di Emilio Faldella
Scrisse il comandante tedesco Ludendorff: “L’Austria a Vittorio Veneto
aveva perduto la guerra e se stessa, trascinando la Germania nella propria
rovina”
Il piano della battaglia, concepito da Cavallero, fu genialmente modificato
sul terreno da Diaz, che strappò la vittoria finale che nessuno s’attendeva
Il Re sbarca a Trieste |
La figura del vecchio soldato che, sollecitato
dal ricordo di una data o di un fatto, dà la stura alle reminiscenze e, preso l’avvio, più non si tace, è di
tutti i tempi; pare che nella sua mente funzioni uno di quegli apparecchi che,
a metterci un gettone, proiettano scene animate. In lui c’è di tutto un po’: la
compiacenza di rievocare pericoli superati e fatti memorabili, l’orgoglio di
poter dire: «lo c’ero!», il rimpianto per la giovinezza di allora, la soddisfazione di aver sopravvissuta
e di poter raccontare.
È ciò che accade agli uomini della mia generazione
che, nata in sul finire del secolo scorso, assottigliata da guerre combattute
sotto tutti i cieli e dal naturale spegnersi delle vite umane, spettatrice di
turbinose vicende concluse nel disinganno e nel dolore, ha l’impressione, in
questo autunno del 1958, di risalire dal fondo di un baratro alla luce, sotto
l’impulso di ricordi,suscitati, dopo quarant’anni, dal richiamo di date di
importanza storica, e di rivivere, col pensiero e col cuore, momenti che furono
di gioia, dimenticando il grigiore dei tempi che corrono. Ecco: l’apparecchio si mette in moto e il tenue filo dei ricordi proietta
un film che, come tutti i vecchi film, rende sbiadite e saltellanti le figure,
ma ha l’effetto suggestivo di farci ritrovare giovani, in una corsa a ritroso
nel tempo che soverchia la realtà dell’inesorabile trascorrere della vita.
Rivediamo le colonne in marcia nella campagna veneta, già intonata al colore
delle foglie morte, battaglione dietro battaglione, batteria dietro batteria,
con i cavalli e i muli ben curati, accampamenti ben disposti, ché gli aeroplani
non erano temuti, soldati ben vestiti e calzati nelle sobrie uniformi
grigio-verdi dalla giubba chiusa; risentiamo nelle notti il rombo delle
cannonate e scorgiamo lame di riflettori e sfioccare di razzi illuminanti
rompere l’oscurità sul grande arco che, dal Pasubio, per gli Altipiani, il
Grappa, fino alla foce del Piave segna il fronte della resistenza e della riscossa.
Ma ciò che il vecchio film non può rievocare,
lo rievoca la memoria, ed è il più: c’era in quella massa d’uomini in armi che
si aggruppava tra il Piave e l’Astico e si assottigliava a cavallo dell’Adige,
fino a diventare linea tenue e rotta sui monti fra Garda e Stelvio,
un’aspettativa fatta di certezza fiduciosa: fiducia nella forza che rappresentava e fiducia nella sagacia dei capi. In tempi in cui lo sfogo inconsulto
di rancori e critiche, sovente senza fondamento, hanno demolito rispetto e
fiducia verso i capi militari,nessuno, che non abbia vissuto quelle vicende,
può rendersi conto di che cosa rappresentassero, per i combattenti del 1918, i
loro comandanti.
Se Diaz era troppo in alto, quasi un mito,
Badoglio era noto per la rapidaascesa, ch’era garanzia di capacità; Giardino
era già il «comandante dell’armata del Grappa»; Caviglia, per la fama acquisita
sulla Bainsizza, aveva in pugno l’armata del Montello e il Duca d’Aosta,
paterno e regale, era tutt’uno con la 3* armata, onusta di gloria. Etna,
bonario; De Bono, col pizzo bersaglieresco; Di Giorgio, duro e sagace;
Grazioli, dalla figura statuaria;
Sani, elegantissimo cavaliere, erano,con altri comandanti di corpo d'armata, ben conosciuti anche da noi, gregari e giovani ufficiali. Rivedevamo nei comandanti di divisione, di brigata, di reggimento, coloro che avevamo conosciuto nel 1915 e nel 1916 tenenti colonnelli, maggiori, capitani, passati attraverso durissime prove e nessuno dubitava delle loro capacità. Guardavamo agli Stati Maggiori, ch’erano stati — come in tutti gli eserciti — oggetto di antipatie e di critiche aspre, con rispetto, da quando con le vittorie difensive sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, ma soprattutto con la vittoria del giugno 1918, anche l’umile fante aveva capito l’importanza della loro funzione oscura, ma vitale.
