NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 30 settembre 2017

Nasce il progetto “Les Ducs des Alpes”, “I Duchi delle Alpi”

I nodi culturali al centro del progetto sono: l’Abbazia di Hautecombe, il Castello della Manta e il Castello di Racconigi


Accrescere e sviluppare l’attrattività dei territori trans-frontalieri tra Piemonte e Savoia attraverso la definizione e la costruzione di un itinerario culturale incentrato su alcuni luoghi emblematici e simbolici della storia del Casato dei Savoia.
Questo è il principale obiettivo del progetto “Les Ducs des Alpes” – “I Duchi delle Alpi”, progetto finanziato nell'ambito del programma di cooperazione transfrontaliera tra Francia e Italia Alcotra.
Il progetto, promosso dal Dipartimento della Savoia (capofila) e da FAI – Castello della Manta, Associazione Le Terre dei Savoia, Fondation d’Hautecombe, sarà illustrato venerdì 6 ottobre alle ore 11.30 presso il Castello della Manta. Saranno presenti i rappresentanti dei partner e delle istituzioni del territorio: Comune di Manta, Provincia di Cuneo, Regione Piemonte, ATL del Cuneese.
I nodi culturali al centro del progetto sono: l’Abbazia di Hautecombe, il Castello della Manta e il Castello di Racconigi.
Il progetto, nel suo percorso di attuazione che avrà durata triennale, porterà a: definire e mettere in atto una strategia comune di promozione del territorio; accrescere l’attrattività del patrimonio culturale; qualificare un prodotto turistico e culturale attraverso iniziative espositive congiunte e l’introduzione di strumenti innovativi di supporto alle visite. 
Ciascuno dei beni culturali sopra-indicati sarà interessato da mirati lavori strutturali volti ad aumentarne il potenziale di attrattività. Per l’Abbazia di Huatecombe è previsto il restauro della monumentale facciata di ingresso; per il Castello della Manta il restauro della “Galleria delle Grottesche” con la riaperture delle finestre – come nell’impostazione originaria –, il restauro della facciata e la rifunzionalizzazione di alcuni spazi per migliorare l’accoglienza del Castello; per il Castello di Racconigi il restauro – e conseguente apertura al pubblico - del Bagno di Carlo Alberto.
Verrà definito e organizzato un programma congiunto e coordinato di mostre ed esposizioni con al centro il tema della memoria della Casa Savoia che verrà declinato nelle diverse sedi espositive in funzione delle caratteristiche strutturali e dei valori culturali e territoriali delle stesse.

[...]


Io difendo la Monarchia I cap - I parte

La prima crisi del parlamento
La vittoria del 1918 e i suoi effetti - Come si venne all'intervento nel 1915 - L'intimazione della piazza al Parlamento - Il Re costretto a scegliere tra il Parlamento e l’opinione pubblica - Si fa avanti Mussolini - Le intemperanze di Milano.
Nel novembre del 1918, al termine di una guerra vittoriosa, ma evidentemente troppo lunga e sanguinosa per la nostra compagine nazionale, si verificò un fenomeno straordinario ed insolito. La vittoria non rafforzò gli istituti fondamentali del paese, quelli che avevano costituito l'unità d’Italia e l’avevano sorretta dal 1861 al 1918: la Monarchia, il parlamento, l’esercito. Questi istituti avevano guidato e rappresentato l’Italia per sessanta anni. Ora avevano vinto l'ultima guerra di liberazione e raggiunto le frontiere naturali del Regno. Ma fu facile notare che mentre lo Stato aveva superato l’ardua prova e poteva vantarsi di aver liberato Trento e Trieste e di aver accresciuto il proprio prestigio sedendo allo stesso tavolo degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e della Francia, il paese, esausto per lo sforzo, appariva indebolito dalla guerra ed era percorso e minacciato da correnti dissolventi e nemiche. Si verificavano da noi, non i fenomeni che si notavano nei paesi vittoriosi, ma quelli caratteristici dei paesi vinti. Era lecito ai combattenti, di fronte alle manifestazioni popolari, porsi le domande: «Abbiamo noi vinto o perduto la guerra? Abbiamo noi meritato o demeritato della Patria?». L'Italia non aveva compiuto grandi sforzi nelle guerre del Risorgimento: guerre brevi e poco sanguinose: la maggiore, quella del 1859, era stata vinta prevalentemente dal forte esercito francese comandato da Napoleone III. Compiuta l’unità, la guerra d’Africa e quella di Libia non uscivano dal quadro delle comuni guerre coloniali. La partecipazione popolare a queste guerre e i sacrifici subiti erano stati modesti. Comunque esse non avevano modificato il tessuto della classe politica del paese.
Il popolo, in senso proprio, era rimasto pur dopo l’unità, quasi estraneo alla direzione politica del paese affidata al Parlamento di formazione e di educazione culturale prevalentemente borghese. Vi era stato, sì, uno spostamento da destra a sinistra nel 1876, con l’avvento, appunto, della sinistra al potere, ma non si può dire che fosse mutata la classe di governo. Si chiamò, quella, e fu già un'amplificazione retorica assai frequente nella nostra letteratura politica, una rivoluzione parlamentare.
Piuttosto che mutare, la classe di governo, venne a dilatarsi dando voce e rappresentanza ai nuovi ceti della vita italiana specialmente a quelli del Mezzogiorno. Ma i Depretis, i Cairoli, i Crispi non fecero politica sostanzialmente diversa dai Lanza, dai Minghetti, dai Sella.
Anche il suffragio politico non fu eccessivamente allargato fino alla riforma elettorale di Giolitti successiva alla guerra libica. Bonomi che è, con Orlando, l’ultimo superstite di quella sagace e benemerita classe politica che fondava tutto il suo giuoco sulla meccanica del Parlamento, esamina con molta acutezza quella riforma giolittiana nel suo ultimo libro: La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto. Il suffragio universale largito da Giolitti non modificò profondamente l’equilibrio politico del paese.
Il momento difficile venne dopo: quando, scoppiata la guerra europea nell’agosto del 1914, il Governo dovette decidere tra la neutralità e la guerra. La decisione di neutralità fu approvata da tutti, ma la concordia cessò, quando, nei mesi successivi, si trattò di decidere per l’intervento. Il giuoco politico cessò allora di svolgersi nello stretto ambito del Parlamento. I partiti furono scossi nella loro struttura dalla grandezza dell'avvenimento e dalla gravità della decisione.
La democrazia giolittiana fu neutralista, mentre la democrazia massonica fu interventista. Repubblicani, futuristi e nazionalisti furono interventisti e vennero acquistando nel paese assai maggior peso di quanto non avessero in Parlamento. I socialisti riformisti furono pure per l'intervento, e così i sindacalisti, mentre furono neutralisti il socialismo ufficiale e la confederazione del lavoro. I cattolici nella maggioranza furono per la neutralità, ma poi accettarono l'intervento. Le minoranze politiche scarsamente o affatto rappresentate in Parlamento si accesero al fuoco dell'interventismo e divennero vivaci e aggressive: le agitazioni della piazza cominciarono a influenzare le decisioni della rappresentanza parlamentare.
La maggioranza di Montecitorio era allora giolittiana e Giolitti era contrario all’intervento. Minoranze aspre e combattive: garibaldine, futuriste, nazionaliste, massoniche, repubblicane, socialiste riformiste, sindacaliste riuscirono a tenere la piazza e a commuovere le folle. Ora quegli avvenimenti sono lontani e possono essere giudicati con il necessario distacco. Quasi tutti i libri dedicati a quell'argomento, scritti per lo più in medias res, ancora caldi degli eventi vissuti difendono l’intervento italiano nella prima guerra mondiale. La corrente neutralista della democrazia, non ha lasciato scritti in difesa del proprio operato. Lo stesso Giolitti e i giolittiani, subito dopo il primo atteggiamento negativo, votarono per la guerra e non negarono più l'opportunità dell’intervento per se stesso, ma si limitarono ad avanzare delle riserve sulla tempestività della nostra entrata in campagna e sulla preparazione militare e diplomatica della guerra.


