NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 agosto 2016

Richiamo al buon metodo della Storia. La storia della Casa di Savoia. Benedetto Croce


L'articolo di Giuseppe Galasso di qualche giorno fa sul Corriere della Sera a commento della riedizione di un opuscolo di Luigi Salvatorelli del 1944 ci ha dato l'occasione per riscoprire un articolo di Benedetto Croce pubblicato nel Giornale di Napoli, 13 ottobre 1944, e nel Risorgimento liberale di Roma, 14 ottobre.
Nell'articolo Croce contesta organicamente al Salvatorelli il suo metodo e quindi tutto il contenuto dell'opuscolo dettato non già da analisi obiettiva ed impersonale ma dalla passione politica e segnatamente da quella di un partito, il Partito d'Azione molto rappresentato al governo ma che non avrebbe avuto alcun seguito popolare di lì a poco.
L'articolo è pubblicato in "Scritti e discorsi politici 1943-1947, Laterza 1962.
Ringraziamo i nostri solerti amici per la segnalazione che ci ha permesso di trovarlo!
Lo staff


Non si pensi che io voglia, neppure per qualche momento, distrarre i nostri lettori dai problemi politici che premono sopra noi tutti e sono il nostro presente e attuale dovere. Il richiamo, che mi permetto di fare, all'osservanza del buon metodo della storia, mi sembra oggi anch'esso sollecitudine e dovere politico.
Perché la conoscenza storica è il fondamento di verità che di continuo poniamo e rassodiamo per il nostro fare politico. Senza di essa, si andrebbe alla cieca, in un mondo cieco. E formare o ricevere in sé la conoscenza storica vuol dire la ricorrente tregua o sospensione mentale delle lotte tra gli uomini e tra i partiti nel momento che ci affissiamo solo in lei.

Leggo, in un avviso che accompagna l'opuscolo storico che ho dinanzi, che questo appartiene a una serie di Pubblicazioni, condotte « secondo le direttive ideologiche e politiche del Partito d'azione». Senza mancare di riguardo al Partito d'azione, -perché, oltre il resto, non mi è possibile mancare di riguardo a un partito che vedo ora in grande travaglio per definire sé stesso, - dico che nessun partito deve dare le «direttive» alla storia, la quale le attinge solo dalla purezza del pensiero.

Nessun partito? Neppure il liberale? Neppure il liberale, perché questo (e tale è una delle ragioni per le quali io sono liberale) professa bensì il suo rispetto assoluto alla storia e riconosce senza esitanze, anzi con gioia, il contributo che, come la storia mostra, al progresso civile e umano hanno apportato e apportano uomini di partiti diversi ed opposti, i quali, anche senza averne chiarezza o contro i loro propositi, hanno lavorato per la libertà - ma, nel far ciò, non dà le sue proprie direttive alla, storia, sibbene accetta esso dalla storia una delle sue necessarie condizioni o « direttive ». 
Dunque , l'opuscolo di cui oggi discorro è dovuto alla penna di uno dei nostri più colti storici e pubblicisti, Luigi Salvatorelli, e s'intitola Casa Savoia nella storia d'Italia (Roma, maggio 1944); e vuol essere una dimostrazione della quasi continua estraneità e divergenza e ostilità tra la storia di Casa Savoia e quella d'Italia.

Per compiutezza bibliografica, mi piace notare che lo stesso argomento, con la stessa tesi, è stato trattato in un opuscolo (di cui il Salvatorelli non poté godere la benefica lettura, come potemmo noi fin da alcuni mesi or sono in Napoli, che fu liberata prima di Roma) di un giornalista italiano, diventato cittadino americano, il Borgese, il quale ha ora il poco buon gusto di rovesciare contumelie e calunnie, dall'altra sponda dell'Oceano, sugli uomini che in Italia, tra non piccole difficoltà, operano come meglio possono per la salvazione della loro patria.
E’ agevole immaginare che cosa sia diventata la storia della casa di Savoia nelle mani di un uomo simile, il quale, per di più, non ha avuto mai alcuna pratica di cotesti studi e delle delicate cure che richiedono.