Sani, elegantissimo cavaliere, erano,con altri comandanti di corpo d'armata, ben conosciuti anche da noi, gregari e giovani ufficiali. Rivedevamo nei comandanti di divisione, di brigata, di reggimento, coloro che avevamo conosciuto nel 1915 e nel 1916 tenenti colonnelli, maggiori, capitani, passati attraverso durissime prove e nessuno dubitava delle loro capacità. Guardavamo agli Stati Maggiori, ch’erano stati — come in tutti gli eserciti — oggetto di antipatie e di critiche aspre, con rispetto, da quando con le vittorie difensive sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, ma soprattutto con la vittoria del giugno 1918, anche l’umile fante aveva capito l’importanza della loro funzione oscura, ma vitale.
I reparti, agguerriti, depurati delle scorie,
veterani di tante battaglie — e veterani erano ormai anche i «ragazzi del 1899
» —, comandati da giovani ufficiali che avevano fatto preziose esperienze negli
assalti e nelle difese tenaci, erano compatti e coscienti di rappresentare una
forza. A questa fiducia si accompagnava la certezza della vittoria,
consolidatasi dopo la battaglia del Solstizio. Per la prima volta, in tutta la
guerra, su tutte le fronti, un attacco in grande stile era stato subito stroncato,
ricacciando il nemico nelle linee di partenza! E di questo anchel’ultimo dei
fanti era ben conscio.
Sul piano storico, constatiamo che il
senso di aspettativa di qualcosa di imminente e di decisivo che era nella massa,
non era invece nel Comando Supremo, che prevedeva la conclusione della guerra
nella primavera del 1919, in pieno accordo, d’altra parte, con i supremi
comandi alleati, e specialmente con Foch.
Per questo, appunto, nell’estate del 1918,
Diaz non era favorevole a sferrare un’offensiva, preferendo concentrare le
forze per l’azione decisiva, contemporanea a quella che sarebbe stata condotta
sulla fronte francese.
La vittoria di Vittorio Veneto fu tanto
brillante e completa che, come tutte le cose ben riuscite, parve essere stata
facile esecuzione di un piano predisposto. Essa nacque invece da un travaglio
non indifferente.
Fin dal maggio era sorto un conflitto fra
il Comando Supremo italiano e Foch: questi sosteneva che si dovesse impegnare
una battaglia offensiva sugli Altipiani, con obiettivo il solco Trento-Feltre e
non voleva ammettere che gli Austro-ungarici stessero invece preparando
un’offensiva dagli Altipiani al mare. Diaz non cedette ed i fatti gli diedero
ragione.
Vinta da noi la battaglia del giugno, Foch
ritornò alla carica perché si attaccasse sugli Altipiani, e l’attacco fu studiato
ed anche preparato, ma si trattava di offensiva ad obiettivo limitato, che non
avrebbe potuto portare alla decisione della guerra. E Diaz non intendeva
sprecare le forze in un’azione del genere, che Foch voleva soltanto perché ne
risultasse impedito il trasferimento di divisioni austriache in Francia.
I Francesi si rivolsero ad Orlando perché
imponesse a Diaz di agire: si ebbe allora un burrascoso colloquio al Comando
Supremo fra Orlando, Diaz e Badoglio; ad Orlando che insisteva su « impegni
d’onore » assunti con gli Alleati, Diaz obiettò di non potersi assumere la
responsabilità di un’offensiva di tipo carsico, che non avrebbe potuto avere risultati decisivi ed offrì le dimissioni. Badoglio batté il pugno
sul tavolo e disse ad Orlando: « Dia l’ordine per iscritto! ». Naturalmente
Orlando se ne guardò bene e così fu resa possibile la battaglia di Vittorio
Veneto.
È del 25 settembre 1918 il piano proposto
da Cavallero di sostituire all’offensiva sugli Altipiani un’offensiva attraverso
il Piave, che avesse come obiettivo la separazione in due tronconi
dell’esercito austro-ungarico, piano che Badoglio sostenne e Diaz approvò. Non
si trattava più di un’azione limitata, ma di un’operazione, decisiva, a grande raggio!