I socialisti, invece hanno sempre riaffermato la loro dottrina contraria alla guerra. Quando
Mussolini, direttore dell’Avanti! si pronunciò nell’autunno del 1914 per l’intervento, essi lo espulsero dal loro Partito. Sta bene. Ma se l’Italia avesse seguito la politica del socialismo e la Germania avesse vinto la guerra, il germanesimo, tanto temuto e detestato da, socialisti, non sarebbe divenuto fin da allora padrone dell’Europa?
Questa breve osservazione dimostra quanto sia, arduo per i partiti, agire e giudicare fuori della contingenza immediata e presumere di disegnare dottrine e programmi sub specie aeternitatis.

i furono, nelle giornate procellose del maggio 1915, dopo le dimissioni di Salandra, moti di piazza per l'inter-vento, e varie riunioni di parlamentari autorevoli. Giolitti, capo della maggioranza, manifestò con chiarezza il suo pensiero. Aveva poca fiducia nell’esercito che non avrebbe resistito ad una lunga guerra. Era ormai intervenuto, è vero, il patto di Londra (21 aprile 1915) ma da esso, a giudizio di Giolitti, ci si poteva liberare con un voto della maggioranza parlamentare. Più tardi Giolitti affermerà di non aver avuto precisa notizia del patto di Londra: Salandra dirà il contrario ed è probabile che almeno la notizia dell’impegno sottoscritto dal Governo in carica fosse giunta all’insigne statista di Dronero.
Après coup, e cioè al termine del conflitto, Giolitti dirà che egli era contrario a una nuova guerra anche perché essa avrebbe distrutto l’equilibrio europeo e avrebbe sconvolto l’equilibrio economico tra le classi del nostro paese con l’avvento di una grossa categoria di speculatori. In fine dirà che, a ogni modo, egli sarebbe intervenuto più tardi, in un’ora favorevole all’Italia. Queste considerazioni ed altre ancora, sono sempre possibili, ma non riguardano il nostro tema che non è quello di ricercare se Giolitti, così esperto e così prudente, aveva ragione o torto. Le ragioni dell’intervento italiano sono consolidate e rafforzate dalla seconda guerra mondiale. Nel conflitto delle nazioni europee minacciate di soffocamento dal tentativo ripetuto di dominazione tedesca, l’Italia doveva essere nel 1915 con l’Inghilterra e la Francia.
Del resto, fu sempre convinzione dei più assennati uomini di governo italiani, che l’Italia non dovesse mai trovarsi in conflitto con l’Inghilterra. Lo stesso Crispi, fervido fautore della triplice alleanza, amico di Bismarck, usava ricordare, quando era ministro, e più volte disse a Re Umberto, che la fedeltà alla Triplice non poteva e non doveva mai escludere il buon accordo con la Gran Bretagna: specialmente dopo il patto mediterraneo del 1887. Fece dunque bene il Governo del tempo a denunciare la Triplice e a schierarsi con le democrazie.


Fu follia di Mussolini seguire altra via nel 1939 e nel 1940 sbagliando tutte le previsioni e tutti i calcoli. Ma non è questo che ora vogliamo dimostrare. Noi vogliamo osservare che per la prima volta, nel maggio 1915, la volontà del Parlamento italiano fu forzata da un moto di piazza. E per la prima volta la Corona fu chiamata in causa dal popolo per decidere su di una questione capitale nel supremo interesse della nazione. La maggioranza parlamentare abbandonò, sotto la pressione della piazza, il suo atteggiamento neutralista: atteggiamento, si noti bene, che non aveva dato luogo a nessuna manifestazione esteriore in Parlamento. La poesia, nella sua più celebrata espressione, contribuì a inasprire e, in sostanza, a intorbidare la politica. D’Annunzio secondo il pessimo e provinciale costume della nostra letteratura eroica, coprì d'insolenze pittoresche e di accuse infondate e calunniose, Giolitti: la folla applaudì al poeta e urlò che voleva la fucilazione del «traditore».

martedì 26 settembre 2017

Il libro azzurro sul referendum - VII cap. - 7

DICHIARAZIONI NOTARILI ED ATTESTAZIONI
PIEMONTE 

Repertorio 7238/3875. 

Repubblica Italiana

Deposito di documento.
Quattordici aprile 1953 in Torino nello studio del Notaio Mijno Via Alfieri 19, alle ore diciassette e minuti trenta.
14-IV-1953
Innanzi me Tabacchi dottor Pasquale coadiutore temporaneo dell’avv. Ulrico Mijno Notaio in Torino, iscritto al Collegio Notarile dei Distretti riuniti di Torino-Pinerolo — tale nominato con provvedimento del Consiglio Notarile dei suddetti distretti riuniti in data 19 dicembre 1953;
senza l’assistenza dei testimoni per espressa rinuncia fattane dal signor comparente col mio consenso;
sono comparsi i signori:
1) Ollivero Luigi fu Eugenio nato a Bibiana domiciliato a Torino Via Bellezia 11, avvocato;
2) Rossi Carlo fu Michelangelo nato a Celenza residente a Torino Via Schina 8, generale di corpo d’Armata;
3) Gatti Gesualdo fu Filippo nato a Roma residente a Torino Via Artisti 34, pubblicista;
4) Grand’Ufficiale Taglietti Ettore fu Ecc. Giuseppe;
5) Malchiodi Ercole fu Erminio nato a Bobbio Piacentino domiciliato a Torino Via Viotti 1, avvocato;

