NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 marzo 2021

Il libro azzurro sul referendum - XXI cap - 4




IV.     Rielaborazione dei dati statistici

Quel mio studio ha avuto, unicamente per l'interesse intrinseco dell'argomento, una certa, immeritata, notorietà. Tuttavia non ha avuto l'onore di critiche demolitrici, nonostante i lati deboli che presentava, forse perché, appunto per questi, era giudicato non meritevole di considerazione.

Perciò mi ha sorpreso, e anche lusingato, il venire a sapere, ad oltre sei anni di distanza, di aver avuto un autorevole e cortese «obbiettore» di cui ho anche potuto leggere, ed apprezzare, una dotta «relazione critica», che peraltro obbiettivamente ammette la fondatezza di revisioni e rettifiche dei dati ufficiali, pur escludendo la possibilità di un capovolgimento dei risul­tati del «referendum».

La posta è tale, che mi obbliga ad una revisione del mio primitivo lavoro. Alle obbiezioni impersonalmente rivoltemi, ho già implicitamente risposto con le considerazioni e le precisazioni esposte nella parte Ha del presente mio scritto.

Ed ho rifatto i calcoli.

 

Problema 1° - Calcolare la popolazione escluse le provincie di Bolzano

e della Venezia Giulia — alla data del 31 dicembre 1945.

 

Ho scelta questa data, e non — come altri hanno preferito — il 21 aprile 1946, anzitutto perché normalmente le statistiche demografiche si riferi­scono all'ultimo giorno dell'anno preso in considerazione; poi perché, appunto in conseguenza di questa norma, avrei dovuto effettuare due inter­polazioni, -l'una dal 21 aprile al 31 dicembre 1936, l'altra dal io gennaio al 21 aprile 1946, correndo l'alea di maggiori errori di valutazione, nella mancanza di dati certi; infine perché — essendo notorio che specialmente nelle grandi città gli uffici elettorali non avevano aggiornate le inscrizioni per i nati nel 1924, e tanto meno si erano curati di inscrivere i nati nel primo quadrimestre 1925 — un calcolo di popolazione elettorale, riferito alla popolazione del Regno alla data del 31 dicembre 1945, avrebbe in ogni caso rivelato un errore in eccesso, largamente compensatore della omissione relativa ai nati nel primo quadrimestre 1925.

Ai nuovi calcoli, è interessante premettere, per i raffronti opportuni, un prospetto di «dati di popolazione» rilevati da fonti diverse e a date diverse, che pongono in evidenza le differenze che si riscontrano fra i dati di una stessa fonte, rilevati con metodi diversi: si tenga presente che è stata sempre fatta deduzione degli abitanti delle provincie di Bolzano e della Venezia Giulia.

  21 aprile 1936 — CENSIMENTO.

  31 dicembre 1941 — calcolato dall'Ist. Centrale di Statistica‑

-       1 luglio 1943 — calcolato c. s. (dato accettato nei «Rilievi

statistici...» dell'A. - 2» e 3» parte) .

  31 dicembre 1945 — dati calcolati dall’Autore:

a)   utilizzando gli indici di accrescimento naturale della po­polazione, e deducendo successivamente la «diminu­zione naturale» calcolata, per il quinquennio bellico

1941-1945                     .       •,     

b)       come sopra, ma calcolando separatamente l'accresci­mento 1936-1941, e l'accrescimento 1941-1945, calcolato quest'ultimo sulla base di un indice di accrescimento risultante dalla preventiva deduzione dell'indice di i diminuzione» dall'indice di accrescimento normale

Dati rilevati dall'Autore sulle valutazioni effettuate dall'Isti­tuto Centr. di Stat. (pubblicate sui a compendi » 1951-1952)

a) aggiungendo le «eccedenze dei nati vivi sui morti» —esclusi i morti in zona di operazioni:

   partendo dal 31 dicembre 1941                            44.344.043

   partendo dal io luglio 1943. .                                         44.840.449

b) sottraendo le «eccedenze» dalla popolazione valutata al 31 dicembre 1946 (Compendio Statistico Italiano

1951: 45.310.000)   .                                                    44. 190600

Dato risultante dalla cifra «ufficiale» di n. 28.021.335 elettori,

sulla base di un «indice di maggiore età» pari al 6o%       46.700.000

Per la revisione dei calcoli ho adottato due metodi, l'uno «ascendente», sommando- cioè al dato di popolazione del censimento 21 aprile 1936, le eccedenze annuali dei nati vivi sui morti, per un totale di 3.020.000, che portano la popolazione del Regno al 31 dicembre 1945 — escluse sempre le Provincie di Bolzano e della Venezia Giulia— a 44.750.000; poiché però le « eccedenze» di cui sopra non 'tengono conto dei morti in zona di opera­zione, e questi risultano valutati a circa mezzo milione, il dato risultante è di circa 44.250.000.

L'altro metodo, «discendente», sottraendo cioè le eccedenze annuali dal dato di popolazione fornito dal censimento 4 novembre 1951, in base al quale la popolazione dello Stato, entro i confini attuali, risulta di n. 47.138.000. Deducendone la provincia di Bolzano, si ha la cifra di 46.797.000. La somma delle «eccedenze» da dedurre, è rettificata in 2.778.000, e conseguentemente risulta, alla data del 31 dicembre 1945, una popolazione pari a 44.019.000.

Poiché il numero dei morti in zona di operazione è stato riassorbito nelle normali «statistiche di mortalità» durante il quinquennio 1946-1950, alla cifra di 44.019.000 non sono da apportare ulteriori deduzioni; e poiché è tratta da un dato certo, quale il risultato del Censimento 1951, è logico concludere che in realtà alla data del 31 dicembre 1945 la popolazione del territorio del Regno — escluse le Provincie di Balzano e della Venezia

Giulia  era di 44.019.000.

Conseguentemente è da rilevare che, per affermare la cifra di 28 mi­lioni di elettori, il Ministro dell'Interno ha «pensati» circa 2.700.000 Ita­liani in più; vale a dire, ha attribuito all'Italia, nel 1945, la popolazione che l'Italia avrebbe avuto sei anni dopo, nel 1951, e cioè 46.700.000. Problema IP — Calcolare la «popolazione elettorale» probabile, alla data del 31 dicembre 1945.

Non potendo disporre di dati completi relativi alla distribuzione della popolazione per classi di età, e non volendo far uso delle «tavole di mor­talità» per evitarne gli errori «in eccesso» di cui ho già fatto cenno, la soluzione del problema non può ottenersi, per la maggiore approssima­zione che consente, se non basandosi sull’«indice di maggiore età».

In proposito ho già posto in rilievo le peculiarità del metodo, che escludendo 'a priori l'ipotesi di una costanza dell'indice nel tempo e nel territorio considerati, escludono anche a priori una variazione graduale co­stante, e tanto meno di eguale caratteristica, a causa della variabilità con­tinua della incidenza dell'indice annuale di natalità, e dell'indice annuale di mortalità per classi di età. Ed ho già rilevato il fenomeno dell'annulla­mento, al termine di un quinquennio di guerra, dell'aliquota di aumento dell'indice di maggior età verificatosi durante il quinquennio precedente ad un periodo bellico.