Il Salvatorelli ha ben questa pratica ed è esattamente informato dei fatti particolari che viene rammentando; ma ha preso le mosse da una polemica e confutazione della storiografia, com'egli la chiama, sabauda e cortigiana, che ha avuto corso, dopo il 1860, in manuali per le scuole o in libri di professori conformisti o di troppo zelanti monarchici. Era necessaria questa polemica? In verità, quella storiografia ufficiosa e convenzionale veniva smentita dalle parole che correvano in proverbio, da tutti accettate: che la politica della casa di Savoia verso l'Italia era stata quella del carciofo che si mangia a foglie; e, circa la mutevole e infida politica di quella casa tra Francia e Spagna, tra Francia e Impero, dal motto scherzoso ma acuto del principe di Ligne: che «alla casa di Savoia la posizione geografica impediva di fare una politica estera onorevole». Gli storici seri hanno sempre detto come stavano realmente le cose: e, per esempio, anch'io, modestamente, nel dare un quadro della storia d'Italia nel seicento, mi spacciai con poche parole delle esaltazioni nazionalistiche, dovute a poeti e pubblicisti di quel tempo, della levata di Carlo Emanuele I contro la Spagna, le quali erano, come scrissi, nient'altro che «un espediente eli esortazione e di polemica ai fini della particolare politica di un particolare stato, anzi di un singolo uomo, che, per amore di grandezza e di gloria, sognava a volta a volta di farsi duca di Milano, signore di Genova, conte di Provenza, re di Francia, re di Boemia e Imperatore romano» **. Come si vede, in siffatti giudizi io non dissento dal Salvatorelli.
Ma il Salvatorelli prende particolarmente a combattere l'interpretazione sabaudica data della storia di casa Savoia dal prof. Cognasso, che insegna a Torino. Anche qui: ne francava la spesa? Quale risonanza hanno mai avuto, quale pericolo di sviamento nei giudizi hanno mai portato, quelle interpretazioni del Cognasso, i cui meriti di studioso, del resto, sono stati acquistati soprattutto nella storia bizantina e medievale?
Come che sia, ciò facendo, il Salvatorelli ha disavvedutamente preso dal suo avversario l'impianto della narrazione e dimostrazione storica, e in cambio di elevarsi sopra di esso col rifiutare nettamente quello schema e salire sul monte della storia, e rimasto sul piano.

Dal suo avversario gli è venuta anche, per imitazione e contrario, la trattazione storica convertita in un esame di ciò «che si doveva fare», e che i conti, duchi e re di casa Savoia, da Umberto Biancamano a Vittorio Emmanuele III non fecero o fecero male o fecero in senso opposto al dovuto. Tutto il suo opuscolo è intessuto di queste forme di giudizi vietati allo storico, e di frasi in cui abbondano i «se», i «si sarebbe potuto», e simili. Lo storico ben conosce che non è dato sostituire sé stesso all'individuo che ha operato nelle individue condizioni di animo e nelle circostanze in cui, di volta in volta, effettivamente ebbe a trovarsi; e non smarrisce mai l'assioma che, se colui si comportò come si comportò, non poteva altrimenti, e prova ne è che, nel fatto, non fece altrimenti. Lo storico non consiglia, e non rimprovera, per piú efficacemente indirizzarli, uomini viventi plastici, trasformabili, da persuadere o da intimidire per la più avveduta o la più giusta loro azione nell'avvenire; ma ha innanzi il passato, reso sacro dal suo carattere stesso di passato, voluto così da Dio o dallo spirito del  mondo o (se ciò aggrada ai miei filosofici colleghi comunisti) dalla necessità dialettica della Materia. Il Passato bisogna, bensì intenderlo, ma non già presumere di censurarlo, né di somministrargli l'errata-corrige.