Di chi il merito? L’idea fu di Cavallero.
Non c'è dubbio che, prospettandola, adempì al suo dovere di capo dell’ufficio
operazioni del Comando Supremo; ma questo merito non oscura affatto quello di
chi l’idea accolse e fece sua, assumendosi la responsabilità della decisione e
dell’esecuzione.
Se l'operazione non fosse riuscita, la
colpa sarebbe stata di Diaz; poiché riuscì suo deve essere il merito. Il lavoro
degli stati maggiori è anonimo e non implica responsabilità, che rimane tutta
del comandante il quale,decidendo, se l'assume in pieno.
Il piano del Comando Supremo era arditissimo:
si trattava di prendere di petto lo schieramento nemico, che non era affatto
indebolito, come si vollesostenere per diminuire la vittoria; se l’Impero
austro-ungarico scricchiolava all’interno, la corazza esterna, rappresentata dall’esercito, era ancora intatta
e per numero di divisioni superiore in forze all’esercito italiano ed alle cinque
divisioni alleate che si trovavano in Italia. Tanto ardito era quel
piano, che Foch non ne fu entusiasta; non vi si oppose, ma avrebbe sempre
preferito l’attacco sugli Altipiani.
piano, che Foch non ne fu entusiasta; non vi si oppose, ma avrebbe sempre
preferito l’attacco sugli Altipiani.
Nella sua forma originale, concretata nell’ordine
del 12 ottobre, presentava anche un grave difetto, poiché l’Armata Caviglia
avrebbe dovuto attaccare da sola, con un urto frontale, quando il Comando
austro-ungarico aveva la libera disponibilità delle sue riserve, che avrebbe
potuto far convergere nel settore attaccato.
Ci si mise allora di mezzo il Piave, che,
come è solito fare d’autunno, a metà ottobre si gonfiò, fino a rendere impossibile
il gittamento dei ponti, sui quali l’Armata Caviglia avrebbe dovuto passare da
nord del Montello alle Grave di Papadoli.
Ed allora si manifestarono la duttilità
del Comando Supremo e l’elasticità dello strumento di cui disponeva; fu
ordinato il 18 ottobre che l’armata di Giardino attaccasse sul Grappa, per attrarre
su di sé riserve nemiche, in attesa che le forze di Caviglia potessero passare
il fiume.
Mentre febbrile era la preparazione, svolta
nel maggior segreto, mantenuto anche di fronte al Governo, Orlando, ignaro,
insisteva perché l’attacco fosse sferrato e telegrafò l’assurdo incitamento: «
Tra l’inazione e la sconfitta, preferirei la sconfitta. Muovetevi! ». Diaz non
era uomo da sacrificare la preparazione ad ubbie politiche, fino a
compromettere la vittoria, e tenne duro: virtù rara nei comandanti. Ed ebbe in premio la vittoria per l’Italia.
La modificazione apportata al piano
originale ne eliminò il difetto e lo fece meglio aderire alla situazione. La battaglia
che la 4' Armata impegnò sul Grappa il 24 ottobre e condusse da sola per tre
giorni, battaglia eroica e sanguinosa, attrasse verso il monte riserve nemiche
e diede alla fronte avversaria lo scossone che ne facilitò il cedimento, quando
nella notte dal 26 al 27 ottobre le Armate 8°, 10°, 12° gittarono i ponti ed
iniziarono il contrastatissimo passaggio del fiume.
L'Armata del Grappa subì il 67 per cento
delle perdite sofferte da tutto l’Esercito nella battaglia, perdite che ammontarono
a 36.498 morti e feriti.
La vittoria nacque dunque da un piano ardito, modificato con intelligenza e
prontezza, in relazione alle circostanze, eseguito con abilità di comandi ed eroico
slancio di truppe, e fu vittoria italiana.
Purtroppo imposizioni d’ordine politico,
ed anche una certa ingenuità da parte italiana, diedero esca alle svalutazioni
della vittoria che all’estero non mancarono. Alla vigilia della battaglia si
volle dare al generale inglese lord Cavan ed al generale francese Graziani
l’onore di comandare delle Armate e furono create lì per lì, per l’uno, la 10° e, per il secondo, la 12° armata che, in realtà, erano inglese
e francese soltanto di nome, poiché erano costituite, la prima, da due divisioni
britanniche e due italiane e, la seconda, da una divisione francese e tre
italiane.