della cui personale identità io Notaio sono certo, i quali mi fanno istanza di ricevere in deposito e conservare tra i miei atti allo scopo di poterne rilevare copie autentiche diverse una dichiarazione non intestata redatta su carta da bollo da L. 32 stesa su facciate tre e mezza circa contenente dichiarazione dei firmatari circa il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che i comparenti riconoscono prima d’ora da loro firmata.
Aderendo alla fattami richiesta io Notaio allego al presente atto sotto la lettera « A » il documento sopra indicato, omessane la lettura per dispensa dei Comparenti e da loro con me vidimata.
Il presente atto da me scritto in parte ed in parte da persona di mia fiducia su due facciate e qualche linea di un foglio è stato da me letto ai Signori Comparenti i quali a mia domanda lo dichiarano conforme alla loro volontà e con me lo sottoscrivono alle ore diciotto.
In originale firmati:
Ercole Malchiodi - Gesualdo Gatti - Ettore Taglietti - Luigi Ollivero  Generale di Corpo d’Armata (Ris.) Carlo Rossi - Pasquale Tabacchi (coadiutore).
Allegato A
DICHIARAZIONE
Per intendere come siasi svolta in Torino e in Piemonte la campagna monarchica in occasione del referendum occorre ricordare anzitutto che l’ambiente era stato montato, con ogni espediente più demagogico, contro la Dinastia Sabauda. Uomini che pure avevano lottato per la resistenza, non avevano esitato a far proprii, e ad accreditare fra le masse, odiosi attacchi formulati, contro la Casa Savoia, da giornali della così detta repubblica di Salò. Indubbiamente vi furono episodi di violenza, specie nella periferia di Torino e di altre città per impedire, agli oratori monarchici, di prendere la parola e per allontanare ascoltatoci.
A Torino e nelle principali città del Piemonte, attraverso l’opera dei Comitati di Liberazione, posti di comando erano stati assegnati, all’infuori di qualsiasi designazione popolare, ad elementi che, consapevolmente o inconsapevolmente, erano asserviti alla politica moscovita.
Da ciò lo spiegarsi di molte influenze contrarie all’idea monarchica e il determinarsi in strati della popolazione, della convinzione che la causa della Monarchia fosse perduta a priori.
Il referendum si svolse così in una situazione psicologica tale da escludere la genuina espressione della volontà popolare. In Piemonte e in genere in Alta, Italia, nelle giornate successive alla liberazione, si erano verificati, ad opera di ignoti, parecchi omicidi di innegabile movente politico. Le Autorità di occupazione, se avevano contrastato una rivoluzione economica che ad alcune correnti politiche pareva, secondo le loro speranze, imminente, non si erano però volute impegnare in un’opera, che sarebbe stata agevole, di repressione dei delitti e di tutela dell’ordine pubblico sostanziale. Anzi, in quei tempi in cui l’esigenza della solidarietà europea non si era ancora imposta, le Autorità alleate — fossero o non fossero sempre intellettualmente parlando, all’altezza della situazione — davano a divedere di considerare senza dispiacere il determinarsi, fra di noi, di acerrime lotte interne, tali da togliere al nostro Paese ogni efficienza sul piano internazionale. Le stesse Autorità erano animate dal solo intento di ottenere la nomina di deputati alla Costituente i quali, approvando, qualunque ne fosse la sostanza, il trattato di pace, lo rivestissero di una qualche parvenza di legittimità internazionale. Queste Autorità di occupazione non potevano non sapere, e non tenere presente nella loro condotta, che gli elementi fidi alla Monarchia del Risorgimento, erano anche i più sensibili alla giusta tutela degli interessi morali e storici della Nazione italiana, onde il loro prevalere avrebbe reso più difficile l’accettazione formale, per parte dell’Italia del Trattato di pace.
La tesi che le forze di occupazione fossero contrarie alla permanenza della Monarchia, era stata abilmente Valorizzata. Nel Teatro Vittorio Emanuele di Torino, l’On Ferruccio Parri, fino a poco tempo prima Presidente del Consiglio dei Ministri, affermò appunto durante la campagna per il referendum, che certi Stati, già nemici, avrebbero potuto fare patti migliori all'Italia nell’elaborazione del trattato di pace se il nostro Paese avesse prescelto un regime repubblicano. La convinzione che, per ottenere più eque condizioni di pace, e prima ancora, gli aiuti materiali di cu l’Italia aveva letteralmente bisogno per vivere, fosse conveniente abbandonare l’istituto Monarchico, creò in molte persone un caso di coscienza veramente grave, consistente nel dubbio che il prevalere della Monarchia potesse rendere ancor più penosa la situazione in cui l’Italia si trovava ni 1947. Quando poi si lesse i! Trattato di pace si vide quanto illusoria e fallace fosse la speranza che l’Istituto repubblicano potesse condurre ad un equo trattamento del popolo italiano. Ma ormai il dubbio insinuato nell’animo di molti cittadini aveva prodotto il suo effetto.
Potrebbe aggiungersi, a spiegare sinteticamente questa deformazione della volontà popolare, quale indubbiamente deve ravvisarsi nei risultati del referendum, che, anche senza esplicite pressioni, un plebiscito è sempre conforme alle vere o supposte intenzioni di chi occupa il territorio in cui avviene la consultazione popolare.
Per queste ragioni noi riteniamo che il referendum del 2 giugno 1946 non abbia espresso la volontà popolare.
Torino, 14 aprile 1953.
In originale firmati:
Ercole Malchiodi - Gesualdo Gatti - Luigi Ollivero - Ettore Taglietti - Generale di Corpo d’Armata Ris.) Carlo Rossi.

Registrato a Torino il 24 aprile 1953 al N. 21399 con L. 651.
Copia conforme all’originale firmato in cadun foglio a sensi di legge.
Torino, 27 aprile 1953.
Pasquale Tabacchi, coadiutore

Torino, 27 aprile 1953

Via della Consolata N. 8
All’Unione Monarchica Italiana - Torino.
Ho preso visione della dichiarazione notarile relativa al «Referendum » istituzionale del 2 giugno 1946, al N. di repertorio 7238/3875 in data 14 aprile 1953, registrata a Torino il 24 aprile al N. 21399.
Concordo pienamente con quanto in essa è detto e desidero inviare la mia adesione, dolente che 1 assenza da dorino mi abbia impedito di firmare contemporaneamente agli altri amici Avv. Ercole Mal eh iodi, S. E. il Generale Carlo Rossi, Maggiore Gesualdo Gatti, S. E. Ettore Taglietti e Avv. Luigi Ollivero. 
Cordiali saluti.

Dev.mo Paolo Bodo

domenica 24 settembre 2017

Apre oggi al pubblico a Cavour (TO), la mostra "Dame e Cavalieri"



Dopo il grande successo riscosso al prestigioso museo del gioiello di Vicenza, sbarca a Cavour, nella splendida cornice della gioielleria Ballarino, la mostra “Dame e Cavalieri, i gioielli delle onorificenze”.

