopoldo si sia mai visto con la Regina, ma sono certo che condivideva il suo modo di amare i più deboli. Se si fossero incontrati, sarebbe stato bello e significativo. Due anime grandi e piene d’amore quando s’incontrano nel nome di Cristo, Lui è presente tra loro. Il 28 novembre 2018, cade l’anniversario della sua scomparsa, la Regina come ho già detto riposa in Italia, quella terra che l’ha accolta troppo tardi. Spero che nel santuario di Vicoforte, dove è sepolta accanto al marito, la si ricordi con una messa. Osservando quelle due tombe austere, prive di simboli religiosi, mi sarebbe piaciuto porvi davanti una statua della Madonna, sapendo che la Regina era molto devota alla Vergine Maria. Una cosa sicuramente farò, reciterò, come faccio ogni giorno, la preghiera per la Beatificazione e spero che altri mi imitino. Trovai scritto un episodio in cui si racconta di una bambina che fu assassinata a Roma. La buona Regina fu talmente presa da questa vicenda che fece seppellire la piccola al cimitero del Verano a Roma. “ Quando a Roma una bambina fu vittima di un assassinio, la regina fece collocare, nel cimitero di Verano a Roma una lastra di marmo sulla tomba della piccola, su di essa spiccava un gruppo di gigli a lunghi steli, sullo stesso bassorilievo era raffigurata una serpe che con un morso troncava un giglio, ripiegato su se stesso. In alto, Maria Santissima con Gesù Bambino fra le braccia, era pronta ad accogliere la vita spezzata. Il padre della bimba, un rivoluzionario, rimase turbato e dall’immagine e dall’epigrafe: “ Qui dove giace / Rosina Pelli / vittima inespiabile/di nefanda barbarie / il pianto perpetuo del popolo/ lavi l’orrendo oltraggio / gigli e rose ricordino /l’innocente anima ascesa al regno degli angeli. Elena di Savoia Regina d’Italia Q.M.P. Un simile episodio conferma ancora una volta che la Regina può essere considerata la madre dei sofferenti.


PREGHIERA  PER LA BEATIFICAZIONE
composta da S.E. mons. Louis Boffet

Seguendo Gesù Cristo
Amico e Servitore dei poveri,
Ella non ha cessato di crescere
in carità e in santità.
Noi ti domandiamo di coronare
i Suoi meriti
nella gloria del Tuo cielo.
E Tu, Serva di Dio,
intercedi per noi.
Veglia sui nostri figli
e sulle nostre Patrie.
Ottienici, sul Tuo esempio,
la generosità nella prova
e la prontezza nel servizio per gli altri:
vera espressione della carità di Cristo.
E Tu, che hai vissuto intensamente
la lacerazione tra i cristiani,
pacifica gli spiriti,
placa i rancori
e che la Pace infine rifiorisca.
Signore, noi Te lo chiediamo
per Gesù Cristo
che regna nei secoli dei secoli.
Amen.


Autore: Cristina Siccardi

martedì 27 novembre 2018

I Monarchici e il problema dell'Alto Adige - II parte


II valore giuridico dell’accordo De Gasperi Gruber 

Dal  quaderno edito nel  1958  dal  Movimento Giovanile del Partito Nazionale  Monarchico

dell'on. prof. Giuseppe Menotti de Francesco

In un intervento in Parlamento ho creduto doveroso procedere ad un esame obiettivo sulla natura giuridica dell’accordo De Gasperi-Gruber, esame eh» consenta di giudicare sulla sua validità ed efficacia. Tale accordo è certamente un atto rilevante nel diritto internazionale; ma non può dirsi che esso sia un atto creativo di
diritti e obblighi reciproci fra le parti; che, cioè, sia un atto normativo di diritto internazionale, un trattato vero e proprio, impegnativo fra le parti.
Ecco brevemente riassunte le ragioni. L’accordo va considerato sotto un duplice aspetto: dal punto di vista dei rapporti fra l’Italia e l’Austria e dal punto di vista dai rapporti fra l’Italia e gli Stati firmatari del trattato di pace con l’Italia.
Sotto il primo aspetto, quello dei rapporti fra l’Italia e l’Austria, l’accordo va esaminato dal lato delle sue caratteristiche formali e dal lato del suo specifico contenuto. Muovendo dal lato formale è da rilevare che, quando un accordo internazionale sia diretto alla posizione di diritti e di obblighi veri e propri, abbia cioè una funzione normativa, l’organo, cui il diritto internazionale assegna la competenza a manifestare la volontà dello Stato, è il Capo dello Stato e non il ministro degli esteri. Un accordo, come quello intervenuto fra De Gasperi e Grubes) in veste di ministri degli esteri dei due Stati, è quindi invalido come atto creativo di diritti e di doveri reciproci fra l’Italia e l’Austria. Si tratta di uno di quegli atti che si denominano usualmente come «gentlemen’s agreement », vale a dire, in sostanza, di un’intesa ad una data linea politica assunto dai governi stessi circa la soluzione del problema di cui trattasi, soluzione che comunque resta di competenza esclusivamente interna degli Stati.
Naturalmente, data la natura degli accordi del genere, essi implicano una concordanza di vedute e il mantenimento di uno spirito amichevole nei rapporti fra i due Stati in ordine alla questione regolata. Consegue che sia l’efficacia, sia la durata di quel tipo di accordi sono condizionate alla permanenza di quelle vedute, di quel medesimo spirito amichevole che li ha ispirati e che deve essere necessariamente bilaterale. Se, ad un certo momento, uno dei due stati dimentica di informare la sua condotta a questo spirito amichevole iniziale, l’altro ha, non solo il diritto, ma il dovere dichiarare decaduto l’accordo.
Rimane il secondo punto di vista, quello cioè dei rapporti fra la l’Italia e gli Stati firmatari del trattato di pace italiano, giacché, come è risaputo, l’accordo De Gasperi-Gruber è richiamato nell’articolo 10 del trattato di pace, e quindi un esame superficiale potrebbe portare a ritenere che l’accordo in oggetto, invalido come trattato normativo nei rapporti diretti fra l’Italia e l’Austria, sia divenuto tale nei confronti degli Stati vincitori, e l’invalidità sia stata sanata dalla maledetta ratifica della Costituente, almeno nei confronti degli Stati vincitori. Senonchè, la formula dell’art. 10 del trattato di eclude decisamente ogni possibile dubbio sulla portata giudica dell’accordo, e anzi essa costituisce una riconferma che quell’accordo non è un atto creativo di diritti e di obblighi internazionali.
L’art. 10, infatti, ha due commi. Il primo impegna direttamente impegna l’Italia verso l’Austria a concedere libertà di circolazione per le persone e le merci: « l’Italia — dice il primo comma — concluderà con l’Austria, ovvero confermerà gli accordi esistenti intesi a garantire il libero traffico di passeggeri e merci fra il Tirolo settentrionale e il Tirolo orientale». Obbligo, dunque, per l’Italia contiene  questo comma; obbligo verso gli Stati vincitori, che fa nascere un diritto correlativo a favore degli Stati medesimi e, mediante, un diritto a favore dell’Austria, garantito dalle potenze vincitrici.