Così è da osservare che, mentre alla data del Censimento 21 aprile 1936 l'indice di maggiore età risultava di 60,3o%, e al termine di quel quinquen­nio (1936-1940) esso poteva considerarsi vicino al 62%, il forte aumento nel numero dei morti e deve tenersi conto anche dei morti in zona di ope­razione — verificatosi durante il quinquennio 1941-1945, proporzionalmente assai più elevato della contemporanea diminuzione delle nascite, ha neces­sariamente provocato il fenomeno inverso, del « ringiovanimento », cioè ha riabbassato l'indice di maggiore età, riportandolo ai valori, quanto meno, della fine del quinquennio 1931-1935, inferiori al 6o% : ripetendosi, in so stanza, il fenomeno verificatosi nel quinquennio 1915-1920.

Ne consegue, per logica deduzione, che nel 1945-1946 l'indice di mag­giore età non poteva superare il 6o%.

Queste le considerazioni, e le ragioni che mi hanno fatto adottare, e tener fermo, l'indice del 60%.

 A riprova, basti osservare che l'Istituto Centrale di Statistica ha calco­lato l'indice di maggiore età pari al 63,30% alla data del 31 dicembre 1950, in rapporto ad una popolazione e ad una distribuzione per classi di età, che i successivi dati del censimento 4 "novembre 1951 confermano esatta­mente calcolate.

L'aliquota di aumento nel quinquennio 1946-1950 (3,3%), è giustificata da un più intenso processo di «invecchiamento dovuto al fatto che la

« ripresa» nelle nascite è sensibilmente diminuita nella seconda metà del quinquennio stesso, cosicché si rileva nel quinquennio un andamento in diminuzione delle nascite, più sensibile del contemporaneo andamento in diminuzione delle morti.

Stabilito quindi l'indice di maggiore età del 6o% della popolazione, e questa accertata in 44.019.000, ne risulta che la popolazione elettorale, alla data del 31 dicembre 1945, nel territorio del Regno, escluse le provincie di Bolzano e della Venezia Giulia, è da ritenersi pari a 26.411.400.

Ne consegue che, operandosi la differenza fra i «26.411.400 elettori legittimi» e i 28.021.375 elettori dichiarati dal Ministro dell'Interno, ne risultano a 1.609.975 presunti elettori», che corrispondono al 6o% dei 2.700.000 Cittadini «pensati in più», con una anticipazione di anni sei sul­l'accrescimento costante della popolazione italiana».

martedì 30 marzo 2021

Il Santo di oggi 30 Marzo: Beato Amedeo IX di Savoia, il ricco che sfamava i poveri

 


La Chiesa ricorda il Beato Amedeo IX di Savoia (Duca) 

A Vercelli, beato Amedeo IX, duca di Savoia, che, durante il proprio governo, favorì in ogni modo la pace e sostenne incessantemente con i mezzi materiali e con l’impegno personale le cause dei poveri, delle vedove e degli orfani.

 

La vita

Amedeo nasce a Thonon-les-Bains nel 1435; era figlio del duca Ludovico I di Savoia e di Anna di Lusignano. Era nipote dell’antipapa Felice V.

Già da bambino è promesso sposo a Iolanda, figlia di Carlo VII di Francia. Cresce diventando un bel ragazzo, purtroppo soggetto a crisi epilettiche, che egli accettò come un’opportunità per essere a più stretto contatto con Dio. La Messa quotidiana e la preghiera erano la sua fonte di forza.

Amedeo si sposò nel 1452, e la coppia si ritirò nella provincia di Brescia, territorio che gli era stato assegnato, oltre al governatorato del Piemonte. Questa scelta tuttavia contrariò talmente il fratello Filippo nei suoi confronti che quasi si preparò ad attaccare Amedeo, se il loro padre non lo avesse arrestato.

Nel 1464, alla morte del padre, Amedeo IX assunse il governo del ducato di Savoia. Fece subito rilasciare il fratello e gli organizzò un matrimonio con Margherita, figlia di Carlo, duca di Borgogna. Lasciandogli anche i territori bresciani e conquistandosi così, il suo affetto.

Difensore del Cristianesimo

Egli intervenne senza esitazioni quando si trattò di difendere il cristianesimo dalla minaccia turca, raccogliendo un esercito per la difesa del Peloponneso. Fu uno dei primi a rispondere all’invito di Pio II perché si tenesse un’assemblea di principi per affrontare il problema e per raccogliere uomini, armi e denaro.

[...]

https://www.papaboys.org/il-santo-di-oggi-30-marzo-beato-amedeo-ix-di-savoia-il-ricco-che-sfamava-i-poveri-vita-e-preghiera/

Militari e massoni alle radici delle libertà d'oggi

 


di Aldo A. Mola

I Dioscuri della Libertà. Cordero di Montezemolo...

Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, classe 1901, colonnello dal 1° maggio 1943, “Giacomo Cateratto” in clandestinità, assassinato il 24 marz 1944 dalle SS naziste alle Fosse Ardeatine (Catacombe di San Callisto, recita la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare).

Giuseppe Perotti, classe 1895, generale di brigata dal luglio 1942, fucilato il 5 aprile 1944 al Poligono Nazionale del Martinetto (Torino) su sentenza della sezione torinese del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Due Militari. Due patrioti. Due uomini che credevano strenuamente nell'Italia nata dal Risorgimento: una, indipendente, libera di decidere il proprio futuro. Entrambi consapevoli che la “missione” può costare il sacrificio supremo.

A unirli, senza che l'uno sapesse dell'altro, vi sono anche gli studi. Allievo dell'Accademia militare di Artiglieria e Genio di Torino, dopo la partecipazione alla Grande guerra che gli valse decorazione e promozione per merito, Perotti si laureò in ingegneria civile al Politecnico di Torino. Volontario a 17 anni nel 3° Reggimento Alpini e promosso caporale, sottotenente dal 2 novembre 1919, a sua volta Cordero di Montezemolo si laureò in ingegneria civile a Torino, nel 1923. Riprese la carriera militare l’anno seguente.

Senza risalire al passato remoto, a differenza di un'opinione tanto diffusa quanto infondata, i “quadri” dell'Armata Sarda e dell'Esercito italiano vennero formati con studi severi, nel solco dell'Accademia delle Scienze di Torino fondata, con altri, da Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio. Forgiò generali come Luigi Federico Menabrea, tre volte presidente del Consiglio dei ministri nel 1867-1869, e Luigi Pelloux, due volte presidente nel 1898-1900.

Di famiglia originaria della Spagna e da novecento anni infeudata nel Monregalese, Giuseppe Cordero Lanza  di Montezemolo (breve: Montezemolo) nel 1937 fu capo di stato maggiore della Brigata “Frecce Nere” mandata in aiuto dei nazionalisti spagnoli guidati dai Quattro Generali  (Sanjurjo, Mola, Franco, Queipo de Llano) contro chi mirava a fare della Spagna una “succursale” dell'Urss di Stalin. Capo dell'Ufficio Operazioni del Comando Supremo agli ordini del Maresciallo Ugo Cavallero, dopo la defenestrazione di Mussolini da parte del Re (25 luglio 1943) fu incaricato di missioni speciali da Pietro Badoglio, nuovo capo del governo. Rimasto a fianco del genero del Re, Giorgio Calvi di Bergolo, mentre il governo e i Reali si trasferivano in Puglia, il 10 settembre trattò la resa con il Maresciallo Albert Kesselring per ottenere che Roma fosse riconosciuta “città aperta”, come desiderato anche da Pio XII, sovrano dello Stato del Vaticano. Nominato capo del Fronte militare clandestino a contatto con il governo di stanza a Brindisi, organizzò una rete di formazioni militari estesa in tutta l'Italia occupata, con una direttiva precisa: collaborazione con i “politici” (che si andavano organizzando in comitati di liberazione e in bande “di partito”) ma, come ricorda il generale di corpo d'armata  Oreste Bovio nella biografia inserita in Sacerdoti di Marte (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, 1993): “Nelle grandi città (non solo Roma, dunque) la gravità delle conseguenti possibili rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia”. Ai “politici” spettava la “propaganda”, ai militari la tenuta dell'ordine, in specie quando gli occupanti (tedeschi e militari della Repubblica sociale ) fossero collassati. A quel punto occorreva scongiurare ogni forma di rivalsa e di vendetta illegale, magari con applicazione di norme retroattive, come poi sciaguratamente accadde con ripercussioni  e seminagione di odio mai estinto.

