Durante il periodo
universitario un mio compagno mi fece dono di un fascicolo fotocopiato, creato
per ricordare la morte della principessa Mafalda. Questo dono mi arrivava dal
padre del mio amico, che era un generale. Il genitore aveva saputo del mio attaccamento
ai Savoia, legame che non ho mai fatto venire meno. Nel fascicolo c’era scritto
con un pennarello: “Per non dimenticare!“.
Fu per me un dono prezioso, una
strada che mi si aprì davanti. Incominciai ad amare questa donna così
sfortunata, la figlia di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Oggi sono
trascorsi 116 anni dalla sua nascita. La nobildonna nacque a Roma il 19
novembre 1902, lo stesso mese in cui si ricordava il genetliaco del padre, il
Re d’Italia. Una doppia festa per i Savoia. Il destino di questa principessa
però non era scritto nel libro facile della vita, il destino fu per Lei crudele
e terribile.
Nell’opuscoletto ricevuto in dono, si scriveva: “S.A.R. la
Principessa Mafalda di ritorno dalle esequie del cognato S.M. il Re Boris di
Bulgaria, si trovava a Roma, quando il 22 settembre 1943 venne arrestata dai
tedeschi quale ostaggio. Immediatamente con un aeroplano, accompagnata da una
donna tedesca, che si rivelò tosto di facili costumi, venne trasportata a
Berlino. Da qui, sempre accompagnata dalla stessa donna, con un’autovettura
venne avviata verso una meta ignota: Le dissero verso suo marito, il Principe
di Hessen; invece La condussero a Buchenwald. Qui venne rinchiusa in una
baracca speciale, N.° 15, riservata ai prigionieri particolari. La baracca era
posta, nel breve spazio esistente sulla sommità della collina, tra le grandi
officine e le Caserme SS., mentre il campo dei prigionieri era un po’ discosto,
sul pendio settentrionale” .
La Principessa fu rinchiusa in una baracca assieme
ad una donna Maria Ruhanu, che era stata fatta prigioniera perché apparteneva a
una setta che si era rifiutata di impugnare le armi: gli scrutatori della
Bibbia. All’interno di questa stanza c’erano pochi mobili, un letto di ferro,
con un saccone riempito di paglia di legno. Alla nobile italiana era dato lo
stesso cibo che avevano le SS del campo. La donna trasferiva parte del cibo
attraverso la grata ad altri prigionieri meno fortunati di lei. In quel periodo
dimagrì notevolmente e non le fu mai dato del vestiario pulito, subendo grandi
disagi. Il suo cuore batteva per i suoi quattro figli e per il marito che non
sapevano dove lei si trovasse. Nel campo di concentramento vi era un padre
francescano tedesco, Riccardo Steindhof che ebbe la possibilità di confessare
la Principessa e darle la comunione.
La tragedia però doveva ancora avvenire.
Il 24 agosto del 1944 il campo di concentramento fu bombardato, e la
prigioniera fu ferita gravemente. L’operazione per l’amputazione
dell’avambraccio, già in cancrena, fu eseguita tardivamente, ben quattro giorni
dopo, perché non fu permesso ad un medico prigioniero di operarla. Alla mattina
del 29 agosto, la principessa morì senza aver ripreso conoscenza. Nel piccolo
opuscolo si dice: “La stessa mattina, la salma completamente denudata venne
portata nel crematorio. Fungeva da prosettore l’internato Padre Giuseppe Tyl,
il quale vedendo una salma di donna con il braccio amputato, chiese ai
portatori chi fosse. Gli risposero: “ La Principessa Italiana”.
Il prosettore, volendo
salvarla dal forno crematorio, chiese a un soldato SS se poteva prendere un
feretro. Dopo aver insistito, gli fu concessa una cassa nera con fregi
d’argento, dove egli stesso ricompose la salma. Il corpo della Principessa fu
seppellito a Weimar, assieme a quelli di altri SS, nel reparto d’onore
riservato ai caduti di guerra. La sua tomba rimase senza nome, finché, in
seguito, dei marinai di Gaeta, posero una croce in legno e una lapide in marmo.
Il fascicolo che mi fu
donato era stato scritto dal Dott. Fausto Pecorari.
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