Ben diversa è la formula del secondo comma dello stesso articolo. Le potenze alleate ed associate hanno preso atto delle intese (il cui testo è portato nell’allegato IV) prese di comune accordo fra il governo austriaco e il governo italiano il 5-9-1946 ».
Le potenze alleate ed associate, in merito all’accordo De Gasperi Gruber. hanno, dunque, solamente preso atto dell’accordo, non ne hanno recepito il contenuto nel trattato di pace; non hanno detto che l’Italia osserverà le clausole dell’accordo, facendogliene un obbligo, ma unicamente che ne hanno preso conoscenza vale a dire hanno lasciato all’accordo il suo carattere giuridico di atto non normativo, di accordo fra governi, non fra Stati, mentre nel primo comma, è l’Italia, cioè lo Stato italiano che si impegna a concludere con l’Austria o a confermare i trattati: che garantiscono libertà di circolazione, e a concluderli o confermarli con atti internazionali nei quali è il Capo dello Stato l’organo chiamato ad esprimere la volontà, nel secondo comma si riconosce che si tratta di un atto dei governi delle due parti, e quindi la validità ed efficacia dell’atto restano quelle proprie degli atti internazionali compiuti dai ministri degli esteri e non dei capi di Stato, e le potenze alleate ed associate, nel prendere atto puramente e semplicemente dell’accordo, non ne mutano la natura giuridica, nè ne garantiscono l’osservanza come farebbero se anche il secondo comma dell’art. 10 del trattato fosse stato redatto nei termini del primo comma; vale a dire non hanno inteso, in relazione all’oggetto, costituire un obbligo allo Stato italiano come quello relativo alla libertà di circolazione di persone e di merci, di cui al primo comma.
Dunque, l'esame giuridico strettamente obiettivo dell’accordo, sia dall’aspetto formale come dall’aspetto sostanziale, avuto riguardo tanto ai rapporti diretti con l’Austria come a quelli con le potenze alleate ed associate firmatarie del nostro trattato di pace, porta a concludere che l’Italia è in condizione, di fronte all’altrui atteggiamento e alle pretese altrui, di potersi legittimamente sganciare dagli accordi del 5 Settembre 1946. Il governo italiano ha nelle mani un mezzo giuridico sicuro ed efficace per ammonire i governanti austriaci e gli agitatori altoatesini che, se si continua sulla via della provocazione e del tradimento, l’Italia saprà reagire adeguatamente come è suo diritto e dovere.

lunedì 26 novembre 2018

Il libro azzurro sul referendum - XIII cap - 2


REAZIONI ALLA COMUNICAZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La comunicazione della Corte di Cassazione si è limitata ai risultati secondo quanto attestano i verbali :
Le riserve sono relative :
1) mancano 118 sezioni;
2) dovranno essere decisi reclami, proteste, contestazioni;
3) resta da indicare il numero complessivo degli elettori votanti;
4) e dei voti nulli.

A) REAZIONI GIURIDICHE.
Gli On. Orlando, Nitti, Bonomi giudicano: « Dal punto di vista giuridico il Re è sempre Re ».
L’On. Avv. Meuccio Ruini Presidente del Consiglio di Stato:
« Questa dichiarazione della Corte non serve a niente, non può dare
certo gli effetti voluti dalla legge ».

B) REAZIONI GIORNALISTICHE DA ROMA A LONDRA.

« Il Tempo » di Roma : « Una franca riserva dobbiamo formulare, ritenendo che sarebbe stato assai più utile nel pubblico interesse che la Corte si rifiutasse di partecipare alla parata di ieri, piccola e dannosa parata, che ha accresciuto la confusione politica, già esasperatamente diffusa nel Paese ».