Purtroppo il CLN Centrale, presieduto da Ivanoe Bonomi, rifiutò la leale collaborazione con il governo del Re, riconosciuto dagli anglo-americani e dall'Urss. Montezemolo si espose in prima persona, anche firmando a propri carico ricevute per ingenti somme a sostegno della rete di resistenti  militari. Arrestato su delazione (di Enzo Selvaggi, secondo carte pubblicate da Sabrina Sgueglia della Marra, riproposte da Mario Avagliano nella densa biografia del Colonnello), il 25 gennaio 1944 Montezemolo venne tradotto nel “carcere” delle SS in via Tasso 145. Ripetutamente sottoposto a torture efferate (chi lo vide lo ricordò con la mascella scomposta, un occhio tumefatto, sangue ovunque) non rivelò nulla. Il 24 marzo fu caricato su uno dei furgoni che, tende abbassate, corsero alle Fosse Ardeatine, ove fu assassinato dalle SS comandate dal colonnello Herbert Kappler con un colpo alla nuca come altri 334 italiani, per rappresaglia per la morte di 33 militari del battaglione “Bozen” uccisi nell'attentato messo a punto tra via Rasella e via del Boccaccio da un Gruppo di Azione Partigiana (GAP) del Partito comunista italiano, alla vigilia del rientro di Palmiro Togliatti da Mosca via Algeri.

Senza entrare nel merito di una vicenda che fu ed è da un canto vantata quale segno di vitalità della guerra partigiana, dall'altro deprecata perché le sue conseguenze erano non solo prevedibili ma scontate (sia Kesselring sia l'ambasciatore tedesco a Roma, August von Mackensen, tentarono di contenerne le tragiche dimensioni), l'eccidio suscitò sgomento, anche perché, da tempo sbarcati ad Anzio, gli anglo-americani rimanevano al passo. A

Roma giunsero solo due mesi e mezzo dopo, il 4 giugno 1944. Due giorni prima dello sbarco in Normandia: una gara tra Comandanti.   

 

...e Giuseppe Perotti

Dopo “Via Rasella” anche nell'Italia settentrionale la repressione della lotta di liberazione aumentò di ferocia, in vista dei grandi “rastrellamenti di primavera” contro le formazioni partigiane.. La Rsi potenziò il livello di spionaggio sulla e all'interno dell'opposizione. A Torino mirò al bersaglio grosso: il Comitato militare del CLN regionale del Piemonte, che fu arrestato il 31 marzo 1944 mentre era radunato nella sacrestia del Duomo di Torino. Sottoposto a interrogatorio, completo di tortura, il suo comandante, generale Perotti, fu condannato a morte. Con lui vennero fucilati i rappresentanti dei partiti nel Comitato: Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Enrico Giachino, Eusebio Giambone e Massimo Montano. Venne risparmiato Silvio Geuna, che poi ne scrisse in “Le Rosse torri di Ivrea”. Chi passa dinnanzi al busto in bronzo del generale Perotti alla Scuola di Applicazione in via Arsenale a Torino sente riecheggiare l'ordine che impartì nell'ora suprema: “Signori ufficiali, attenti: Viva l'Italia”.

Anche per lui vale quanto di Montezemolo venne scritto in un rapporto informativo: “Soldato per tradizione familiare e per vocazione propria”. Lo ricorda Oreste Bovio, che aggiunge: “Seppe essere fedele a un antico precetto: Perché la patria vivaoggi si muore, e per questa sua fedeltà, ancor più che per le sue elette qualità di mente e di cuore, costituisce un esempio per tutti”. Montezemolo e Perotti vanno ricordati per non disperdere l'eredità morale del Risorgimento e dell'unificazione d'Italia. E vanno  rievocati proprio nell'anniversario della carneficina compiuta dalle SS alle Fosse Ardeatine, ove vennero annientati il vertice del Comitato Militare Clandestino e molti appartenenti a “Bandiera Rossa”, detestati dal Partito comunista italiano, e furono assassinati cinquanta ebrei già destinati alla deportazione, vari militanti di partiti poco avvezzi alle regole ferree della lotta clandestina e persino detenuti per reati non politici, tratti dalle celle alla rinfusa per ammassare 330 capri espiatori dell'attentato, in tale concitazione che ne vennero aggiunti cinque più di quanto richiesti dalla macabra disposizione: dieci esecuzioni capitali per ogni caduto di quel Battaglione “Bozen” (altoatesini) che, come ogni giorno, sfilava da via Flaminia, Piazza del Popolo, via del Babuino, Piazza di Spagna... sino a via XX Settembre, per approdare a Castro Pretorio. Alle 15 e 45 si trovò all'appuntamento con l'attentato: 33 morti e una settantina di feriti tra i militari, oltre a un bambino il cui corpo rimase straziato dall'esplosione.

                           MASSONI AFFRATELLATI ALLE FOSSE ARDEATINE

Venti martiri delle Fosse Ardeatine attendono che nella rievocazione dell'eccidio il Capo dello Stato ricordi la loro appartenenza e inviti formalmente i rappresentanti delle loro Comunità (o Ordini iniziatici) a presenziare, labari spiegati, all'omaggio memoriale. Sono i massoni. Se non ora, quando? Tra le vittime della feroce esecuzione si contano 62 minori di 25 anni, tra i quali il quindicenne Duilio Cibei, falegname, e 11 ultrasessantenni, 38 ufficiali (cinque dei quali generali), 26 liberi professionisti (avvocati, medici, ingegneri), 77 operai, 57 impiegati, 54 commercianti, 5 industriali, un banchiere, un sacerdote (il pugliese Pietro Pappagallo) e una dozzina di “contadini”, come Aldo Finzi, di famiglia ebraica, nel 1922-1924 sottosegretario all'Interno nel Governo Mussolini.

Se dalle professioni si passa alle ascrizioni partitiche-ideologiche il computo diviene molto più complesso, sino a sfuggire a una catalogazione attendibile e condivisa.

Settantasette anni dopo la tragedia, una Istituzione merita l'attenzione che sinora non le è stata riservata: la massoneria, appunto. Secondo studi frutto di decenni di ricerche i Liberi Muratori suppliziati alle Ardeatine furono almeno venti, il 6% del totale (v. didascalia per i loro nomi): un numero molto rilevante se lo si rapporta a quello dei militanti di partito (comunisti e azionisti inclusi, a tacere dei democristiani) e soprattuto al fatto che, anche nei suoi anni più fortunati (tra il 1885 e il 1920) in Italia la massoneria era sempre stata una minoranza esigua e che dal 1925 le sue due maggiori Comunità, il Grande Oriente d'Italia e la Serenissima Gran Loggia d'Italia, erano state sciolte dai rispettivi grandi maestri (Domizio Torrigiani e Raoul Palermi) per sottrarne gli iscritti alla persecuzione governativa perché accusate di essere “società segreta” (come alcuni analfabeti ancor ripetono).