L'esecuzione stessa di questo errato schema si sarebbe presto fatta sentire al Salvatorelli disagevole e insostenibile nel fatto, se egli non possedesse, altresì in comune col suo avversario, un'idea che è un'immaginazione, contro la quale non ho mai tralasciato di mettere in guardia gli studiosi: quella di un'unitaria storia d'Italia nei secoli,            protagonista la persona spirituale dell'Italia. Ma l'Italia, e anche l'aspirazione effettiva all'unità statale dell'Italia, fu un avvenimento del secolo decimonono, nel quale tutti            sanno la grande parte che ebbe Giuseppe Mazzini; e non è lecito assumerla a misura e criterio per i fatti di altre età, che ebbero altri problemi e si mossero in altre cerchie             ideali e operative, e le cui persone erano Venezia, Firenze, Milano, Torino, Napoli, Sicilia e via dicendo. Così il Salvatorelli accusa i Principi di casa di Savoia di non aver           avuto di mira l'unità d'Italia, di aver negletto di lavorare a tal fine, o di averlo contrastato. Ma anche quando non c’era il problema dell'unità d'Italia, si poteva lavorare utilmente per la civiltà e preparare alla lontana e inconsapevolmente le forze per affrontare un giorno, allorché sarebbe sorto, il problema dell'unità nazionale, e gli altri che l'hanno seguito e lo seguiranno. E la casa di Savoia governò, soprattutto nel settecento e nell'ottocento, uno degli stati più saldamente costituiti tra quelli italiani, che per questa sua saldezza poté, al momento buono, farsi promotore dell’Indipendenza e attuare intorno a sé l'unità d'Italia.

Meno stridente che non sia con la sua rassegna storica (la quale dal secolo undecimo va fino al secolo decimonono) è il tono mordace, acre, sarcastico, astioso, e insomma, appassionato, del racconto del Salvatorelli, quando egli giunge al secolo ventesimo e alla sciagurata contaminazione di quella assai stimata monarchia col fascismo. Ciò che egli dice della responsabilità del re Vittorio Emanuele III nel triste e vergognoso periodo chiuso della nostra vita nazionale, è stato gridato alto da noi, qui in Napoli, prima che il Salvatorelli e i suoi compagni potessero liberamente muoversi e parlare. Ma noi appunto, nel dire quel che dicemmo, nell'esortare e nel premere perché il re lasciasse il potere come alla fine ottenemmo, facevamo politica. e non già scrivevamo storia. Forse anche nella nostra indignazione per l'accaduto c'era, almeno in alcuni di noi il senso doloroso dell'offesa che si era recata da un re dei Savoia a questa veneranda casa sovrana, la, più antica di Europa che noverava nove secoli di vita, ricchi di nobili e severe memorie, e che, quando noi eravamo giovani, aveva ispirato l'altissimo canto di Giosué Carducci.
 Un'ulti-ina osservazione si avverte, nelle. pagine del Salvatorelli, come un continuo sospetto e rimprovero che i re di casa Savoia, o i re in genere dirigessero la loro politica nell'interesse della conservazione e salvazione della Monarchia e della Dinastia.
Ma se la Monarchia è la forma di uno stato, quale meraviglia che il re intenda a conservarla e tenga in conto le necessità vitali di essa, giacché la sua stabilità e il suo vigore sono pur necessari allo stato e al popolo che essa governa? Tutto sta a non perdere propter vitam vitae causas, e a non sacrificare, per conservare la monarchia, il bene pubblico, e a non sacrificare il popolo che si regge: con che si perderebbe, infine, la monarchia stessa. Così un esercito è fatto per difendere la patria, ma insieme con ciò ha i suoi interessi propri, di esercito, che non può servire la patria se prima non conserva sé stesso, cioè non serve alle ragioni del suo organismo militare. Così gli scienziati servono alla patria fornendola di scienza, ma questa forza non potrebbero prestare alla patria se innanzi tutto non servissero agli interessi della scienza, della pura scienza, autonomi e distinti da quelli della patria, sebbene con essa unificabili. Non vedo perché i monarchi, che hanno a cuore la stabilità della monarchia e la successione del trono, debbano essere trattati peggio dei militari e degli scienziati, e sottomessi a un sospetto e a un discredito dal quale gli altri vanno esenti. In fondo, il re Vittorio Emmanuele III fu colpevole di avere, non già provveduto alla stabilità della monarchia e alla successione dinastica, ma, per accomodamento, per quieto vivere, per fiacchezza, compromesso l'una e l'altra con l'abbandonare prerogative che erano non soltanto sue ma del suo popolo, come la successione ereditaria, e diritti e doveri che lo Statuto gli assegnava e, che egli lasciò esercitare a un avventuriero, come la dichiarazione di guerra e il comando delle forze di terra e di mare. Così avess'egli difeso le sorti della sua casa, «inseparabili» (come in una solenne occasione aveva affermato) «da quelle della libertà »!