« La Voce Repubblicana » pubblica il seguente commento del Segretario del P.R.I. (13 giugno 1946) : « Riconosciamo che i giudici della Cassazione hanno annunciato i risultati con voce burocratica e dimessa, quasi per domandare perdono al loro antico padrone. Riconosciamo che la formula finale annunciante il rinvio dell’same delle contestazioni era volutamente equivoca. Riconosciamo che i giudici della Cassazione avevano scritta in fronte la loro fedeltà... alla Monarchia. Se ne dovrà tener conto per i provvedimenti che la Repubblica dovrà prendere per le sue difese ».

Il « Times » di Londra : « Il Governo italiano si è cacciato con le sue mani in una situazione imbarazzante. Esso deve essere biasimato per l’affrettata proclamazione».

Il « Manchester Guardian » di Londra : « Si dice che Stone abbia espresso la sua personale opinione che l'annuncio della Suprema Corte è indefinito, la stessa osservazione è attribuita all’ambasciatore inglese a Roma Sir Noel Charles ».

C) REAZIONE DELL’AMMIRAGLIO STONE.

« L’opinione pubblica dei Paesi Anglosassoni vedrebbe di cattivo occhio quelle delle due parti in contesa che facesse ricorso alla forza. L’accuserebbero di incapacità di accettare con spirito democratico l’esito della controversia.

D) L’ON. SARAGAT PARLA DA RADIO ROMA.
L'On. Saragat parla come se tutto fosse compiuto e la repubblica fosse viva e vitale.

domenica 25 novembre 2018

Io difendo la Monarchia - Cap VI - 2


Infine in altri due giornali liberali settimanali La città libera (30 agosto 1945), e L’Opinione (2 settembre 1945), è apparso a firma di Panfilo Gentile e di 58 soci e socie del partito liberale il seguente monito :
«Carissimi amici, ci spinge a rivolgervi questo appello la preoccupazione che il Partito Liberale sta indubbiamente attraversando un momento estremamente critico — forse al pari degli altri Partiti ed il desiderio di contribuire a che esso esca al più presto da tale stato increscioso con precise risoluzioni. È evidente che la situazione politica italiana si è venuta aggravando e complicando dopo l’avvento del Governo Parri, il quale, rispetto ai precedenti Gabinetti Bonomi, ha notevolmente alterato le basi sulle quali, alle origini, era stato costituito il patto dell’esarchia.
È noto che quando, a suo tempo, i Partiti della resistenza e della lotta contro il nazi-fascismo assumevano, come era loro diritto e loro dovere, la gestione provvisoria del Governo, s’impegnavano reciprocamente, a non risolvere e a non pregiudicare nessuno dei problemi istituzionali e di struttura economico-sociale — la cui decisione spetta unicamente al Paese e ad una sua libera consultazione — e s’impegnavano altresì a limitare la loro attività di Governo unicamente alla tutela dell'ordine pubblico e ai provvedimenti di congiuntura di immediato interesse. Ed è altrettanto noto che i Gabinetti Bonomi, nonostante la buona volontà del loro Capo, erano già venuti meno, in una certa misura, a tali impegni non rispettando scrupolosamente, né la tregua, né l’imparzialità, né i limiti dei propri poteri.

Se non che in seguito alla caduta del Gabinetto Bonomi si abbandonava apertamente la base Iniziale, si affermava che con la liberazione dell’Italia del Nord il potere dovesse spettare prevalentemente agli elementi partigiani e sovversivi, i quali si arrogavano una specie di investitura privilegiata alla successione dello scomparso regime fascista, ed in armonia a tali premesse si costituiva il Gabinetto Parri in seno al quale le leve del comando passavano sostanzialmente al partiti di estrema sinistra, con la concessione agli altri partiti di posizioni secondarie di semplice controllo. Coerente alla sua composizione,
questo Gabinetto si poneva, poi, al servizio dei Comitati di Liberazione e delle correnti più accese. Di modo che, in luogo di un governo che fosse esponente nella più larga misura possibile delle forze politiche operanti nel paese, veniva a costituirsi in definitiva un Governo nettamente orientato verso sinistra.