La generosità italiana fu bensì corrisposta
dalle truppe alleate, che si batterono egregiamente, ma non da autorità,
giornalisti e storici nei rispettivi paesi, che osarono dare alla risposta
dalle truppe alleate, che si batterono egregiamente, ma non da autorità,
giornalisti e storici nei rispettivi paesi, che osarono dare alla vittoria il
crisma di vittoria vuoi inglese, vuoi francese.
La battaglia attraversò una grave crisi il
27 ed il 28, superata dall’abilità manovriera di Caviglia e dall’eroismo dei
soldati, ma il 29 ottobre tutta la fronte italiana era già in movimento e le
armate stavano per dilagare dal Trentino alla piana veneta, inseguendo il
nemico. Eppure, ancora in quel giorno 29, alla domanda rivoltagli da Lloyd
George e da Clemenceau sulla probabile durata della guerra, Foch rispondeva: «...può
durare tre mesi, forse quattro o cinque. Chi lo sa? ».
Lloyd George ancora si opponeva alla richiesta
dell’ammiragliato britannico di includere nelle condizioni di armistizio per la
Germania la consegna della flotta, temendo che ne risultasse un prolungamento
della guerra; vi acconsentì il 4 novembre, perché la vittoria italiana
permetteva ormai di imporre qualsiasi condizione.
Vittorio Veneto decise ed affrettò la fine
della guerra. Scrisse il Ludendorff: « A Vittorio Veneto l’Austria non aveva
perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e se stessa, trascinando la
Germania nella propria rovina. Senza la battaglia distruttrice di Vittorio
Veneto noi avremmo potuto continuare la resistenza disperata per tutto
l’inverno, avere in tal modo la possibilità di conseguire una pace meno dura,
perché gli Alleati erano molto stanchi». E lo storico tedesco von Bernhard
scrisse: «In Italia avvenne la decisione ».
Vittorio Veneto smentì la previsione di
Foch che la guerra sarebbe durata fino alla primavera e l’armistizio francese
di Compiègne, 111 novembre, fu la conseguenza diretta di quello italiano di
Villa Giusti, del 3 novembre.
Continua, nella memoria dei vecchi soldati
di Vittorio Veneto, a svolgersi il film delle reminiscenze: c’è chi rivede la
dura lotta sul Grappa e il battaglione Aosta andare ancora all’attacco, dopo di
aver perduto tra morti e feriti 18 ufficiali e 641 alpini; chi i Pontieri
gettare i ponti e ricostruirli instancabili, fra le granate scoppianti, dopo ogni distruzione, mentre i loro morti scendevano galleggiando sulla corrente;
chi i plotoni di fanti falciati dalle mitragliatrici ed altri plotoni sostituirli
e procedere imperterriti; chi le avanguardie entrare in Conegliano, in Vittorio
Veneto, in Sacile; chi i Dragoni di Savoia — allora si chiamavano così —
galoppare verso Udine; chi il supremo olocausto dei Cavalleggeri di Aquila e dei Bersaglieri al quadrivio del Paradiso, mentre le trombe suonavano, col « cessate il fuoco », l’estremo
saluto alla giovinezza di Alberto Riva Villasanta, immolata nell’ultimo assalto.
Bello sarebbe stato poter tramandare idealmente
alle nuove generazioni queste reminiscenze di giorni gloriosi, in un solenne
raduno dei superstiti di Vittorio Veneto sull’Altare della Patria.
Sarebbero stati ancora con noi alcuni dei
generali che comandarono nella battaglia, da Ottavio Zoppi, comandante della 1*
divisione d’assalto che, primo, passò il Piave, a Stringa, alpino. Purtroppo la
circostanza non parve degna di una celebrazione nazionale. Per il
Cinquantenario sarà troppo tardi: molti dei superstiti di Vittorio Veneto non ci saranno più.
Una grande occasione è andata perduta: la
gioventù italiana avrebbe visto ancora una volta i vecchi combattenti salutare
commossi le bandiere dei Reggimenti e, se accanto alle nuove avesse potuto
vedere quelle lacere che quarant’anni or sono passarono il Piave od ascesero le
valli del Trentino sul vento della vittoria, tratte per un’ora dal Sacrario del
Vittoriano ad affermare che la tradizione si perpetua, avrebbe assistito ad una
solenne conciliazione fra il passato ed il presente, nel nome d’Italia!
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