* Nel Giornale di Napoli, 13 ottobre 1944, e nel Risorgimento liberale di Roma, 14 ottobre.
**Storia dell'età, barocca, p. 489

domenica 28 agosto 2016

MA NEL DOLORE PURE IL CONFORTO E’ ORMAI LAICO

Renato Farina
Domenica 28 agosto 2016
Nei campi dei terremotati c'è la tenda degli psicologi, sono loro quelli ufficialmente abilitati a dare conforto. Ed è una buona cosa, bisogna pur dare ristoro anche a quel che è invisibile, la psiche, che ha subito traumi perché anche quella non è stata costruita secondo criteri antisismici, o forse non ce n'è. Per cui nei campi di accoglienza è stata montata la struttura leggera dove si cucina e si mangia, quella dove si dorme, c'è la tenda della Croce rossa in cui si cura il corpo e poi ecco quella che ospita chi dà sostegno alle menti spezzate dal dolore e dalla paura. Sono così salvaguardati tutti i bisogni essenziali. Manca qualcosa?
Ecco. Non c'è una chiesetta, magari di cotone, di plastica, di moplen, dove un prete consoli e dia i sacramenti, nella discrezione necessaria. Quella non è prevista nell'emergenza. Ed è perfetto, secondo i criteri del nostro tempo, dove la guerra di religione è molto di moda ma l'unica religione ammessa per curare le anime è quella che ha per fondatori Freud e Jung. Gesù non ha mai avuto una pietra dove posare il capo, del resto - sono informato - è invisibile, e si palesa nel volto dei poveri. Però gli uomini non vivono senza segni. E la presenza o assenza di segni tangibili dice che cosa conta e che cosa no. Oggi non siamo ancorati a nulla: al massimo alle pillole degli psichiatri. Basta così?
Non mancano i sacerdoti. Girano impolverati e instancabili due vescovi locali, Pompili e D'Ercole. I curati e i frati corrono anche dove qualcuno maledice Dio e i Santi. Ma una casetta di tela, di cellophane, dove stia il Santissimo, non c'è.
Questa emarginazione è cominciata nel 1976, al tempo del sisma in Friuli. I preti antichi, solidi come rocce e leggeri come cime alpine, erano tutti un «ora et labora». Capivano bene che per rinascere il popolo deve ritrovarsi intorno a simboli vivi, in cui si trova la sorgente di una vita che ricomincia. La chiesa, le campane, il monumento rimesso su a Garibaldi. Ma prevalse l'ideologia dei preti dei «cristiani per il socialismo», da teologia della liberazione, secondo cui prima bisogna rimettere su le fabbriche, poi le scuole, quindi le case, e per le chiese si vedrà.
Oggi forse si metterebbe al primo posto la sala giochi, meglio distrarsi, non è vero? Oppure, più pensosamente, si offre il rimedio di un percorso di psicoterapia. Anche se non risulta che sia mai nata una civiltà nuova o si sia ricostruito un mondo pieno di pace intorno al lettino di uno strizzacervelli (per informazioni, citofonare Woody Allen).
In fondo, questo ritorno al massaggio della psiche ricorda la soluzione gaudente che, contro le angosce della morte, propose la principessa Cristina di Belgiojoso nel 1849, durante la Repubblica Romana. La nobildonna rivoluzionaria ingaggiò negli ospedali un corpo di infermiere specialissime: brigate di prostitute sostituirono le suore di San Vincenzo per confortare i moribondi. Non funzionò.
Bisogna essere realisti. La domanda sul perché del dolore innocente resta, l'enigma si abbatte su di noi ogni volta, e la diceria immortale su Dio è l'unica cosa interessante. Abbiamo bisogno, chierichetti ad honorem o gente alla Peppone allergica ai pater-ave-gloria, un don Camillo che parli da una chiesa dotata di crocifisso. Il grande Giovannino Guareschi mise in pagina, dinanzi al disastro dell'alluvione che tanti morti e sfollati provocò intorno al grande fiume, il Po, questo discorso di don Camillo. «La porta della chiesa era spalancata e si vedeva la piazza con le case annegate e il cielo grigio e minaccioso. Fratelli - disse don Camillo - le acque escono tumultuose dal letto del fiume e tutto travolgono: ma un giorno esse ritorneranno placate nel loro alveo e ritornerà a splendere il sole. E, se alla fine, voi avrete perso ogni cosa, sarete ancora ricchi se non avrete persa la fede in Dio... Don Camillo parlò a lungo nella chiesa devastata e deserta e intanto la gente, immobile sull'argine, guardava il campanile...».
Siamo stanchi di tutto questo male. Le parole non bastano, nemmeno quelle dei preti. Ma quel Cristo silenzioso, l'Elevazione, le campane qualcosa forse dicono. O no?