Appena rinata, all'indomani del 25 luglio, e subito costretta a nuova clandestinità, la massoneria pagò un prezzo altissimo. Nella breve estate del 1943 essa risorse per iniziativa di Grandi Iniziati oggi quasi completamente dimenticati. Tra altri spiccano Domenico Maiocco e Placido Martini.

Il primo è ignorato da Vittorio Gnocchini in L'Italia dei Liberi Muratori. Brevi biografie dei massoni famosi (Mimesis-Erasmo), che “fa testo”per Wikipedia. La sua biografia è stata scritta dal colonnello Antonino Zarcone quando era Capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (Domenico Maiocco. Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato, pref. di Luigi Pruneti, Roma, Annales). Fu il tramite occulto fra Vittorio Emanuele III, alcuni gerarchi decisi a rovesciare Mussolini e  Ivanoe Bonomi, para-massone ma succubo di democristiani, socialisti e azionisti che intendevano far ricadere esclusivamente sul re il passivo del regime fascista, sorto per la loro inettitudine politica, e della guerra. La vita di Placido Martini è narrata da Francesco Guida, che lo ricorda “socialista, massone, partigiano” e ne ha scritto anche in I martiri massoni delle Fosse Ardeatine (Ed. Gagliano, 2019). Le pagine più pregnanti sulla sua vita si leggono però in La R.'. L.'. “Garibaldi-Pisacane di Ponza-Hod, n.160 all'Oriente di Roma: una luminosa storia massonica” (ed. Pontecorboli, Firenze, 2019, con introduzione di Virgilio Gaito, ex Gran Maestro del GOI). L'opera ha molti pregi. In primo luogo ricorda il legame iniziatico tra Martini e Domizio Torrigiani, che, condannato al confino di polizia a Lipari per un reato che non esisteva nel codice penale (“massone”), fondò la loggia “Pisacane”,  che affiliò anche il “comunista” Silvio Campanile. In secondo luogo ripercorre la riattivazione dell’Officina da parte di Martini, fondatore dell’Unione Nazionale della Democrazia Italiana. Infine evidenzia i contatti instaurati dopo l'8 settembre tra Carlo Zaccagnini, fiduciario di Martini, e il colonnello Cordero di Montezemolo. Tramite Carlo Avolio l'UNDI entrò in contatto anche con la Carboneria capitanata dal professor Felice Anzalone, studiato da Silverio Corvisieri in Il Re, Togliatti e il Gobbo. 1944: la prima trama eversiva (ed. Odradek).

Senza addentrarci nel “bosco incantato” delle molte sigle massoniche fiorenti nel 1943-1944 (ne ha scritto anche Giuseppe Pardini in Obbedienze disobbedienti, ed. Luni), merita rievocare il percorso di Martini (1880-1944). Garibaldino (diciottenne partecipò alla spedizione a Domokos in aiuto degli insorti greci contro i turchi), massone, anticlericale, impegnato nel blocco popolare a Roma capitanato da Ernesto Nathan, volontario nella Grande Guerra, avversò l'onda socialcomunista postbellica, negatrice dei valori patriottici. A sua volta condannato al confino a Lipari, ricevette da Torrigiani l'investitura a tenere in vita la “Pisacane” come Loggia Madre e quindi con il carisma di gran maestro. Propenso alla ricomposizione fraterna tra il Grande Oriente e la rinascente Gran Loggia guidata da Raoul Palermi, suscitò l'ostilità di massoni  che non riconobbero neppure i grandi maestri dell'esilio (Eugenio Chiesa, Arturo Labriola, Alessandro Tedeschi e Davide Albarin). Catturato da un miserabile delatore prezzolato, come  Montezemolo fu rinchiuso a via Tasso e vi subì torture atroci senza mai nulla rivelare. La figlia Maria Carolina narrò ad Alfonso Testa quanto soffrisse quando ritirava la biancheria del padre: “Tutta sangue. Sangue ai calzini, sangue alle maglie. Era la tortura: timpani sfondati, un orecchio strappato, piedi massacrati”. Nell'interrogatorio ammise solo di essere il gran maestro della massoneria e dichiarò di assumere su sé solo ogni addebito. Rinchiuso a Regina Coeli con il corpo piagato, il 24 marzo 1944 a sua volta venne tradotto alle Ardeatine con due dei sette compagni di cella e, come accertò Tullio Ascarelli che sovrintese alla riesumazione dei cadaveri, fu  ucciso con uno sparo nella regione fronte-parietale sinistra perché, con ogni evidenza, non chinò la testa. Analoga sorte ebbero altri massoni militanti nell'UNDI e affiliati della Gran Loggia d'Italia. Virgilio Gaito scrisse che gli uni e gli altri “già divisi da storiche incomprensioni, affrontarono uniti e fieri la morte stringendosi l'un l'altro in una suprema concordanza di ideali”.

Però a ricordarli tutti insieme nel sacrificio della vita per un'Italia migliore  non debbono essere solo i loro confratelli ma lo Stato stesso, ai suoi livelli più alti, e proprio per quella loro appartenenza: un debito che la Patria ha nei confronti di una Istituzione che troppo spesso viene ricordata, a sproposito, per alcune vicende “profane” di taluni suoi affiliati in circoscritti momenti, in tal modo ignorando o lasciando in ombra tre secoli di storia.

L'anniversario dell'eccidio delle Fosse Ardeatine il prossimo 24 marzo è il giorno giusto per fare ammenda di un oblio immotivato e durato troppo a lungo.

Aldo A. Mola

 


 


domenica 28 marzo 2021

Capitolo XXI: Giorni di felicità a Sequals

 di Emilio Del Bel Belluz

 

Carnera ha il cuore felice durante la sua permanenza al paese natio. Quando si è lieti si ha bisogno di augurarsi che la gioia duri a lungo, che non se ne vada, che rimanga nel cuore. Carnera ha sempre in mente la casa che deve costruirsi, il geometra ha già preparato il progetto di una bella villa. Quando lo vede ne è affascinato, vuole che si inizi quanto prima i lavori, ora il denaro non manca. I giorni di Carnera passano veloci, rivede i suoi amici, legge gli articoli che hanno scritto su di lui quando era in Spagna, e li ritaglia. Ad aiutarlo c’è una giovane del paese, che si è offerta di fare questo. Incolla gli articoli sui fogli di quaderni neri rilegati, sulla cui copertina è inciso a caratteri d’oro la scritta: “Vita sportiva di Primo Carnera”. Un giorno legge su una Gazzetta dello Sport un articolo che gli era sfuggito: “Primo Carnera ha vestito la divisa di milite della LV Legione Alpina. 

Eccolo, imponente, fiero ed anche elegante, come l’ha ritratto Farabola, il fotografo di tutti i grandi campioni “. Agli italiani viene offerto in lettura, inoltre, il telegramma del comando generale della Milizia indirizzato alla LV Legione Alpina : “ Comando generale esprime suo plauso a camicia nera Primo Carnera, valoroso campione che con la sua bella vittoria di Barcellona ha saputo mantenere alti i colori d’Italia. Generale Teruzzi ”. Quando legge queste parole Primo si commuove, sa che il duce Benito Mussolini s’interessa del suo percorso sportivo, e che anche i suoi figli sono suoi tifosi. La boxe è la dimostrazione della forza fisica, della lealtà, dell’onore, e del sacrificio che bisogna fare propri. Nella foto del giornale Carnera fiero saluta con il braccio teso verso l’alto. Al suo paese, dopo che ha intrapreso la boxe, la gente è più felice; l’osteria “al Bottegon” da quando boxava era sempre piena di tifosi del campione. 

