La verità più amara è che l’Italia
l’abbiamo perduta.
Dietro ai facili populismi dei social
network, dietro ai revisionismi da burla antirisorgimentali, dietro le
nostalgie per mondi che non abbiamo studiato, dietro il solco tremendo che ha
spaccato le coscienze, dietro la crisi sempre più palese delle istituzioni e di
un sistema violato dalla barbarie e dall’ignoranza sdoganata.
La storiografia, se seria e documentata, è
scrigno di memoria per le generazioni future e su quella si costruisce
l’avvenire di popoli e nazioni. Anche se oggi subisce, troppo spesso, le
sevizie di chi, per vendere libercoli, inventa storie fantasiose per riscrivere
un passato che giustifichi gli errori recenti, assolva da colpe e vizi,
assecondi istanze indecorose, liberi la coscienza di classi politiche e
dirigenziali fallimentari.
È un ritrattino triste dell’Italia
digitale e dei reality, dell’Italia televisiva. Ma è un ritratto secco, severo
e drammaticamente reale mentre il paese si allontana, si sfalda sempre più. Si
sfalda perché, da decenni, venuti meno i simboli nazionali il collante del
paese ha preso a sbriciolarsi e frammentarsi.
Per deterioramento naturale perché non più
coltivato e perché preso a picconate da troppi stolti neogiacobini. Eppure
questa è l’Italia del centenario non solo e soltanto della Grande Guerra. Ma
della vittoria, si della vittoria perché va chiamata per quella che fu.
Il coronamento dello sforzo di popolo, di
quel popolo che si unì e imparò ad amarsi fraternamente tra i pidocchi, il
sangue e il fango delle trincee. Che nell’orrore e nella sofferenza condivise
si incontrò davvero.
Parliamoci chiaro, Giolitti ed i neutralisti
avevano perfettamente ragione a volersi tenere fuori da quella che papa
Benedetto XV definì, giustamente, “l’Inutile strage”.
Ma quando il momento venne, tutti si
unirono nella grande e quasi impossibile impresa. Ogni contrada d’Italia, ogni
borgata, ogni frazione, conobbero il peso del lutto ma anche dell’orgoglio
d’aver concorso a portare a termine il percorso iniziato dai padri nel glorioso
Risorgimento: l’Italia unita.
Dopo le difficoltà, non disastro, di
Caporetto; il paese reagì. Diaz, forte anche delle strategie e dell’eredità
dell’ingiustamente vituperato Cadorna, guidò il paese alla vittoria con il suo
Re sempre in prima linea. Da anni al fronte mentre la Regina Elena, al
Quirinale, allestiva un ospedale non per soli generali ma per soldati comuni.
Dettagli che la gente dovrebbe ricordare
quando, con leggerezza, parla del ritorno in patria del Re Soldato oggi
dignitosamente accolto al Santuario di Casa Savoia di Vicoforte
(Cuneo). Dove la presidenza e la segreteria della Consulta dei Senatori
del Regno, unitamente al direttivo dell’Associazione già citata, si recheranno
domenica per rendere omaggio al sovrano che, come l’umile fante, indossò
l’elmetto al fronte.
Nel 1918 l’Italia vinse la sua guerra dopo
mesi e mesi di sacrifici, lotta e povertà. La situazione europea in parte la
vanificò e l’impotenza dei partiti, di fronte alle grandi tensioni e crisi
postbelliche, condusse a successive conseguenze disastrose ed alla
grave crisi dello stato liberale. Ma qualcosa restò e non andò perduto. Trento,
Trieste, Gorizia e così via. E la memoria collettiva di quella guerra che portò
tutti al fronte o comunque a fare la propria parte. Uomini e donne, padri e
figli, Re e operai.
In quel grande rogo, in quell’olocausto
che bruciò l’intero continente falciando intere generazioni ed impoverendo ogni
nazione, devastando tutto. Anche nelle città molti civili conobbero le bombe
degli Zeppellin.
Profetiche nell’annunciare il dramma,
ancor peggiore, che sarebbe venuto con la guerra dopo. La Prima Guerra Mondiale
fu un grande disastro collettivo, una tragedia di proporzioni talmente grandi
da sconvolgere le coscienze e segnarle per sempre. L’Italia ne uscì spossata ma
vinse e vinse per tutti.
Nell’armistizio con l’Impero d’Austria
Ungheria, infatti, fu previsto anche il passaggio di truppe italiane in
territorio austriaco per sorprendere la Germania da Sud. Non si fece a tempo a
percorrere questa via per fortuna, ma pesò nell’esito del conflitto sul fronte
franco-tedesco e nella sua chiusura.
Le tragedie non si celebrano ma si prova a
comprenderle, le vittorie si ricordano con sobrio affetto e devozione. Quando
le due cose si intrecciano si cerca di capire, si rispettano i morti di ogni
colore e di ogni divisa, si ammoniscono le generazioni future perché non
ripetano ma si ricorda anche il retaggio glorioso rimastoci.
L’Italia e ciò che dalle trincee
faticosamente uscì: gli italiani.
Nel tempo in cui tutto si fa fragile, in
cui gli orizzonti mancano, in cui l’Europa pare smarrita, è doveroso ritrovare
il ricordo della vittoria, dell’unità nazionale, della fratellanza che non può
essere europea senza essere prima italiana.
A fine settembre, in occasione del
convegno voluto dall’Associazione di Studi Storici “Giovanni Giolitti”, un
appello si è levato da Vicoforte ove riposa il Re Soldato con la consorte: il 4
novembre 1918, centenario della vittoria e non solo della fine della guerra,
tutti gli italiani e le italiane ricordino con un minuto di silenzio i caduti.
I propri caduti perché quasi ogni casa ne ebbe uno o più d’uno. Nel loro
ricordo si stringano in ideale raccoglimento. Per andare oltre allo smarrimento
occorre prima di tutto ritrovare bussola e orientamento: ritrovare l’Italia.
Alessandro
Mella
http://www.bdtorino.eu/sito/articolo.php?id=30707
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