Non sarebbe il caso di allarmarsi eccessivamente di tale situazione se essa oggi non comportasse due conseguenze di estrema gravità.
La prima è che, con il cennato spostamento del centro di gravità politico del Governo, Governo ed esarchia hanno accentuato la distanza che già li separava dal Paese. Mentre. Infatti il Paese desiderava e desidera, come interprete autentico dei suoi stessi bisogni, che. dopo la lotta di liberazione, l’attenzione e gli sforzi del Governo, si concentrassero sul piano della costruzione nazionale per la salvezza dell'Italia, il Governo Parri Partiti dell'esarchla vittime di una specie di daltonismo politico, mal governando e poco governando, si dimostravano sempre più impegnati in una gara di ideologie faziose. Nessuno oggi potrebbe negare che tutti i Partiti sono colpiti, più o meno, dal discredito della pubblica opinione e che il Paese li segue con fastidio e con irritazione.
La seconda e se possibile più grave — è che i partiti di estrema sinistra essendosi già assicurati la prevalenza in seno ai Governo, intendono di avvalersi di tale privilegio alfine di pregiudicare fin d’ora, in loro favore, le soluzioni definitive istituzionali e di strutture economico-sociali, sia apparecchiando una legge elettorale che funzioni come un congegno automatico a loro vantaggio, sia affrettando la lotta elettorale per la Costituente perché si svolga in un clima di disorientamento e di intimidazione, preparando un colpo di Stato dissimulato sotto 1 apparenza della legalità delle procedure, ed avviando il Paese verso la restaurazione di una dittatura mascherata dietro
la facciata di un’Assemblea Costituente.
Se questa, come pensiamo, è la situazione, è ovvio che il Partito Liberale deve superare quel complesso di inferiorità che fino ad oggi lo ha reso indulgente verso le estreme sinistre. 
Noi non crediamo che il Partito Liberale debba stabilmente identificarsi come un partito conservatore di destra, crediamo, anzi, che esso potrebbe accettare e partecipare, e magari promuovere, concentrazioni anche di sinistra con un programma di audaci riforme economiche e sociali laddove nella realtà politica italiana si profilasse una situazione di conciliazione, di concordia nazionale e di saggezza universale. Siamo, però, fermamente convinti che il Partito Liberale debba resistere con la massima energia dinnanzi a situazioni che tendono apertamente o subdolamente, a imporre con la intimidazione o con la frode il prepotere dei ceti e dei partiti di estrema sulla libera volontà nazionale.
Siamo, infine, convinti, che una volontà di resistenza coraggiosa non si sia ancora formata nel partito liberale, e che la timidezza, la incertezza, la paura di essere bollati per conservatori e reazionari, l’arrendevolezza, il possibilismo e il trasformismo, spacciati come prudenza o come abilità, costituiscano ancora connotati troppo diffusi del liberali, connotati i quali giustificano quei severi giudizi che soventemente vengono espressi contro il nostro Partito.
Si è parlato spesso di un nuovo e giovane liberalismo nei confronti del vecchio liberalismo pre-fasclsta. Noi pensiamo che la novità e la giovinezza non stiano tanto nelle proposizioni dottrinali o nelle formazioni programmatiche quanto nella forza morale delle convinzioni e nella fermezza dura con cui esse sono fatte valere. È soprattutto In questo senso che auspichiamo un liberalismo giovane e nuovo.
Questo nostro appello amici carissimi, intende raccogliere tutti i Liberali che condividano le nostre preoccupazioni e i nostri propositi, senza, peraltro attentare all’unità del Partito la cui insegna gloriosa deve essere messa al riparo da secessioni che trasformerebbero la compagine del movimento liberale in  piccole sette senza risonanza e senza avvenire; Intende associare in uno sforzo coordinato ed unitario, entro il Partito tutti coloro che, come noi, pensano che l’ora presente non sia quella più propizia alle reticenze calcolate, alle debolezze compiacenti, alle perplessità imbelli ed alle diserzioni silenziose. «Guardiamo al Paese, ai suoi interessi, ai suoi bisogni, ai suoi sentimenti profondi, anche a costo — ove se ne manifestasse la necessità — di sacrificare quella solidarietà di Governo, che fino ad oggi ci ha tenuti legati ai partiti dell’esarchia, per appellarci alla Nazione e all’avvenire. - Panfilo Gentile».


Sono due documenti di estrema importanza; uno viene dall’estrema sinistra del laburismo inglese il cui avvento al potere era stato esaltato dal socialismo nostrano come il lasciapassare della rivoluzione italiana; l'altro, è un documento interno, di un partito partecipe dell’esarchia. Esso avverte il pericolo dell'attuale indirizzo di Governo. L’uno e l'altro si oppongono all’uso della violenza e anche alla minaccia della violenza da parte di una minoranza sostenuta da milizie armate: quella violenza che è vecchio male italiano, sempre risorgente, perché la nostra natura pare incapace di una soluzione dei problemi della vita collettiva senza ricorrere da una parte alla pura speculazione filosofica e, dall’altra a dimostrazioni ed agitazioni di piazza. Noi mettiamo in moto la lirica dei poeti nazionali e la filosofia dei grandi maestri, insieme alle squadre dei mazzieri e dei sicari.
È una eredità del Rinascimento dalla quale non riusciamo a liberarci, una pesante eredità della nostra natura inguaribilmente retorica e insieme cinica e rissosa.
Ebbene, tra il 1922 e il 1926, si poneva in Italia lo stesso problema : impedire che una minoranza, con l’uso della violenza e con la scusa di una rivoluzione da compiere, si impadronisse con l’uso della forza o con il timore della forza da parte dei più, del Governo dello Stato. Già Pareto aveva annunciato prima dell’altra guerra. « L’uso della forza è indispensabile nella società e quando le classi alte sono contrarie a farne uso, il che abitualmente accade, perché la maggior parte di queste classi fa assegnamento solo sull’astuzia, mentre la minor parte, per stupidità o vigliaccheria, si rifiuta di agire energicamente, avviene che, se la società vuole sussistere o prosperare, la classe governante deve essere sostituita a un altra che intenda e sappia come usare la forza, si come la società romana fu salvata dalla rovina per opera delle legioni di Cesare e di Ottaviano, potrà accadere che la nostra società venga, nel futuro, salvata, dalla decadenza, da coloro che saranno allora gli eredi dei nostri sindacalisti ed anarchici ».
Mussolini pretendeva di essere stato allievo di Pareto oltre che discepolo di Sorel e affermava di avere acquistato la necessaria confidenza con il Machiavelli nella famosa officina del fabbro. Ma a parte queste vanterie culturali del tutto infondate si può immaginare che egli trovasse solo nel suo torbido istinto la spinta alla conquista del potere. A nessuno veniva allora in mente di rendere la Monarchia responsabile degli avvenimenti italiani di quegli anni perché si avvertiva da tutti la forza dominante dell'opinione pubblica e il consenso dello spi-rito universale. Allo stesso modo a nessuno viene ora in mente di rendere responsabile il Luogotenente dei molti decreti che vengono sottoposti alla sua firma: decreti che pure non hanno il consenso universale e che non giovano certo, né al paese, né alla Monarchia; che tendono anzi manifestamente a demolire l'istituto monarchico. Ognuno comprende che la forza delle circostanze costringe il Luogotenente ad accettare un governo che gli è programmaticamente avverso. Come suo padre. La Monarchia deve assistere inerte al fluire di così strani eventi, perché il dramma continua. Del triste ventennio nulla abbiamo dimenticato, ma nulla abbiamo imparato Il ventennio vide il sopruso e la violenza. Oggi si continua l’apologia della violenza come già fecero Sorel
Pareto.
Il prof. Concetto Marchesi (comunista), che potrebbe occuparsi autorevolmente di Seneca, ha scritto: « la violenza sotto il suo aspetto materiale è indubbiamente irrazionale e anche repugnante alla ragione, ma considerata in rapporto con il fine a cui essa obbedisce e con l’ordine razionale a cui serve, è giusta e razionale. La violenza è apparentemente la nemica, ma sostanzialmente l'amica dell’uomo e dello spirito ed è anche l’anima stessa, il seme divino della storia dell’umanità. Lo è proprio nel senso che fece dire a Cristo: ” Io non vengo a portare la pace, ma la spada » E il citato Giuseppe Rensi aveva già ripetuto un detto di Machiavelli: ” Il modo come si debba comporre una città divisa non deve essere altro che ammazzare i capi dei tumulti ”.