Lo stesso parroco era contento perché ogni volta che Carnera assisteva alla S. Messa, la gente riempiva la chiesa, e il vecchio sacrestano era pure lui felice perché quando andava all’elemosina la borsa aveva un peso maggiore. Non erano molti come Carnera che buttavano dei soldi di carta, che il vecchio sacrestano non li sentiva, ma sapeva che il prete li avrebbe contati per primo. La vita in paese era diversa dal momento in cui giungeva il campione, si vedevano arrivare tante persone che chiedevano di lui. Primo aveva da giorni ripreso gli allenamenti, correva per molti chilometri in compagnia del suo allenatore. Essendo dicembre, il freddo era intenso, ma non gli importava. Una delle tante aspettative della vita era la costruzione della nuova casa, la garanzia di avere un tetto sopra la testa. La mamma, quella santa donna, gli ricordava sempre che doveva trovarsi una brava ragazza da sposare, una giovane semplice, che gli avesse dato dei figli, e che lo attendesse la sera, al rientro dal lavoro.  

Una mattina, mentre correva, gli venne in mente un suo compagno di scuola, Luigi, una persona davvero speciale, che la maestra amava molto. Erano anni che non lo vedeva, non si era mai fatto sentire dopo la fine della scuola. La mamma gli aveva raccontato che si era sposato con una brava giovane e che viveva poco lontano dal paese, con lei e con i figli. Primo aveva più volte cercato di vederlo alla domenica, ma non si erano trovati, complice gli impegni di entrambi. Quella mattina aveva finito di correre e a piedi raggiunse la casa del suo amico Luigi che era visibile dalla strada come gli aveva detto la madre. Era mattina presto, e la luce del sole si faceva attendere, la casa coincideva con la descrizione fattagli dalla madre. Una casa di contadini, con la stalla, e il fienile. 

Un tempo, era abitata da un vecchio zio, che morendo l’aveva lasciata in eredità al nipote Luigi. Carnera bussò alla porta, vide comparire la moglie, che lo riconobbe, e lo annunciò con gioia al marito, che aveva finito di mungere le mucche e si stava lavando. Davanti al fuoco del focolare c’erano i figli che quando lo videro furono felici e gli corsero in incontro. Erano molti anni che non vedeva Luigi, dal momento della partenza per la Francia di Primo. Carnera subito gli strinse la mano, si abbracciarono e la donna si preoccupò che i bambini non lo infastidissero, perché lo circondavano di mille attenzioni e di mille domande. Primo era felice d’essere a casa di questo suo amico, mentre la donna gli versava da bere e gli porgeva una fetta del dolce appena cucinato. 

Luigi raccontò che aveva letto i giornali che parlavano di lui, e si sentiva orgoglioso d’aver fatto le elementari assieme. Infine, gli mostrò un quadro che raffigurava l’amico, dipinto con le sue mani. Il pugile ne fu felice, si ricordava che a scuola il suo amico era molto dotato per il disegno. La maestra lo faceva spesso scrivere alla lavagna, perché aveva una bella calligrafia. Luigi gli raccontò che lavorava la terra, e i duri sacrifici gli permettevano di vivere dignitosamente. Abitavano in quella casa che a poco a poco avrebbero dovuto ampliarla. Aveva molti anni, ma era fatta di pietre che le donavano stabilità. 

Nella vita poi ci si accontenta di quello che si ha. Carnera si trovava bene con il suo compagno di scuola, non aveva visto il mondo come lui, ma era contento. Aveva un matrimonio felice, allietato dalla presenza dei figli. Possedeva, inoltre, la passione della pittura: dipingeva sia paesaggi che ritratti. Carnera guardava soddisfatto il quadro che aveva fatto su di lui, e sperava che gli venisse donato. Il campione raccontò che aveva battuto un duro pugile spagnolo, in un incontro che gli servì per cancellare una sconfitta patita da Jim Maloney. In America aveva combattuto molto, non era facile farsi strada nella boxe, c’erano tanti pugili che non scherzavano. Da quando era a Sequals, non passava giorno, che non ricordasse che l’attendeva il combattimento a Londra contro il giovane pugile, ma considerato molto forte: Reggie Meen. Carnera gli raccontò che a Londra aveva combattuto già altre volte. Questo incontro sarebbe stato l’ultimo dell’anno. 

Il suo amico gli fece altre domande, la moglie portò altre fette di dolce e del buon caffè con tanto latte, era quello che potevano offrirgli. Primo era felice, si sentiva a casa, che considerava accogliente anche se modesta. Per un attimo sognò di poter vivere in armonia ed in una casa confortevole come la loro.  Mancavano poche settimane al Santo Natale e i bambini avevano allestito in un angolo della casa un bel presepe, dove avevano collocato delle statuine in legno che avevano costruito assieme al padre. Il S. Natale era la festa più cara dell’anno per Primo. Infatti, ricordava con malinconia tutti i Natali trascorsi lontano dal suo paese. Il pugile si mise ad ammirare il quadro dipinto dal suo amico, appoggiato alla parete e che faceva da sfondo al presepe. Raffigurava un piccolo borgo raccolto attorno ad una chiesetta molto bella, e degli animali. Si scorgeva poi un vecchio frate con la bisaccia, di quelli che andavano a chiedere l’elemosina per il convento. Quello che veniva dato, era poi donato in parte ai poveri. 

Il frate era S. Felice da Nicosia, il suo volto era contornato da una fluente barba bianca e ai piedi aveva dei sandali, nonostante la stagione fredda. C’erano anche degli asinelli, di cui uno aveva sulla groppa una bisaccia. Carnera riconobbe sul dipinto un capitello diroccato che si trovava a Sequals. L’autore del quadro disse che aveva cercato di dipingere quello che ogni giorno lo attorniava con semplicità e che il frate rappresentava colui che incarnava la fede con le opere. Aveva scelto di dipingere S. Felice da Nicosia perché, leggendo la sua biografia, gli era piaciuta molto. Il capitello gli ricordava una vecchia donna, che ogni giorno si recava a pregare per il figlio che era caduto in guerra. La sua presenza davanti al capitello lo aveva incuriosito e una volta le aveva parlato. 


La donna non si dava pace per la morte del figlio in giovane età. La povera vecchia non sapeva neppure dove fosse sepolto. Luigi per consolarla le aveva fatto un quadro del figlio, con la divisa del Regio Esercito Italiano. Il ragazzo era stato decorato con una medaglia al valore. L’anziana donna gli era stata tanto grata per questo gesto, e ogni Natale andava a mangiare da loro. Nulla poteva sostituire l’assenza del figlio, ma la condivisione del pranzo con questi amici la poteva un po’ consolare. I bambini si disposero attorno a Carnera, gli toccavano i possenti muscoli, lo guardavano con curiosità e non vedevano l’ora di ritornare a scuola per raccontare alla maestra che era venuto nella loro casa il campione Primo Carnera. Il pugile abbracciò il suo vecchio amico e la sua famiglia e ritornò a casa soddisfatto di aver ricordato i vecchi tempi, felici ed indimenticabili.

sabato 27 marzo 2021

Eroi dimenticati: l’ultimo Conte di Salemi e quel diritto alla prima linea


Era una calda giornata del 22 giugno 1889 quando Maria Letizia Bonaparte, seconda moglie di Amedeo I di Spagna e pronipote di Napoleone, mise al mondo Umberto. 