L'esposizione temporanea inaugurata ieri  in forma privata alla presenza di SAR Il Principe Sergio di Jugoslavia, nipote dell'ultimo Re Umberto II, apre oggi domenica 24 settembre, al pubblico e continuerà sino a domenica 8 ottobre, in orario di negozio ed ingresso libero. 
Ideata ed organizzata dai fratelli Chiara e Giovanni Ballarino (nelle foto allegata), titolari dello show room, con la collaborazione della dottoressa Alessandra Possamai, curatrice del museo vicentino, la mostra è allestita all'interno della gioielleria sita in via Giolitti all'angolo con la piazza centrale di Cavour (To). 
La mostra “Dame e Cavalieri” celebra e richiama alla memoria la tradizione storica delle onorificenze che si è tramandata nei secoli e che ancora vive nel panorama italiano e mondiale, in differenti forme e rappresentazioni. 
L'esposizione comprende le onorificenze di Cavalierato maschile con circa 70 pezzi, scelti tra le più importanti e rare collezioni del mondo, e 10 pezzi significativi che rendono omaggio alla collezione di Giovanni Giolitti, onorificenze date allo statista italiano dal Re e da altri Stati Europei e mondiali in qualità di Capo di Governo.
[...]


La mostra apre al pubblico domenica 24 settembre e continuerà sino a domenica 8 ottobre


Orari: 9,30-12,30 15,30-19,30 dal martedì alla domenica.



L'ingresso è libero e gratuito.

L’altra Caporetto, un secolo dopo: una disfatta piena di eroismi


Duole rilevare la totale assenza della figura del Re dalla narrazione del riscatto del Piave. Comunque da leggere.
Lo staff



di Aldo Cazzullo su www.corriere.it


L’attacco, l’incapacità di resistere, le fughe. Cronaca della grande sconfitta italiana. 
In realtà la gran parte dei nostri soldati fu valorosa: lo provano i mille corpi nell’ossario tedesco. Ora nella conca di Plezzo c’è un golf club, nell’Isonzo si fa rafting


Non si è mai capito bene perché i 400 cannoni di Badoglio abbiano taciuto, nell’alba nebbiosa del 24 ottobre 1917. Ora dalla cima del Kolovrat ci si butta con il parapendio. Vista da quassù, la vallata dove passarono i tedeschi sembra un bersaglio facile. Si è pensato che Badoglio volesse lasciar entrare il nemico nella trappola per colpirlo con comodo. In realtà, i tedeschi intercettavano le sue comunicazioni radio: ovunque il generale si spostasse, veniva individuato e bersagliato; distrutte le linee telefoniche, sovrastate dal fragore le «trombette bitonali», abbattuti pure i piccioni viaggiatori. La nebbia fece il resto. L’ordine di aprire il fuoco non arrivò mai. Eppure sapevamo tutto. Fin da sabato 20 ottobre, quando un disertore boemo, il tenente Maxim, si è consegnato con notizie dettagliate sull’attacco imminente. L’Isonzo restituisce un cadavere con la divisa dei tedeschi: ci sono anche loro. Lunedì 22 ottobre arriva il re, che viene avvisato: la situazione è drammatica. Vengono fatti saltare i ponti sul fiume. L’editoriale del Corriere della Sera annuncia un’offensiva nemica alle porte. Martedì 23 ottobre Cadorna tiene consiglio di guerra, sotto un ippocastano. I suoi generali sono quasi tutti piemontesi come lui: Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi, Cavallero (che è ancora colonnello). Si parla dialetto; Caviglia, che è ligure di Finale, si arrangi. Cadorna è disperato: «Mio padre prese Roma, a me tocca perderla!». Badoglio si è appena sfogato con l’attendente: «Ce la siamo data a intendere gli uni con gli altri, e adesso è finita! Non c’è più nulla, neanche lo stellone!». Ma ora di fronte al comandante in capo che lo incalza — «e chiel? L’on ca fa chiel?», lei cosa fa? — ostenta tranquillità: «Mi? A mi ‘n manca gnente. Mi manca solo un campo di prigionia per i nemici che cadranno nelle nostre mani». Cadorna gli mette una mano sulla spalla.
[...]

sabato 23 settembre 2017

Vittorio Emanuele II

Articolo del 1961, uscito sul notiziario monarchico dell'UMI.

di Luigi Salvatorelli

Nella fioritura di studi riguardanti il Centenario della proclamazione del Regno è di preminente importanza il seguente sintetico articolo del Prof. Luigi Salvatorelli, apparso su «La Stampa» di Torino VII gennaio scorso. Specie considerando che il dotto autore non ha certo preferenze monarchiche, lo studio sembra perciò nel modo migliore celebrare nel rispetto della verità storica, non solo la figura del Padre della Patria come massimo artefice dell’unità, ma con l’accenno che vi si fa alla benemerenza del Re nel 1876 «per aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra consacrando definitivamente il regime parlamentare», diventa di particolare attualità politica mettendo in evidenza quale garanzia offra sempre l’Istituto monarchico, con il contrappeso della forza della tradizione, alla continua e travagliata aspirazione dei popoli verso più estese ’’aperture” sociali.

E’ di dominio comune il detto, che la grandezza di Vittorio Emanuele II consistè essenzialmente nel comprendere che per lui si poneva necessariamente la scelta fra il salire a Re d'Italia, o il discendere a monsù Savoia: espressioni che risalgono a lui stesso.
Possiamo anche oggi, nel primo centenario dello Stato italiano unitario, ripetere il detto, ma con una modificazioni importante: la soppressione dell’avverbio « necessariamente ». La storia umana non è fatalità; e non lo fu neanche in questo caso. Quella scelta consapevole di Vittorio Emanuele II, fu atto di volontà libera, in risposta a una situazione non escludente per sé stessa una terza via: che egli rimanesse Re di Sardegna, con un regno diminuito o ingrandito, o rimasto tal quale.
La scelta libera ci fu: ma sarebbe errato considerarla come effettuata «ab origine» e perpetuamente rimasta senza modificazione. Il politico riuscito si distingue dal fallito — opportunista, o fazioso, o dottrinario, o moralista — innanzi tutto per questo: che non svolge un programma prestabilito in articoli e paragrafi, come un progetto di legge o un regolamento amministrativo; bensì pone innanzi a sé certe finalità generali, certi obbiettivi d’insieme, e cammina verso di essi con una continuità d’indirizzo includente ogni inflessione, in un senso o in un altro, richiesta dalle circostanze.
Vittorio Emanuele II, la sera di Novara, non disse certamente a nessuno, e neanche a se stesso: voglio divenire Re d’Italia, a rischio di finire come un privato qualunque. Si propose invece — mentre la notte calava sul terreno della disfatta, e Carlo Alberto abdicatario si avviava verso l’esilio, e vicino al nuovo Re c’era appena un ministro — due obbiettivi, ch’egli vedeva indissolubilmente connessi fra loro: mantenere e consolidare il regno costituzionale di Piemonte; mantenere e consolidare la rappresentanza e il promovimento, per parte del regno medesimo, della causa nazionale italiana.