sabato 24 novembre 2018

Tolleranza zero per chi occupa. Bloccare le scuole è un crimine.




In tutta Italia ci sono istituti presi in ostaggio dagli studenti. I giovani possono fare politica, ma il diritto all’istruzione non può mai essere calpestato. Ed è ora che i danni vengano fatti pagare alle famiglie.


Sono sei le scuole occupate a Roma, tra cui il prestigioso ginnasio liceo Torquato Tasso, la migliore scuola classica della capitale secondo la classifica stilata dalla Fondazione Agnelli. Occupazione per motivi politici, come si legge in un documento diffuso dagli studenti, in dissenso «riguardo alle politiche economiche e sociali». E aggiungo no che la dignità del lavoratore, sulla quale si fonda la Repubblica italiana è «svilita o addirittura cancellata da una forma di sussistenza sociale quale il reddito di cittadinanza». Pertanto gli occupanti si dichiarano «contro la demagogia del governo gialloblù, che continuamente strumentalizza e demolisce la solidarietà umana, trasformando in criminali coloro che cercano di dare dignità a tutti». Un taglio politico inequivoco, a tutto campo, con riferimento alla politica economica e sociale, genericamente richiamata, ma anche al reddito di cittadinanza, scelta portata avanti dal M5s, ritenuto, non senza ragioni, misura assistenziale.
Possono gli studenti fare politica? Evidentemente si. È un diritto fondamentale dei cittadini, incomprimibile in una democrazia e va tutelato.
E messo a confronto con un altro diritto fondamentale, quello di partecipare alle lezioni che lo Stato, con rilevante dispendio di risorse economiche, predispone peri giovani nell’ottica della loro crescita civile e professionale. La scuola, infatti, è il luogo dove s’impara a essere cittadini e ad acquisire le conoscenze che daranno loro una preparazione per la vita. Dalla scuola alla vita è stato il titolo di un bel libro, coordinato da Paola Maria Zerman, che qualche anno fa, con il concorso di personalità di varie esperienze di studio e di lavoro, ha indicato ai giovani il valore etico del lavoro nei vari settori professionali.
Luogo del sapere, servizio ai cittadini, la scuola deve mantenere la sua autonomia rispetto al dibattito della politica e deve essere posta nelle
condizioni di rendere con continuità il servizio istruzione. Con la conseguenza che se gli studenti possono manifestare liberamente le loro idee politiche non hanno il diritto di interrompere il servizio impedendo a chi ne vuole fruire di assistere alle lezioni. Infatti, a collocarla nel contesto giuridico suo proprio, l’occupazione degli istituti scolastici, con interruzione del servizio, costituisce un illecito dai molteplici profili, penali e di danno erariale, perché impedisce l’esercizio di una funzione pubblica. È evidente che gli studenti possono «marinare la scuola», come si diceva un tempo, anche a costo di subire conseguenze sul piano disciplinare, ove l’assenza ingiustificata si protraesse per un certo periodo rispetto alla durata legale dell’anno scolastico, con conseguenze anche sull’esito finale.
L’occupazione, come intuitivo, è contraria a regole elementari. Al di là dei danni che essa può provocare, come l’esperienza insegna, all’edificio scolastico e ai suoi arredi, e con l’utilizzazione impropria di strutture informatiche e con aggravio dei costi delle utenze, la stessa occupazione costituisce quello che si definisce un «pregiudizio erariale», cioè un danno al bilancio pubblico, considerato che lo Stato pagherebbe docenti che non hanno effettuato la loro prestazione.
Chi ne è responsabile sul piano giuridico? Innanzitutto le famiglie degli occupanti alle quali i presidi dovranno chiedere i danni. Non farlo fa gravare su di essi una diversa responsabilità, anch’essa di natura «erariale», di competenza della Corte dei conti. Infatti non pretendere il risarcimento di un danno ingiusto costituisce un comportamento illecito per un pubblico funzionario. Una responsabilità che si aggiunge a quella per l’interruzione del servizio scuola nel quale saranno coinvolti anche i responsabili delle forze di polizia (il questore). I presidi, per non aver messo in atto tutte le misure per impedire l’occupazione dei locali, il secondo per non essere intervenuto a liberarli per consentire la prosecuzione dei corsi. Senza arrivare al caso del preside che a Roma, qualche anno fa, di fronte a un’assemblea studentesca
decisa a proclamare lo «sciopero» e a occupare i locali, ha
consegnato agli studenti le chiavi del portone d’ingresso e se ne è andato a casa.
E qui s’innesca anche una responsabilità del governo, di «natura politica», insindacabile in sede giudiziaria, in quanto l’autorità politica potrebbe decidere di non intervenire per motivi di ordine pubblico. Ma una cosa è certa.
Se si attivasse la regola elementare della responsabilità
civile per danno, per cui «chi rompe paga», e una volta tanto i genitori degli studenti fossero chiamati a risarcire i danni provocati dai loro figli «esuberanti», probabilmente le occupazioni non si farebbero più e gli studenti potrebbero manifestare i loro legittimi orientamenti politici al di fuori dell’orario delle lezioni, magari nell’aula magna degli istituti (quelli che ne hanno una).