Nel segno dei Savoia


Mostra che celebra il legame tra la Dinastia Sabauda e la città piemontese. In esposizione oggetti, dipinti e documenti provenienti dal Castello di Racconigi, dal Museo della Sindone, dall'Archivio di Stato di Torino, dal Museo Diocesano di Alba, dai Musei Adriani, dall'Archivio storico della Città di Cherasco, dal Consorzio Irriguo Canale Sarmassa e da alcuni collezionisti privati. Possibilità di visite guidate ogni domenica alle ore 16, info e prenotazioni al numero 011.5211788


da sabato 3 a domenica 16 ottobre 2016 

mar.-dom. ore 10-12/14-19  ingresso libero

Palazzo Salmatorisvia Vittorio Emanuele 29Cherasco 0172.427050



venerdì 26 agosto 2016

ARTISTI E LETTERATI ED IL LORO RAPPORTO CON L’ IDENTITA’ NAZIONALE


di Domenico Giglio

La  nascita  ed  il  consolidamento  dell’identità  nazionale   di  un  popolo  può  durare  secoli  e  deve  essere  favorita  da  una  unità  statale  o  meglio , come  è  accaduto  in  Europa  e  particolarmente  in  Francia  da  una  monarchia e  nonostante  ciò  non  sempre  mette  radici  profonde, per  cui   dopo  secoli  possono  esserci  fenomeni  di  rigetto , come  vediamo  oggi  in  Catalogna , in  Scozia  e  nelle  Fiandre. Ora, in  Italia , prima  della  proclamazione  del  Regno, il  17   marzo  1861 , non  è  possibile  trovare  una  identità  nazionale  se  non  in  poeti , letterati  e  scienziati , cominciando  da  Dante , che , facendo  incontrare  nel  Purgatorio  i  due  mantovani , Virgilio  e  Sordello , prorompe  nell’invettiva  sulla  “Serva  Italia” , e  sulle  divisioni  cittadine “vieni  a  veder  Montecchi  e  Cappelleti”, e sempre  all’Alighieri  si  deve  la  descrizione  dei  confini  orientali  dell’ Italia , “ sì  come  a  Pola , presso  del  Carnaro , che  Italia  chiude  e suoi  termini  bagna”. Poco  dopo  segue  l’altro  massimo  poeta , il  Petrarca   che  sferza  “I  Signori  d’Italia” ed  indirizza  una  canzone , che  è   una  invocazione  all’ Italia ,”…latin  sangue  gentile..”  e  speranza  “…che  l’antico  valore- negli italici  cor  non  è  ancor  morto…”, e  dopo  anche  l’ Ariosto , nello  “Orlando  Furioso” , trova  modo  di  incitare  gli  italiani ,”…dormi  Italia  imbriaca” , fattasi  “ancella”. Niccolò  Machiavelli , auspica  “…che  Dio  le  mandi  qualcuno ( all’Italia ), che  la  redima , un  capo  che  provveda  la  pratica  di  armi  proprie  , con  la  virtù  italica…” , per  poi  giungere  a  Leopardi , che  invoca  sì l’ Italia ,”O  Patria  mia,vedo  le  mura  e  gli archi…ma  la  gloria  non  vedo…” e  depreca  che  italiani  abbiano  combattuto  fuori  d’ Italia , riferendosi  alle  campagne  militari  napoleoniche ,entrando  in  contrasto  con  il  Foscolo , che  proprio  nelle  truppe  del  Regno  Italico , aveva  visto  rinascere  l’antico  spirito  combattivo  e  dato  prova  di  indubbio  valore.