Vittorio Emanuele II fu politico autentico, di prima grandezza, secondo — nel campo governativo — solamente a Cavour, della cui superiorità ebbe sempre un certo fastidio e contro la quale egli recalcitrò talvolta; ma pur fastidiendo e recalcitrando, fornì all'opera di lui il fondamento necessario, con lo sprone o il freno (più il primo che il secondo) opportuno.
Nel quadro storico che conosciamo, è altrettanto inconcepibile una creazione dello Stato unitario senza l’uno, come senza l’altro.
Ambizioso certamente, Vittorio Emanuele II, e autoritario; e perfino, talora, millantatore. Ma in lui meglio che in altri si vede bene come il fattore personale sia indissociabile da quello politico-etico. Esso è il sale della vivanda, il motore della macchina. Stimolato dal desiderio dì grandezza, dall'autocoscienza di capacità, il politico crea la sua opera, che non sorgerebbe, o riuscirebbe diversa e inferiore, senza quello stimolo personale. La differenza in ciò, da un politico autentico all'altro si ritrova nel dissimulare più o meno, meglio o peggio, lo stimolo: affare di gusto, di estetica, piuttostochè portata storica e dì giudizio morale.

* * *

La prima vocazione di Vittorio Emanuele II (rimasta poi sempre in fondo al suo animo) fu quella militare, bellica, colorata di romanticismo ottocentesco. Giova qui richiamare l’episodio del Duca di Savoia (questo era il titolo dell’erede al trono), che la sera del 23 marzo 1848 affronta a notte per via, imbacuccato in un mantello coprentegli la faccia, il presidente del primo Gabinetto costituzionale, Cesare Balbo, per chiedergli istantaneamente di non essere dimenticato nel formare i quadri dell’esercito che varcherà il Ticino.
Ma già dopo Custoza, nel periodo dell’armistizio, il suo interesse politico si sviluppò. Al generale Dabormida, suo familiare, domanda di essere messo al corrente sullo stato della mediazione franco-inglese, come sulla situazione ministeriale, lagnandosi di essere «perfettamente al buio degli avvenimenti politici del nostro paese». Indubbiamente, il suo interesse finale è quello di sapere se e quando ci sarà la ripresa della guerra; ma è caratteristica la connessione accentuata da lui fra situazione politica e militare. Ed è anche caratteristico che la sua preoccupazione per una rigida disciplina militare sia accompagnata da uno schietto umorismo: «Dobbiamo ciecamente obbedire a coloro che ciecamente ci comandano»; «Fatti soldato di cavalleria in tempo di guerra, se vuoi vivere lungamente su questa terra». Il suo primo proclama del 27 marzo 1849 (senza controfirma dei ministri) delinea concisamente tutto il programma necessario in quel primo momento: mantener salvo l’onore, rimarginare le ferite, consolidare le istituzioni costituzionali.
La sua veduta freddamente realistica. della situazione è scolpita nelle parole quasi beffarde al deputato Menabrea, per poco non rimasto accoppato dalla caduta di un pezzo di volta a Palazzo Madama (il Re andava a prestare il giuramento): «Ch’a i fassa nen attension, i’ n’a vedroma ben d’autre».
Nonostante qualche incertezza iniziale, qualche momentaneo scoraggiamento, i primi anni del regno sono una testimonianza di equilibrio, di consapevolezza, di tatto. Fra le pressioni di destra (a cominciare da quelle della madre) e le provocazioni di sinistra, la linea costituzionale è seguita con autorità, con fermezza, con lealtà, a cominciare dalla scelta del nuovo presidente del Consiglio, Massimo d’Azeglio, dopo il provvisorio Delaunay indicatogli dal padre. Nel primo proclama di Moncalieri, del 3 luglio, è troppo colorita la frase (rispondente, peraltro, agli umori dei dirigenti europei): «L’Europa, minacciata nella sua esistenza sociale, è costretta oramai a scegliere fra questa e la libertà». Ma essa serve di rafforzamento all’ammonizione: «Sta in voi, nel vostro senno, preservarvi da questi estremi, non rendere la libertà impossibile, né impraticabile Io Statuto». Motivo ripreso nel secondo e più noto proclama per il nuovo scioglimento della Camera: ma ripresa dietro cui c’è qualche motivo di ritenere che non si nascondesse nessun disegno di soppressione, o sospensione, dello statuto ma semplicemente una messa in vigore del trattato di pace con l’Austria per sola autorità regia.
I reazionari in attesa di colpi di Stato, o almeno di leggi severamente restrittive, rimasero delusi. Né riuscirono più fortunate le pressioni di cui sarebbe ora di fare (in tanto diluvio dì pubblicazioni documentarie) una analitica e sintetica storia.
Già l’anno seguente, 1850, per l’abolizione del Foro ecclesiastico, il Re si trovò a dover affermare la sua costituzionalità e insieme con essa quella dello Stato, di fronte ai tradizionali privilegi ecclesiastci, e Vittorio Emanuele l’affermò, superando personali, forti sentimenti di devozione alla Chiesa e al papa Pio IX.
Prima fase di una battaglia che durerà sino alla fine della vita, sempre più ardua, ma anche più vittoriosa; battaglia che allora concorse, quanto e più di quelle militari, alla fondazione dello Stato italiano, e che nell'insieme conserva ancora oggi valore esemplare.
Un valore analogo possiamo assegnare al comportamento di Vittorio Emanuele n rispetto al «connubio» Cavour - Rattazzi, e alla conseguente ascesa e lunga permanenza di Cavour al potere, di necessità e utilità politica somma, ma non facile sempre a ingranare con quella funzione direttiva che il Re riteneva suo diritto e dovere.
Impossibile, per mancanza di spazio, rievocare qui le singole fasi del decennio di collaborazione fra i due, con gli episodi di accordo e di contrasto; diciamo qui che, a parte gli urti personali (con la ordinaria mescolanza di diritto e di torto), l’accordo finì per prevalere sempre sulla linea migliore per la patria italiana. Con Cavour, e forse prima ancora di lui, Vittorio Emanuele II volle la spedizione di Crimea; dietro Cavour egli fu, con tutta la propria risolutezza e audacia, per il congresso di Parigi e la successiva sempre più ardita esplicazione della missione italiana del Piemonte; e non tanto «dietro» quanto a fianco, o addirittura avanti (grazie alla responsabilità costituzionale del grande ministro), stette di fronte a Napoleone III e al resto d’Europa, per la tutela dell’indipendenza e dignità dello Stato, per il promovimento dell’alleanza e della guerra, per la riunione dell’Italia centrale e meridionale. Al momento della spedizione dei Mille, è Vittorio Emanuele II a strappare il consenso di Cavour, reluttante per gravissime ragioni. Ma è soprattutto di fronte a Garibaldi che la funzione di re Vittorio si rivelò benefica, e anzi decisiva.
Fu il fascino della personalità regia, insieme col buon senso del grande condottiero, a rendere possibile la opera decisiva di Garibaldi, mantenendola al tempo stesso nel quadro interno e internazionale unico possibile. L’anticavouriano Vittorio Emanuele seppe dir «no» senza esitazione alla richiesta di Garibaldi del licenziamento di Cavour; il Re « ultimo dei conquistatori» (secondo il detto di Sella) seppe imporre il suo veto all'avanzata di Garibaldi da Napoli su Roma.
Dopo la morte di Cavour, Vittorio Emanuele fu fortemente aiutato dall’alto sentimento di sè, dalla sua spregiudicatezza di azione, e al tempo stesso dalla veduta realistica interna e internazionale, a mantenere la continuità e a stimolare e controllare l’avanzamento dell’opera nazionale. Ricordiamo, come particolarmente caratteristica, là trattativa segreta con Mazzini; come particolarmente meritoria, l’accettazione del trasporto della capitale da Torino a Firenze, fatta preferire a Napoli, con la considerazione di buon senso, che sarebbe stato molto più facile venir via dalla prima che dalla seconda; come altamente significativa, la relazione al «jamais» di Rouher dopo Mentana, che costrinse questo a rimangiarselo.
Anche dopo il 20 settembre 1870 la funzione direttiva superiore del «Padre della Patria» non cesssò ; e trovò applicazione, sia nella risoluta affermazione del diritto nazionale su Roma, accompagnata dai doverosi riguardi al Pontefice, sia nella cura di buone relazioni internazionali con la Francia da una parte, con gli imperi centrali dall'altra. (E’ rimasta famosa la franchezza con cui egli disse all’imperatore Guglielmo I di essere stato lì lì, nel 1870, per fargli la guerra). Ma il fatto maggiore del Re, in questi ultimi anni, fu di aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra, consacrando definitamente il regime parlamentare. Scomparendo precocemente, in mezzo al compianto profondo e unanime della nazione, egli avrebbe potuto ripetere: « Cursum consummavi, fidem servavi ».
In questo centenario non solo dell’unità italiana, ma di Roma acclamata capitale, non si può meglio chiudere la rievocazione del primo Re d’Italia, se non ripetendo le parole dette da lui alla deputazione romana che gli presentava il plebiscito del 2 ottobre:
«L’ardua impresa è compiuta, e la patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suoni sulle bocche degli uomini, si ricongiunge oggi a quello dell'Italia, il nome più caro al mio cuore».