In Alessandria una Messa per il Re

Una Messa per il Re. È un appuntamento ormai tradizionale in Alessandria quello di domenica 25 novembre alle ore 18 nel Santuario di N.S. di Loreto in Via Plana.
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mercoledì 21 novembre 2018

L’Italia celebra la Vittoria della Grande Guerra



PAROLA D’ORDINE: UNITI SI VINCE



Per celebrare la Vittoria della Grande Guerra si sono svolte in tutta Italia una serie di iniziative molto significative, che hanno visto la partecipazione sentita di “CITTADINI E SOLDATI”.
Nei giorni precedenti al 4 Novembre numerose cerimonie, nonostante il tempo atmosferico inclemente, hanno avuto luogo in Nord d’Italia, teatro delle operazioni belliche, nei vari Sacrari dedicati ai Caduti della Grande Guerra e in particolare a Vittorio Veneto, città che ricorda la battaglia conclusiva e vittoriosa del conflitto.

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martedì 20 novembre 2018

La principessa Mafalda di Savoia, a 116 anni dalla nascita


di Emilio Del Bel Belluz

Durante il periodo universitario un mio compagno mi fece dono di un fascicolo fotocopiato, creato per ricordare la morte della principessa Mafalda. Questo dono mi arrivava dal padre del mio amico, che era un generale. Il genitore aveva saputo del mio attaccamento ai Savoia, legame che non ho mai fatto venire meno. Nel fascicolo c’era scritto con un pennarello: “Per non dimenticare!“. 
Fu per me un dono prezioso, una strada che mi si aprì davanti. Incominciai ad amare questa donna così sfortunata, la figlia di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. 
Oggi sono trascorsi 116 anni dalla sua nascita. La nobildonna nacque a Roma il 19 novembre 1902, lo stesso mese in cui si ricordava il genetliaco del padre, il Re d’Italia. Una doppia festa per i Savoia. Il destino di questa principessa però non era scritto nel libro facile della vita, il destino fu per Lei crudele e terribile. 
Nell’opuscoletto ricevuto in dono, si scriveva: “S.A.R. la Principessa Mafalda di ritorno dalle esequie del cognato S.M. il Re Boris di Bulgaria, si trovava a Roma, quando il 22 settembre 1943 venne arrestata dai tedeschi quale ostaggio. Immediatamente con un aeroplano, accompagnata da una donna tedesca, che si rivelò tosto di facili costumi, venne trasportata a Berlino. Da qui, sempre accompagnata dalla stessa donna, con un’autovettura venne avviata verso una meta ignota: Le dissero verso suo marito, il Principe di Hessen; invece La condussero a Buchenwald. Qui venne rinchiusa in una baracca speciale, N.° 15, riservata ai prigionieri particolari. La baracca era posta, nel breve spazio esistente sulla sommità della collina, tra le grandi officine e le Caserme SS., mentre il campo dei prigionieri era un po’ discosto, sul pendio settentrionale” .
La Principessa fu rinchiusa in una baracca assieme ad una donna Maria Ruhanu, che era stata fatta prigioniera perché apparteneva a una setta che si era rifiutata di impugnare le armi: gli scrutatori della Bibbia. All’interno di questa stanza c’erano pochi mobili, un letto di ferro, con un saccone riempito di paglia di legno. Alla nobile italiana era dato lo stesso cibo che avevano le SS del campo. La donna trasferiva parte del cibo attraverso la grata ad altri prigionieri meno fortunati di lei. In quel periodo dimagrì notevolmente e non le fu mai dato del vestiario pulito, subendo grandi disagi. Il suo cuore batteva per i suoi quattro figli e per il marito che non sapevano dove lei si trovasse. Nel campo di concentramento vi era un padre francescano tedesco, Riccardo Steindhof che ebbe la possibilità di confessare la Principessa e darle la comunione. 
La tragedia però doveva ancora avvenire. Il 24 agosto del 1944 il campo di concentramento fu bombardato, e la prigioniera fu ferita gravemente. L’operazione per l’amputazione dell’avambraccio, già in cancrena, fu eseguita tardivamente, ben quattro giorni dopo, perché non fu permesso ad un medico prigioniero di operarla. Alla mattina del 29 agosto, la principessa morì senza aver ripreso conoscenza. Nel piccolo opuscolo si dice: “La stessa mattina, la salma completamente denudata venne portata nel crematorio. Fungeva da prosettore l’internato Padre Giuseppe Tyl, il quale vedendo una salma di donna con il braccio amputato, chiese ai portatori chi fosse. Gli risposero: “ La Principessa Italiana”. 
Il prosettore, volendo salvarla dal forno crematorio, chiese a un soldato SS se poteva prendere un feretro. Dopo aver insistito, gli fu concessa una cassa nera con fregi d’argento, dove egli stesso ricompose la salma. Il corpo della Principessa fu seppellito a Weimar, assieme a quelli di altri SS, nel reparto d’onore riservato ai caduti di guerra. La sua tomba rimase senza nome, finché, in seguito, dei marinai di Gaeta, posero una croce in legno e una lapide in marmo.