Questo  filo  italico  che  collega , attraverso cinque  secoli  di  storia  e  di  vita , non  si  limita  a  questi  grandi  poeti  e  pensatori ,  ma  ne  coinvolge  numerosi  altri , che  forse  è  ingiusto  definire  minori ,  provenienti  da  ogni  parte  dell’ Italia  , che  pure  denunciano  e  deprecano  le  risse , le  divisioni , le rivalità  interne , che  portarono  alle  invasioni  straniere  ed  al  loro  successivo  governo  in  tante  nostre  regioni , auspicando  invece  l’ indipendenza  dallo  straniero , l’unificazione  della  penisola , dedicando  all’ Italia  poesie , canzoni , lettere  ed  appelli., il  tutto  come  scrive  il  grande  critico  Francesco Flora, nella  sua  “ Storia  della  letteratura  italiana” : “soltanto nella  lingua  e  nella  poesia  e  nelle  arti  della  luce  e  della  pietra…i  figliuoli  dell’ Italia  riconobbero…una  patria  comune”.
Sono  nomi , probabilmente  oggi  dimenticati , e  dalla  scuola  e  dalla  società , che  vanno  dal  Sassoferrato , “…piangi  Italia , giardino  del  mondo…” , a  Pietro  Bembo ,letterato  e  Cardinale , a  Baldassarre  Castiglioni , che  descriveva  la  miseria  dell’ Italia , con  toni  gravi  e  mesti, al  Guicciardini , con  la  sua  “Storia  d’ Italia” , a  Gabriello  Chiabrera, forse  il maggior  poeta  del  XVII  secolo, , al  Filicaia, “…deh  (  Italia ), fossi  tu  men  bella , o  almen  più  forte…”,ad  un  Tassoni, che  non  scrive  solo  “La  secchia  rapita”, che  è  anch’essa  una  critica , sia  pure  scherzosa”  alle  rivalità  provinciali ,  ma  anche  le  “filippiche”, contro  gli  spagnoli ,denunciando  “…veramente  quegli  (italiani )  infelici , che    hanno  l’animo  tanto  servile , che  godono  o  almeno  non  curano  d’ essere  dominati  da  stranieri ,( per  cui )  non  sono  degni  del  nome  d’italiani…”,  ed  è  interessante  notare  che  alcuni  di  questi   autori  non  piemontesi , si  rivolgano  a  Casa  Savoia, particolarmente  a  Carlo  Emanuele  I , figlio del  grande  Emanuele  Filiberto., come  il  ferrarese  Fulvio  Testi  che  lo  definisce  “ Carlo,quel  generoso  invitto  core ,da  cui  spera  soccorso  Italia  oppressa” ,e  a  Vittorio  Amedeo  II, come  Eustachio  Manfredi ,bolognese,  che  per  la  nascita  del  suo  primo  figlio  scrive  “Italia, Italia, il  tuo  soccorso  è  nato…” e   come  Felice  Zappi , di  Imola ,  che  dedica  un’ ode  “Al  serenissimo  principe  Eugenio”  dove  è  questo  bellissimo verso  “..dovunque  vai  Tu , va la  vittoria..”. 