martedì 19 settembre 2017

Io difendo la Monarchia

Un libro importante, del 1945-1946. Ci accompagnerà per un po'. Buona lettura.
Lo staff

La polemica politica non si svolge serena e obiettiva in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il territorio invaso e diviso, la catastrofe della sconfitta con la immensa somma dei beni e delle vite perdute, il rifluire lento e doloroso dei prigionieri, la disoccupazione crescente, l’armistizio protratto per oltre due anni, l’impossibilità di una sollecita ricostruzione, hanno reso più aspro e drammatico il periodo di trapasso dalla guerra fascista alla pace che si vuole riconquistare in un ordine democratico nazionale ed universale.
Già la mattina del 26 luglio 1943 i partiti e gli uomini, costretti per venti anni al silenzio, avevano imperiose esigenze morali da far valere contro la funesta dittatura di Mussolini. Oggi, dopo trenta mesi da quei giorni di illusoria e svagata liberazione, cui doveva succedere l’incubo invernale dell’oppressione e del terrore, quelle ragioni, divenute assai più pressanti, contribuiscono a rendere arroventata l’atmosfera e più acre l’odio politico. Il rancore contro la dittatura si è esteso alle classi e agli istituti che con il fascismo dovettero fare i conti e che furono costretti a subire il predominio di parie. Ma intanto molti avvenimenti si sono succeduti, molti partiti hanno consumato il loro involucro idealistico e hanno svelato la loro vera natura, molte campagne di stampa hanno mostrato la loro sostanza artificiosa; certa democrazia «progressiva» interna ed esterna ha messo a nudo il trucco polemico del proprio programma; molti appetiti che addentano le nostre frontiere hanno fatto cadere tante illusioni e han fatto conoscere che nulla è muato nelle leggi fi forza che regolano i rapporti tra i popoli.
E’ venuto quindi il momento di mostrare alcune verità, di fissare alcune responsabilità, di attribuire a ciascuno il suo, di dare a Cesare quel che è di Cesare
La confusione tra Monarchia costituzionale e dittatura totalitaria è, prima che una menzogna demagogica, un non senso e una contraddizione in termini. La Monarchia costituzionale si regge, infatti, sul Parlamento democratico che già il Guizot considerava, nella prima metà del secolo scorso, il più compiuto ed equilibrato dei sistemi politici. Per sua natura essa tende a mediare le esigenze delle varie parti e a garantire l’equilibrio dei poteri dello Stato secondo la vecchia e rispettabile formula di Montesquieu. Non la Monarchia ha voluto superare quella formula, ma, sì, le rivoluzioni contemporanee che hanno accentrato tutti i poteri nella dittatura di un uomo e di un partito.
L’esperienza del capoparte, del duce, del fuehrer, del caudillo, del conducator, non si può conciliare con il monarca costituzionale. Quando Mussolini sente nel 1941, da un inviato di Franco, l’intenzione di restaurare la monarchia in Ispagna egli vi si oppose brutalmente perché la sua esperienza, confrontata con quella di Hitler, gli insegnava che il più forte ostacolo, alla illimitata dittatura, gli veniva dalla tenace, costante opposizione (che questo libro mostra e documenta) della Monarchia costituzionale. D’altra parte non va dimenticato che il 25 luglio fu la Monarchia a rovesciare la dittatura e a far arrestare il dittatore.
I partiti di massa tendono a identificarsi con la totalità nazionale e a riempire con la loro forma la organizzazione giuridica dello Stato. Questa degenerazione e questa perversa follia dei popoli, usciti dal travaglio della prima guerra mondiale, ha offeso l’equilibrio delle classi e dei poteri dello Stato e insieme, ha minato la Monarchia costituzionale. Essa ha tolto le libertà ai popoli, ha chiuso i Parlamenti e ha, insieme, annullati i poteri del Sovrano. È vano parlare delle cose d'Italia tra il 1922 e il 1943 senza aver penetrato questa massiccia realtà.
Nell’ottobre 1922 se la Monarchia fu costretta a fare buon viso al fascismo (tendenzialmente repubblicano) ciò si dovette alla incapacità del Parlamento democratico a costituire un governo saldo e durevole. Da quel momento il Re fece ogni sforzo per assorbire la rivoluzione nella costituzione; ma il fascismo e il suo dittatore fecero uno sforzo ancora maggiore per annullare la costituzione nella rivoluzione e con ciò abolire la Monarchia. Privato del Parlamento, e cioè del potere legislativo da opporre al potere del dittatore, la Monarchia fu rapidamente costretta ad una posizione di rigorosa difesa. I termini di costituzione e di rivoluzione, secondo una memorabile massima di Cavour, non si possono conciliare a lungo perché l’uno elimina l’altro. In Italia l’imbroglio e il bisticcio sono durati ventun anni per la deviata sensibilità politica del popolo, pronto a levare sugli scudi un capoparte cui far coro con clamori di piazza, ma insieme pigro e beffardo, adusato a volgere in ischerno, l’indomani, gli entusiasmi travolgenti della vigilia.
In questo libro si dà conto del lungo conflitto e si descrivono obiettivamente i rapporti tra i due termini di quella che Mussolini ha chiamato, con ribaldo compiacimento, la « Diarchia ».
Alla fine dell’altra guerra venne meno, si legge nella « Storia di Europa » del Fisher, la religione della libertà e la fiducia nel metodo della democrazia parlamentare: si credette necessario ricorrere ai rimedi eroici e alla concentrazione del potere politico nelle inani di un capo per superare le difficoltà delle lunghe discussioni parlamentari. Fu un male non solo italiano, ma europeo ed universale.
Nel rendere conto dei fasti e dei nfastidel fascismo, questo libro accoglie solo i giudizi e le testimonianze degli autori antifascisti italini e stranieri, si appoggia alla autorità del Croce, dei Turati, degli Albertini, degli Amendola, dei Slvatorelli, dei Matthews, dei Fisher. Gli autori del fascismo sono ignorati
Si è voluto con ciò evitare tanto l’invettiva polemica per fare opera costruttiva di dimostrazione e di persuasione. Si spera così di servire assai più dell’interesse dinastico la causa del   paese.   Ci troviamo infatti nella urgente necessita di ricostituire il nostro ordinamento politico e giuridico con il ripristino degli istituti travolti nel 1922. Essi avevano fatto ottima prova dal 1861 al 1918, ma divennero tardi e inoperanti con la immissione dei partiti di massa nella politica e con la conseguente frattura dell'equilibrio dei gruppi nell’antico Parlamento.
I novatori e i sovvertitori si divisero in più schiere ora concorrenti, ora rivali; ma essi furono tutti nemici del vecchio ordine costituzionale. Tutti furono adoratori del sindacalo, del partito, della massa e nemici dell’individuo: tutti esaltarono la forza del numero che riempie lo Stato, lo conquista e lo domina; tutti dissertarono sullo spirito collettivo che regge il mondo moderno, tutti adorarono la rivoluzione continua; tutti scansarono dalla politica il lume della ragione per sostituirvi la fede bruciante di una nuova religione o antireligione.
Se dopo tanti sviamenti polemici vogliamo ritrovare la via dell’ordine, della ragione, della salvezza,dobbiamo scansare gli arsi sentieri delle vecchie e nuove religioni del collettivismo. Nel mito della massa potremo ritrovare molte cose a noi note e per noi caduche, ma non la libertà, non la pace, non l’ordinato progresso, non l’illuminata giustizia, non la legalità, non la perfezione e l'edificazione dello spirito. La libertà procede dalla dialettica e dal giuoco delle parti, non dalla massiccia uniformità del popolo nello Stato.