Il fascicolo che mi fu donato era stato scritto dal Dott. Fausto Pecorari.

Livorno, conferenza del Movimento Monarchici


lunedì 19 novembre 2018

Giovannino eroico. Ha battuto anche gli eredi di Peppone

di Alessandro Gnocchi

Sab, 17/11/2018Contrordine compagni: che Giovannino Guareschi sia celebrato. Il governatore della Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, esponente di spicco del Partito democratico, ha onorato la memoria di Guareschi con un breve ma intenso discorso a Busseto.
Anche la sinistra, con il consueto ritardo di mezzo secolo, pare si sia accorta che Giovannino Guareschi fu un grande scrittore, umorista, vignettista, soldato. Fu anche uomo tutto d'un pezzo. Pronto a: finire in un lager militare pur di non collaborare con i nazisti; esprimere un anticomunismo popolare e comunque addolcito dal cristianesimo; pagare un conto salato per le sue idee eretiche nel mondo della cultura italiana; fare efficacissima propaganda per la Democrazia cristiana in occasione delle decisive elezioni del 1948; entrare in carcere, punizione unica e durissima, per aver diffamato il democristiano Alcide De Gasperi. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. I film di Don Camillo e Peppone sono replicati in continuazione e ogni volta fanno ascolti. Mostrano un'Italia divisa ma più gentile di oggi. Il comunista Peppone ha torto e Don Camillo ha ragione. Ma Don Camillo conosce la misericordia di Dio e Peppone, in fondo, sa riconoscere i propri eccessi. Guareschi è il simbolo della provincia italiana (quindi dell'Italia intera). Nelle storie del suo Mondo piccolo, tutti possono riconoscersi. Chi è nato nella Bassa, oltre a se stesso, può riconoscere anche la bravura di Guareschi nel descrivere il fiume, la nebbia, i pioppi. In libreria, c'è la strenna perfetta: Giovannino nei lager (Rizzoli, pagg. 460, euro 35). All'interno ci sono la straziante Favola di Natale scritta in prigionia pensando ai figli Alberto e Carlotta; il diario clandestino del lager; e gli scritti del ritorno «alla base». Il tutto corredato da splendidi disegni di Giovannino, spesso accompagnati dalle didascalie scritte dai figli. È una lettura fondamentale per capire quanta forza, orgoglio e dignità ci fosse negli italiani come Giovannino. Era gente che faceva sempre il proprio dovere, anche sbagliando. Le pagine di Guareschi fanno impallidire le carrettate di romanzi neorealisti, neo-comunisti, neo-filosovietici firmati da ex camicie nere passate alla camicia rossa. Fa piacere che Guareschi sia finalmente patrimonio di tutti gli italiani e non di una sola parte. Però sarebbe ingiusto dimenticare che Palmiro Togliatti definì Guareschi «tre volte cretino» e che l'Unità, nel coccodrillo di Giovannino, scrisse del «melanconico tramonto dello scrittore che non era mai nato».
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Cinema, teatro e nostalgia. Un Festival per Guareschi
La grandezza del Mondo Piccolo è un patrimonio italiano. Così la terra dello scrittore lo celebra a 50 anni dalla morte
Marta Calcagno Baldini
Sab, 17/11/2018