Pochi mesi più tardi, il Re di allora Umberto I conferì al neonato il titolo di Conte di Salemi, carica che non venne più rinnovata a nessun altro. 

Umberto aveva altri tre fratellastri: Emanuele Filiberto, Vittorio Emanuele conte di Torino e Luigi Amedeo conte degli Abruzzi.

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https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/eroi-dimenticati-lultimo-conte-di-salemi-e-quel-diritto-alla-prima-linea-88060/


Io difendo la Monarchia cap X - 7

 


In Germania il movimento nazionalsocialista non ha trovato una monarchia, ma una repubblica presieduta dal vecchio maresciallo Hindenburg. Per Hitler è stato un giuoco da fanciullo trasformare la Repubblica democratica di Weimar nello Stato nazionalsocialista. E in che modo la monarchia jugoslava ha potuto oggi sostenere l'urto del movimento di Tito? In che modo la repubblica polacca poté sostenere a suo tempo l'attacco dei legionari di Pilsudski? Non era questi il vero capo dello Stato? Noi abbiamo vissuto un'epoca sconvolta ed eccezionale di Moti, di rivoluzioni, di colpi di stato che hanno sconvolto tutto il Continente. Caddero dapprima i tre vecchi Imperi che un secolo prima, nel 1815, avevano costituito la Santa Alleanza; si sgretolò l'Impero turco e decadde il Califfato sotto l'urto di una rivoluzione nazionale. Sorsero dittatori in Spagna e nel Portogallo: nuove dittature a Belgrado, ad Atene; a Budapest. A Madrid una prima dittatura decadde e trascinò con sé, come oggi si vorrebbe fare, in Italia la Monarchia. Ma cosa avvenne? Si sostituì alla monarchia di Alfonso XIII una repubblica democratica? No: si slittò fatalmente a sinistra: dalla repubblica temperata di A. Zamora si precipitò a quella rossa di Azana e poi ancora più a sinistra con accentuazione scarlatta che è inutile ricordare. E si provocò naturalmente la reazione falangista. È vano sperare che i popoli possano tornare alla normalità e all'equilibrio dei poteri, accendendo deliri bellicosi nelle folle e provocando nel corpo sociale delle temperature altissime. Vi sono, si dice, le responsabilità della dichiarazione di guerra e della guerra perduta. Senza dubbio, e Re Carlo Alberto, dopo Novara, seppe trarsi da parte. Ma nessuno discuteva allora, in Piemonte, la tranquilla successione della monarchia. Re Vittorio deve preoccuparsi della continuità dello Stato perché quegli stessi che domandano il suo ritiro, respingono la successione del figlio. La repubblica non può continuare lo Stato italiano nato dal Risorgimento. Essa coincide con un moto di disgregazione nazionale e di accentuati• separatismi. Essa coincide con la duplice invasione straniera. Essa risponde allo spirito vendicativo di Mussolini e allo - stesso spirito di vendetta dei. fuorusciti: di Sforza o Nenni, Lussu o Pacciardi, Togliatti o Grieco. Nata dalla-disfatta e dall'intrigo straniero dei vari La Guardia o Cecil Sprigge, essa aprirebbe, come quella spagnola del 193r, una serie di moti sanguinosi e crudeli di cui nessuno può prevedere l'intensità e lo sviluppo.

Gli ultimi trenta anni della vita europea (1917-1945) sono stati dominati dal mito delle masse; mito che trascorrendo da oriente a occidente ha turbato, sconvolto e distrutto l'ordine degli Stati europei. Dicono i pensatori e gli agitatori che, per intenderci, chiameremo di sinistra, che questo è l'ordine naturale delle cose, è il logico trapasso dal governo del terzo stato a quello del quarto stato e che tutto ciò seguita la benefica evoluzione dell'altro secolo. Qui appunto risiede l'errore. Nella storia dello spirito umano si può notare un progresso indefinito in senso assoluto, ma non in senso relativo. Vi sono improvvise cadute, e regressi, e involuzioni assai gravi. Il mito dominante delle masse ha prodotto questa paurosa frana nella storia della civiltà umana dalla quale noi cerchiamo faticosamente di sbrogliare il passo per riprendere l'interrotto cammino. E innanzi tutto il mito delle masse ha provocato le rivoluzioni e le reazioni che concordemente hanno abolito l'antico ordine parlamentare opponendo le masse alla borghesia di governo. È un movimento unico, non sono movimenti diversi. Tutte le rivoluzioni contemporanee sono delle rioluzioni di sinistra L'unica che possa evitare questa definizione è quella di Salazar in Portogallo ed è la sola saggia, ordinata e pacifica. Il fascismo, il nazionalismo, il bolscevismo costituiscono un solo fenomeno che in luoghi, climi e circostanze diverse si manifesta con forme a volte eguali a volte contrastanti. Ma essi obbediscono allo stesso impulso e alla stessa legge della massa contro la categoria, della tecnica contro lo spirito, dello Stato contro l'individuo; della tirannia contro la libertà; della violenza contro la ragione. E una sola tempesta, un solo turbine che scuote la percossa umanità da trent'anni e ancora non trova pace, ancora semina rovine e stragi (si veda ad Atene e a Belgrado) che generano nuovo disordine e nuovo sangue.

Lenin, Stalin, Trotskij sono uomini di sinistra, congiurati ed espatriati come i Mussolini, gli Hitler, gli Strasser, i Pilsudski, i Rossoni, i Farinacei (noi elenchiamo, non confrontiamo), i Nenni, i Togliatti. Nessuno di essi dice più popolo, come diceva Mazzini, ma tutti dicono massa; tutti pensano di adoperare questa massa contro l'ordine esistente per distruggerlo e per divenire padroni delle sue rovine. Tutto ciò, si dirà, è la storia e nessuno può pensare di contrastarne il corso. p noi diremo che, sì, è forse storia, ma essa non procede concorde con lo spirito umano, non si accompagna can i trionfi della libertà. Della libertà anzi fa strame, la libertà soffoca e distrugge e perciò essa è l'Antistoria come Croce ha rivelato nelle pagine superbe della sua, Storia d'Europa.

Ed ora concludiamo: l'Italia non può tornare a vivere e a progredire come nazione unita se essa non tenta di ristabilire l'ordine parlamentare e costituzionale con cui ha coronato il suo Risorgimento. La Monarchia non ha tradito il popolo, ma il fascismo ha tradito il popolo e la Monarchia. La repubblica in Italia non ha tradizioni unitarie. Essa è municipale per intima e organica derivazione. Non appena si è parlato di repubblica si sono pronunciati gli accesi separatismi delle isole e i movimenti regionali e le gelosie municipali che hanno portato i milanesi a cancellare Via Roma dalla toponomastica cittadina. Episodi; indizi incerti, ma significativi. È possibile che la Monarchia, sorretta da una costituzione rammodernata e ammaestrata. dalla lezione cocente della storia, ricostituisca e mantenga l'equilibrio dei poteri; ma non è possibile che una repubblica di parte, di colore, stimolata e diretta come è logico, dai suoi più accesi e numerosi sostenitori, ricostituisca un tale equilibrio. La giustizia eccezionale che imperversa nel paese da diciotto mesi con l'abbandono dei più saldi e tradizionali istituti giuridici, la proposta socialista di concedere il premio di maggioranza al partito o alla coalizione vincente nelle elezioni (esattamente come disponeva la deplorata legge Acerbo nel 1923): queste anticipazioni e molte altre che tralasciamo fanno prevedere il carattere fazioso della repubblica che si minaccia. Il minimo che noi possiamo dire nel presente è che essa non darà né pace civile, né libertà, né ordinato progresso agli italiani.