Nello schieramento attuale dei partiti in Italia, sono fautori di una Monarchia costituzionale quelli che avvertono innanzi tutto l'esigenza della libertà; sono fautori della repubblica quelli che sognano nuove esperienze sociali e sono dominati dal demone rivoluzionario. I primi chiedono il ritorno agli istituti del Risorgimento e affermano che lo Stato si può salvare solo rispettando la sua continuità. I secondi sono pronti alle ignote esperienze dei tumulti di piazza comandati dalle milizie di parte sotto i vessilli rossi o neri della repubblica e del terrore.

È la vecchia strada tradizionale delle repubbliche italiane così felicemente illustrala dal Quinet nelle Rivoluzioni d'Italia: è una strada nella quale si è consumato per secoli il nostro genio e avvilita nella servitù la dignità della Patria.

domenica 17 settembre 2017

La Voce del Messaggio Sovrano

di Ernesto Frattini

Spesso si parla ovunque della necessità che un Partito monarchico abbia un suo programma anche di carattere politico, economico e sociale per proporsi altri obiettivi oltre quello principale della Restaurazione monarchica e su questo siamo tutti perfettamente d’accordo. E’ infatti necessario per l’attualità stessa del problema istituzionale che alla soluzione ne siano connesse delle altre riguardanti dei punti di vita pratica che senza avere una grande importanza intrinseca, stiano però molto a cuore all’uomo della strada o possano talvolta avere dei riflessi di grande portata. Il punto sul quale nessuno è d’accordo è quello riguardante il modo di risolvere questi problemi e il metodo da adottare per il loro esame e la loro valutazione.
Molti sono ancora attaccati alle vecchie idee liberali in politica e liberiste in economia, altri desiderano formule socialmente più progredite che diano allo Stato una vita più moderna e snella, altri ancora si ispirano a concetti di esasperato nazionalismo o concepiscono una restaurazione solo nel quadro di una grande unione europea.
Fra tutti questi pareri opposti e completamente divergenti fra loro è talvolta difficile trovare la via giusta ed occorre allora tornare alle origini, a quelle che è la voce maestra di Colui che è il simbolo della unità della Patria, del Re.
Questa funzione ha appunto il monito sovrano che di tanto in tanto giunge ai monarchici italiani, per chiarire, per insegnare, per incitare, per indicare la via giusta, e fra questi moniti, particolare importanza ci sembra il Messaggio inviato da Umberto II ai monarchici italiani in occasione della VI Assemblea nazionale dell'Unione Monarchica Italiana( Cascais 1 maggio 1954, nota delolo staff ).  
La voce del Re è giunta in un momento di particolare tristezza e di grande sbandamento a portare una chiarificazione necessaria e un’indicazione indispensabile che è nostro dovere seguire e le sue parole anche oggi a sei mesi di distanza hanno la identica attualità e il medesimo valore, cosa questa che prova come esse siano valide non solo per un momento contingente della politica ma per tutta la durata della lotta che i monarchici italiani stanno conducendo.
Tutti i nostri problemi sono esaminati nel messaggio e per tutte le categorie di cittadini c’è un consiglio, un ammonimento, ima parola di speranza e di fede nell’avvenire come per ogni dubbio c’è una risposta e una soluzione, e fa questi interrogativi trova posto quello che oggi è il più imperioso e il più drammatico di tutti: il problema della vita. « Certezza che la Nazione non perderà le sue libere istituzioni e non sarà travolta da conati di dittature sempre condannabili: è questa certezza soltanto che potrà far riprendere alle forze della produzione quel continuo cammino che porta il capitale a creare nuovo lavoro; lavoro ben rimunerato, garantito dalle leggi e inserito nell'organizzazione giuridica dello Stato, attraverso il riconoscimento dei sindacati, che dà con l’accresciuto tenore di vita e l’aumento dei consumi, incremento alla produzione e nuovo lavoro. Riconoscimento dei sindacati e inserzione nell'organismo giuridico dello Stato, che non vietino però alle classi lavoratrici un’ordinata azione intesa ad ottenere giusti patti di lavoro, nel quadro delle comuni fortune della produzione». Queste le parole del Sovrano che esplicitamente inquadra i termini della questione annosa fra capitale e lavoro, questione che non può essere risolta che attraverso un accordo fra queste forze opposte eppure ugualmente indispensabili alla produzione e alla vita dello stato; tutte quelle divergenze che necessariamente sorgono, debbono essere composte per il comune interesse nel quadro dell’interesse nazionale e della concordia che deve sempre regnare fra i figli della stessa Patria.
Per chi accusa i monarchici di essere socialmente reazionari queste parole sono la dimostrazione che nel programma di un’Italia monarchica trovano primo posto quei postulati popolari che solo da una nazione unita sotto il simbolo regale potranno avere anche una soluzione reale ed efficiente, di fronte al disinteressamento liberista e agli estremismi delle sinistre la giusta soluzione può essere trovata appunto in questa collaborazione dal Sovrano auspicata.