Busseto (Parma) - Bisognava aspettare 50 anni dalla morte di un uomo libero, indipendente, inclassificabile, grafico, umorista e narratore d'eccezione che ha saputo raccontare l'umanità in modo tanto veritiero da essere sempre attuale.
Bisognava aspettare mezzo secolo prima che la sua città natale, Busseto, decidesse di organizzare il Busseto Festival Guareschi, ispirato a Giovannino Guareschi, l'autore della saga di Don Camillo e Peppone. La rassegna, a cura di Ater (Associazione Teatrale Emilia Romagna), è iniziata il 10 novembre, proseguirà fino al 9 dicembre ed è incentrata sul cinema tratto dai testi di Guareschi.
Le pellicole, messe a disposizione da Mediaset, sono proiettate nel Teatro d'Opera di Busseto.
«Prima d'ora non si è fatto niente perché per noi Guareschi è come una di quelle pioppe, alte canove frondose, poste lungo il Po. Messe lì da un dio bizzoso perché il fratello di quelle stesse pioppe ha preso il carro del sole cercando di deviarne il corso, come narra la leggenda di Fetonte e le Pleiadi. Insomma, Guareschi è come una pianta di una mela cotogna, che le nostre vecchie mettevano nei cassetti e poi si sentiva il profumo delle mele per tutto l'inverno. Lui è sempre in noi. È nell'aria. Noi siamo, o quantomeno vorremmo essere in lui».
Lo dice Giancarlo Contini, sindaco di Busseto, barba bianca e cuore giovane, di centrodestra nonché uomo di cultura, appassionato del territorio, anche se si definisce «solo un veterinario di campagna specializzato in suini». Da lui è partita l'idea di organizzare questa rassegna, con un ricco calendario di proiezioni.
Il 7 dicembre, poi, a Teatro parleranno le persone che conobbero di Guareschi. Come Ferrante Ferrari, idraulico, o Demetrio Bergamaschi, proprietario di un'azienda di vini a Sambuseto, frazione di Busseto.
Prima delle proiezioni, invece, presenti giornalisti appassionati e conoscitori del Mondo Piccolo di Guareschi, come Alessandro Sallusti, Michele Brambilla, Giorgio Vittadini, Umberto Brindani e altri, per commentare i film con il pubblico.
Il Festival diventerà un appuntamento annuale. «Vogliamo - spiega Contini - accendere i riflettori sulle personalità che hanno raccontato artisticamente il territorio, a partire dal cinema. Andremo a Rimini con Fellini, senza dimenticare le campagne di Pasolini. Ma ci sarà anche Ermanno Olmi, e in futuro i romanzi che riguardano il Po, da Mario Soldati a molti altri». Ma non si poteva che partire da Guareschi e dai suoi luoghi, tra cui anche la ex trattoria a Roncole Verdi, a pochi minuti da Busseto e a fianco della casa natale di Verdi, che fu in vita per 30 anni (Guareschi la aprì nel '64 per dare un'occupazione ai figli, e prima, nel 1957, aveva costruito un caffè, ancora in attività e dove si trovano le bottiglie con l'etichetta disegnata da Giovannino, per offrire ai turisti un punto di ristoro vicino alla casa del compositore). Vi lavoravano lo scrittore e sua moglie, il figlio e la figlia aiutavano, e in seguito anche le quattro nipoti davano una mano.
«Adesso qui c'è il suo museo - dice Alberto Guareschi, il figlio -. Mio padre si è fatto tre campi di concentramento, e la galera in Italia: la sofferenza dell'artista arriva a chi legge le sue opere». È un archivio con tutto il materiale su Guareschi perfettamente conservato da Alberto, che lavora a tempo pieno per conservare la memoria del padre insieme alle due figlie. «In tanti lo rimpiangono, ci diamo molto da fare».
Nel museo il percorso parte dal ritorno dello scrittore da Milano a Roncole. Infatti, dopo aver lavorato a Milano dal '36 (inizialmente abitava in via Gustavo Modena in una stanza con la moglie, e di fianco a loro viveva una prostituta), nel '52 Giovannino tornò nella Bassa. «Anche se il mio cuore è targato Mi», diceva. «Quando mio padre morì, trovai il suo archivio in perfetto ordine, come se mi avesse voluto dire guarda che io ho lasciato qualcosa. Lui era di sentimenti monarchici, anche se non aveva orientamento politico. E non era un padre severo, gli bastava lanciare uno sguardo in un certo modo e tu capivi. Da lui non ho mai preso una sberla». Guareschi era anzitutto un uomo libero e, conclude Alberto «tutti hanno cercato di usarlo, ma era una coperta corta. Era troppo indipendente. Era scomodo perché non era inquadrabile. La cultura ufficiale in Italia ancora oggi lo ignora. Non c'è nelle antologie. È più facile che i giovani lo capiscano, perché non hanno sovrastrutture».
A completare il poetico racconto di una terra in cui la natura e la bicicletta sono le protagoniste assolute, ci sono le due mostre a Busseto realizzate dall'IBC-Emilia Romagna, fino al 9 dicembre: «Giovannino Guareschi fotografo 1940-1952» che raccoglie immagini della vita, degli affetti e dei luoghi cari all'artista, e «Giovannino a Busseto, fotocronaca della nebbia», in piazza Verdi. Il 9 dicembre dalle 12 alle 16 nel cortile della Rocca di Busseto i ristoratori della Bassa presenteranno le ricette del Mondo Piccolo nella giornata «Giovannino, si mangia!». Infine le trattorie della Bassa, in questi stessi giorni partecipano al «November Porc», una manifestazione di cucina, e offrono un menù che avrebbe messo d'accordo Don Camillo e Peppone.
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Info. Ufficio Informazioni e Accoglienza Turistica: piazza Verdi 10, Busseto. Orari: da martedì a domenica e festivi: ore 9,30-13 e 14,30-17. www.bussetolive.com /info@bussetolive.com / 0524-92487.

domenica 18 novembre 2018

RE BORIS III E IL SALVAMENTO DEGLI EBREI BULGARI


Con una introduzione del Prof. Petar Stojanovich, già Ministro della Cultura, si è svolta - nel palazzo di Vrana a Sofia, alla presenza di S.M. il Re Simeone II - la Conferenza della giornalista e storica Prof.ssa Daniela Gorcheva che, con chiarezza e lucidità arricchite dalla illustrazione di inedita documentazione, ha ricostruito tutti gli eventi di cui fu artefice il Re Boris III nell'opera, abilmente e coraggiosamente perseguita, di salvare i 48.000 ebrei bulgari dalla deportazione nella Germania nazista, con le immaginabili, tragiche conseguenze.

S.M. Il Re Simeone con il Nostro Camillo Zuccoli, Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Bulgaria
Il 20 novembre le Poste bulgare, per commemorare il 100° anniversario della ascesa al Trono di Re Boris III emetteranno un francobollo commemorativo.