Alle ragioni interne di questo nostro pensiero si aggiungano le ragioni esterne. L'Italia non è tornata an­cora a far parte del concerto europeo che esisteva al tempo del Congresso di Vienna e del Congresso di Ber­lino e ancora al Congresso di Parigi. Noi non sappiamo, oggi, se un tale concerto si potrà ricostituire. Per ora l'Europa è divisa in due opposte zone di influenza; la zona sovietica e la zona anglosassone. Una repubblica incoraggerebbe l'azione russa già così minacciosa per tutti e così contraria al nostro interesse nazionale gra­vemente compromesso alla frontiera orientale per l'iniziativa di uno Stato satellite di Mosca. Dato l'inevitabile slittamento a sinistra della repubblica, quale inte­resse noi abbiamo a contrastare la politica anglosassone nell'Europa occidentale? Non attendiamo quindi le macchine, le materie prime per le industrie, i crediti, il grano, il cotone, la lana dai paesi anglosassoni? Non ci domandano invece russi e jugoslavi riparazioni in mac­chine e in materie prime? E il soddisfare queste esigenze non porterebbe il paese alla disperazione e il popolo alla più nera miseria per molti anni? Si ripete che è il po­polo che vuole la repubblica. Ma è quello stesso popolo che acclamava Mussolini. Non è delitto eccitare la fan­tasia e risvegliare gli istinti di rapina e di violenza delle folle per poi farsi forti di tali esplosioni delle masse? Ammoniva già Guicciardini nei suoi Ricordi politici e civili: «Chi disse popolo disse veramente uno pazzo, perché è uno mostro pieno di confusione e di errori e le sue vane opinioni sono tanto lontane dalla verità, quanto è, secondo Tolomeo; la Spagna dalla India ».


venerdì 26 marzo 2021

160° anniversario del Regno d'italia

 Segnaliamo con colpevole ritardo questo articolo dei nostri amici, professori Finucci e Bafaro.

 


Genesi dello Stato moderno unito nel segno della Tradizione

Il 17 Marzo ricorre il 160° Anniversario della Proclamazione del Regno d'Italia con Torino Capitale, presupposto fondamentale dell'Unità d'Italia, che si compirà con la Prima Guerra Mondiale nel 1918, per questo definita Quarta Guerra d'Indipendenza. A questo evento vanno legati altri due importanti appuntamenti risorgimentali, il 1500 Anniversario di Roma Capitale, il 3 Febbraio, e il Centenario del Milite Ignoto, il 4 Novembre.

Messaggio del Re Umberto ll del 17 Marzo 1961

Nel Centenario della Proclamazione del Regno d'Italia

"[...] L'epica impresa poté grado a grado raggiungere l'altissimo fine, perché il Re Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour, aveva assunto con mano ferma la direzione e la responsabilità del moto nazionale, coraggiosamente superando difficoltà di ogni genere. Attorno ad essi sorsero da ogni parte d'Italia - magnifico prodigio - falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei nostri grati cuori. L'apostolato di Mazzini e l'eroismo di Garibaldi integrarono l'opera meravigliosa, risultato di forze confluenti e contrastanti, fuse dalla sintesi costruttiva della Monarchia nazionale. Discordie e rancori di partili furono arsi dal seri limen lo religioso della Patria: così sorse il Regno d'Italia. [...]"

[...]

https://www.consulpress.eu/160-regno-ditalia/

giovedì 25 marzo 2021

Dante e il suo tempo


 di Domenico Giglio



Aver deciso di dedicare annualmente una giornata, il 25 marzo, al nostro sommo poeta Dante – di cui quest’anno ricorre il 700 anniversario della morte -, è una delle iniziative commemorative e celebrative con cui si è unanimi concordare, non solo per il valore letterario di tutta la sua opera poetica - “mostrò ciò che potea la lingua nostra” -, ma anche per le considerazioni storiche sull’Italia, della cui unità politica e spirituale è stato senza dubbio il maggiore precursore e per una riflessione su quella sua vita così tumultuosa e sofferta che lo ho poi portato ad esprimere in così alti e nobili versi una profondità di sentimenti, riflessioni e conoscenze dell’animo umano e delle dinamiche della storia, tali da rendere la Commedia un tesoro contemporaneamente senza tempo e di ogni tempo.

Permettetemi pertanto di soffermarmi in questo breve scritto su alcune riflessioni inerenti ciò che Dante ha vissuto, in particolare in quella parte di vita dedicata all’impegno morale, alla verità e giustizia che ricercò profondamente dopo la morte dell’amata Beatrice avvenuta nel 1290, e riflessa prima nel suo impegno politico e poi a maturazione nello scritto citato, e su un’interpretazione conclusiva – strettamente personale – di uno degli enigmi dello stesso che ritengo fare luce tuttavia sul suo fine ultimo, oltre il suo medesimo intendimento esplicito.

Cominciando dalla sua posizione “politica”, la famiglia Alighieri era “guelfa”. Foscolo nel chiamare Dante “ghibellin fuggiasco” ha confuso la scelta “monarchica imperiale” di Dante, con la sua posizione “fiorentina”, che ne faceva cioè un guelfo “bianco” contrapposto ai guelfi “neri” – ferventi sostenitori del Papato e del suo potere temporale. La scelta invece di campo quale “guelfo bianco” era più in qualità di difensore del Comune rispetto all’ingerenza della Chiesa. Dopo una prima vittoria dei guelfi bianchi e di Carlo d’Angiò, le sorti si ribaltarono portando all’esilio di quest’ultimo e relativa scomunica da parte di Bonifacio VIII, stessa sorte per Dante. Anche Dante infatti subì l’(ab)uso politico della giustizia per eliminare un avversario - abuso purtroppo ancora attuale dopo 800 anni. Infatti mentre era a Roma per una ambasceria ufficiale del comune fiorentino presso il Papa Bonifacio VIII, sopraggiunti al potere i guelfi neri a Firenze, Dante, non potendo tornare a Firenze venne processato in contumacia e condannato con sentenza del 27 gennaio 1302, ad un esilio biennale, con multa di 5000 fiorini piccoli e bando perpetuo da ogni ufficio pubblico, per “fama publica referente” di baratteria, estorsione ed altri delitti. Nel frattempo a Firenze i “civili” avversari guelfi neri corsero alla sua casa, rubando ogni cosa. Di questo processo è da notare un’altra caratteristica negativa - purtroppo ripresa anche ai nostri giorni - della “retroattività” delle leggi, in quanto come scrisse Leonardo Aretino nella “Vita Dantis poetae carissimi”, “fecero legge iniqua e perversa, la quale si guardava indietro, che il Podestà di Firenze - Cante de’ Gabrielli di Gubbio - potesse e dovesse conoscere i falli commessi per l’addietro nell’ufficio del priorato – anche Dante era stato Priore dal 15 giugno al 15 agosto 1300 -, contuttoché assoluzione fosse seguita”. A questa “benevola” sentenza ne seguì nel marzo, sempre contumace, quella di essere “arso vivo”. Come se non bastasse nel 1303 sempre il comune di Firenze stabilì l’esilio per i suoi figli al compimento del quattordicesimo anno e con la sentenza del 6 novembre 1315, avendo Dante rifiutata l’umiliante proposta fiorentina di modifica della pena, venne confermata la pena di morte, estesa questa volta anche ai figliuoli rei di essere nati da un rivoltoso. E come sappiamo non potè fare mai più ritorno a Firenze.