E nel Messaggio altresì possiamo trovare le nobili parole rivolte a noi che abbiamo l’onore e il privilegio di essere i più fedeli alla causa dell’ Italia monarchica anche in quest’ora tanto triste e pur così rosea di speranze:« E voi monarchici, dovete essere d’esempio nella concordia e nel costume politico, nell’elevamento dalle basse diatribe quotidiane alla visione dei grandi problemi nazionali, nell’operare con assoluto continuo disinteresse».
E qui dobbiamo noi ispirarci per la nostra azione politica, per la condotta da tenere nelle contingenze della vita pubblica perché il nostro stile sia sempre superiore e inconfondibile, perché il nostro modo di agire sia veramente di degni servitori di un grande Sovrano e di una grande Dinastia; è necessario astrarsi dalle brutture quotidiane, dai maneggi della piccola politica, per sentire quell’afflato di amor di Patria che ci permetta di dire a fronte alta che la nostra battaglia è veramente condotta «per il bene inseparabile del Re e della Patria», per quei fini che il Re stesso addita nella chiusura dell’Augusto Messaggio: «Per la ricostruzione morale e materiale di un’Italia politicamente pacificata, socialmente progredita, unita nei suoi confini consacrati dal sacrificio, rispettata in un’Europa federata e in un mondo senza conflitti, di quell’Italia che è il desiderio ardente e il fermo proposito della nostra vita».
Queste sono le parole con cui il Re ha voluto terminare il suo scritto, quasi a suggellare questa solenne espressione della Sua volontà ed ora è a noi sapere interpretare e attuare questi desideri che per noi sono ordini e insegnamenti preziosi; in ogni contingenza dobbiamo attingere a questa fonte per andare avanti sulla nostra strada e raggiungere la nostra meta; la parola del Re ci sia luce, e di incitamento il grido di tutte le battaglie: Avanti Savoia!

sabato 16 settembre 2017

Regine a Stupinigi

Con l’autunno alla Palazzina di Caccia di Stupinigi riprende il ciclo di incontri “Le Regine della Palazzina di Caccia: donne, mogli e amanti di Casa Savoia”, a cura di Maura Aimar (Centro Studi Principe Oddone) e Alessia M. S. Giorda, una delle autrici del recente libro “Stupinigi, capitale dell’impero. Giovedì 21 settembre la protagonista sarà Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, che venne in visita alla Palazzina nel 1808: proprio per lei venne installata la vasca da bagno di marmo con le aquile imperiali che si può ancora oggi ammirare tra gli arredi.

Il 19 ottobre sarà la volta Giuseppina Beauharnais, la prima moglie di Napoleone, che soggiornò a Stupinigi nel 1805. Il ciclo di conferenze si concluderà il 16 novembre con l’incontro dedicato a Margherita di Savoia, l’ultima regina che abitò a Stupinigi e che raccolse molti dei preziosi arredi che ancora oggi si trovano all’interno della Palazzina.


Gli incontri si svolgono presso i locali delle Cucine reali alle ore 18 (ingressi tra le ore 17,15 e le 17,45); segue visita guidata alla Palazzina. Biglietti 8 euro, più ingresso speciale al museo 5 euro; prenotazione obbligatoria biglietteria.stupinigi@ordinemauriziano.it  tel. 011.6200634. 


fonte:
http://www.nichelino.com/news/index.php/piccola-citta/24-incontri/1567-regine-a-stupinigi

mercoledì 13 settembre 2017

La "Stara Planina" all'Ambasciatore Camillo Zuccoli

Riprendiamo l'articolo per poter pubblicamente aggiungere le nostre affettuose congratulazioni a quello che per noi è principalmente il nostro amico Camillo, oltre che S.E. l'Ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta presso la Bulgaria.
Siamo orgogliosi anche noi! 
Lo staff 



Il Capo dello Stato della Repubblica di Bulgaria ha conferito la "Stara Planina" di prima classe all’Ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta.
L'Ambasciatore Zuccoli con la famiglia ed il Presidente Rumen Radev


In una cerimonia solenne nella Sala del Palazzo Presidenziale a Sofia il Presidente Rumen Radev ha conferito l’onorificenza "Stara Planina" prima classe a Camillo Zuccoli, Ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta. “Quest'anno si compiono dieci anni dalla nomina di Camilo Zuccoli ad ambasciatore in Bulgaria. Egli ha realizzato importanti attività sociali e ospedaliere per il nostro paese, assistendo migliaia di sofferenti e bisognosi e ha promosso e organizzato iniziative per la salvaguardia e il prestigio della fede cristiana e la protezione della pace e della tolleranza", ha detto nel suo discorso Rumen Radev.


Il Capo dello Stato ha ricordato che sotto la guida dell’Ambasciatore Zuccoli, l’Ambasciata dell'Ordine di Malta in un decennio ha organizzato oltre 350 attività umanitarie in 107 località in Bulgaria, che includono varie donazioni a istituti sociali, per bambini e anziani socialmente svantaggiati, per vittime di disastri naturali e per rifugiati. Il Presidente ha ringraziato l'Ambasciatore Camilo Zuccoli per la sua attività nobile e umanitaria e per il suo contributo personale alla cooperazione tra la Bulgaria e l'Ordine di Malta.


Durante la cerimonia Camillo Zuccoli ha ringraziato per il sostegno del Capo dello Stato e dell’istituzione presidenziale nel campo delle iniziative a favore dei più deboli e di volontariato. "Sono soddisfatto del mio soggiorno in Bulgaria. Per me, questo paese è come un amico caro", ha detto l'ambasciatore Zuccoli e ha espresso la speranza che la eccellente cooperazione tra la Bulgaria e l'Ordine di Malta continuerà a svilupparsi in modo attivo anche in futuro.