Poche righe sì importanti per comprendere la scelta di certi esempi e personaggi nella Commedia, ma anche per ricordarne la volontà di voler esprimere coerenza ai propri impegni e pensieri, nonché purtroppo, le relative conseguenze, come uomo, come padre, come cittadino. Non da ultimo permettendomi di apprezzarne la capacità nell’adempierlo quando l’espressione più alta in ogni arte – e direi ogni vocazione – è la derivata di un coinvolgimento di una vita vissuta in tutti i suoi aspetti.

Ecco quindi la triste divisione delle popolazioni della città in partito legata a persone o famiglie. La condanna di Dante è inesorabile nel canto XXVIII dell’Inferno, dedicato a coloro che seminano discordie, ovvero coloro che hanno creato ad arte divisioni in campo religioso e politico, puniti con contrappasso assai evidente (lacerati come in vita essi stessi hanno fatto), ma non solo. La condanna alla divisione è anche nella citazione di queste famiglie, tra cui quei Montecchi e Cappelletti (Capuleti), nel canto VI del Purgatorio, che secoli dopo ispirarono la grande tragedia “Shakespear-iana”, in quella Verona dove non riuscì a rimanere, e nella condanna dei tiranni, di qualsiasi origine popolana o nobiliare. Senza dimenticare infine il dolore di un padre nel ricordare ciò a cui sono condannati senza colpa i propri figli, con la famosa invettiva per i figli del conte Ugolino della Gherardesca, chiusi nella torre, insieme con il padre, fino alla tragica morte: “Ahi Pisa…chè se il conte Ugolino aveva voce di aver tradito…non dovei tu i figliuoi porre a tal croce” (Inferno, canto XXXIII, versi 79-87).

Ancorché il più studiato – e forse conosciuto -, l’”Inferno” non è però la fine. Come anticipato, con forza e profondità di pensieri, memorie e sentimenti, Dante lascia un’eredità nobile ed ancor più attuale, soprattutto quando al male – subito e vissuto nelle proprie viscere - viene contrapposto sempre un esempio di bene e di speranza, nella vita sociale, spirituale così come nella politica, e non da ultimo nelle scelte civiche. E proprio dal Purgatorio sceglie personaggi che diano messaggi di “rinascita”, come si confà ad una ascesi verso la luce….

Ecco quindi un esempio di difensore della libertà e coerenza per la giustizia, morto per essa “… sì cara , come sa chi per lei vita rifiuta …”, Catone l’Uticense, a cui Dante assegna la funzione di Giudice del Purgatorio, pur pagano e appunto suicida (Purgatorio, canto I, versi 71-72). Grazie proprio alle virtù civili di Catone, Dante crede che Dio gli abbia dato una fede implicita in Cristo venturo, che lo pone ora in Purgatorio, e un domani in Paradiso. Un rimanere fedeli al proprio destino, alla morale, che in lui Dante (uomo e non poeta) e Catone, si esplicita anche in una “missione” politica.

Lascia inoltre enunciare tra le righe a “quell’anima lombarda ... altera e disdegnosa, onesta e tarda” (Purgatorio, canto VI, vv. 62-63) di Sordello da Goito uomo fiero e nobile, cultura della buona politica, un appello rivolto ad un potere superiore che deve assicurare pace ed equilibrio a tutti, al di sopra e al di fuori delle citate divisioni, potere di cui all’epoca se ne accusa la mancanza, e di cui il Poeta ben tratteggia, non senza toni sarcastici, il suo carattere nei versi finali del canto sesto del Purgatorio, da leggere e meditare.

Sono solo - come detto - brevi ma concreti esempi di un viaggio, sofferto, fino all’apice del Paradiso. Per questi citati ed altri mali infatti risalenti alle “tre belve” incontrate all’inizio del cammino dantesco, e particolarmente alla lupa, la fine verrà con il “…veltro, che la farà morir di doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapienza ed amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro” (Inferno, canto I, versi 101-105). Versi inseriti quando chi legge non conosce la fine, ma versi pensati quando chi scrive conosce “il fine”. Ecco quindi quella riflessione personale citata in premessa, sul concetto di “missione”, ben diverso da una “profezia”. La missione è “immediata”, contemporanea anche se il suo effetto può continuare nel tempo. Ancora oggi leggiamo testi di grandi predicatori, ed anche il semplice, ma stupendo “Cantico” di San Francesco o lettere di Santa Caterina da Siena. Non è quindi, a mio modesto parere, il veltro il riferimento ad una figura di qualche contemporaneo (Cangrande della Scala), anticipatore di personaggi fino al Risorgimento ed oltre, o di persone del mondo ecclesiastico o affini (un nuovo Salomone), quanto un’interpretazione che si cela nelle parole stesse del poema. Il veltro è qui un termine metaforico relativo ad un cane da inseguimento e da presa, che univa velocità e forza, adatto a combattere un altro animale, ma il fatto che non si ciberà di cose materiali, cioè non sarà avido di territori e di ricchezze, già di per sé esclude gli uomini, per grandi possano essere. Quel “tra feltro e feltro” pone invece la nascita di qualcosa che potrebbe essere riferito alla carta stessa, comprendendo l’importanza di questa pressatura. Allora ecco che il veltro potrebbe essere interpretato come la stessa “Commedia”, uno scritto appunto sulla carta, che come per il grande poeta latino Orazio, che Dante incontra nel castello degli spiriti magni, nel Limbo, avrebbe potuto sfidare il tempo, come poi effettivamente è stato, “exegi monumentum aere perennius”. Potrebbe essere Dante così superbo da ritenere la sua opera capace di tanto? No, non credo sia superbia, ma con serena coscienza, la convinzione di aver scritto qualcosa che supera i limiti dello spazio e del tempo, quel “…poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra” (Paradiso, canto XXV, versi 1-9 ).

Ecco perché “la sua nazion”, e la “sapientia, amore e virtute” possono essere i suoi cento canti e la sua missione contro cupidigia, corruzione, avarizia, ricchezza - e potere temporale della Chiesa (poi cessato il 20 settembre 1870), che han così toccato la sua vita, sempre valida ed attuale.

Queste giornate a lui dedicate e queste mie brevi citazioni sperino portino al rinnovato piacere della lettura dei suoi versi, a studi ed approfondimenti che facciano risaltare la bellezza dei suoi componimenti e l’attualità di tante intuizioni, nonché la capacità di contrapporre al male o torto subito, sempre esempi di virtù e speranza (Paradiso, canto XXV, v. 64-81), sia spirituale che umana, civile e politica. Se ciò porterà anche aprire o riaprire alcune polemiche su alcuni punti della “Commedia”, lo sarà sempre nella volontà di comprenderla a fondo e nel rilevarla la sua attualità – come testimoniato anche da recenti pubblicazioni (cito solo l’ultima in ordine di tempo di A. Cazzullo “A riveder le stelle”), confermando l’intuizione a distanza di quasi 800 anni di aggiunta di quel termine “Divina” a cui gli immediati posteri giunsero giustamente, termine con il quale da secoli ed in tutto il mondo è conosciuta.