Questi  poeti e  pensatori  hanno  dei  valori  comuni , compreso  quello  dell’eredità  di  Roma , che  in  molti  di  essi  non  è  solo  rimpianto , ma  sprone  per  risollevare  l’Italia  dalle  divisioni  e dalla  servitù  e  così  bastarono  pochi  uomini , di secolo  in  secolo, a  serbare  la  memoria  della  libertà  e  della  dignità  italiana  ed  a  mantenere  viva  la  fiamma  dell’ identità  nazionale , che , con  il  sorgere  del  XIX  secolo, l’ ascesa  ed  il  declino  dell’ astro napoleonico , il  sia  pur  breve  Regno  Italico , purtroppo  limitato  all’ Italia settentrionale , il  tentativo  sfortunato  di  Gioacchino  Murat , con  il  suo  “Proclama  di  Rimini” , acquista  luce  e  calore  dando  inizio  a  quello  che  sarà  poi  definito  Risorgimento .Sia  pure  limitata  quindi   ad  una  ristretta  cerchia  di  intellettuali , ai  quali  si  aggiungono  gli  scienziati , con  i  loro  congressi  nella  prima  metà  dell’ Ottocento , tenuti  nelle  capitali  dei vari  stati  preunitari, tanto  che  alcuni  governi di  questi  stati , quasi  si  pentirono  di  aver  dato  spazio  ai  congressi  stessi , questa  identità si  rafforza , anche  se  vi  è  un  abisso  con  la  maggioranza  della  popolazione , specie  delle  campagne ,  e  per  il  predominante analfabetismo , e  per  una  diffusa  identità  limitata  solo   al  proprio  comune  e   alla  propria  provincia, rara  se  non  inesistente  invece l’identità  regionale , eccetto  la  Sicilia , ed  anche  qui  con  profonde  divisioni , eredità  di  guelfi  e  ghibellini,   e  con la differenza  tra    Nord  e  Sud  d’ Italia , separati  ed  impediti   a  conoscersi  e  comprendersi , dalla   illogica   e  negativa  presenza  dello  stato  pontificio che  ha  diviso  per  un  millennio  l’ Italia..
  La  ripresa  e  l’ espandersi  di  questa  fiamma  nazionale , vede  nuovamente  in  prima  linea  letterati , poeti , pensatori , ed  anche  pittori  e  musicisti , ed  abbiamo  così  Vittorio  Alfieri , con  il  “Misogallo” e  “Italia, Italia, egli  gridava  a’  dissueti  dissueti  orecchi , a  i  pigri  cuori , a  gli  animi  giacenti : Italia , Italia – rispondeano le  urne  d’ Arquà  e  Ravenna”, e  particolarmente  Cesare  Balbo , con le  sue  “Speranze  d’Italia” , e Vincenzo  Gioberti  con  il famoso  “Primato  morale  e  civile  degli  italiani” e  con  il  successivo “Rinnovamento  civile  d’Italia”, che  dettero  una  base  storica  e  dottrinale  alla  richiesta  di  riscatto, e  poi  Luigi  Settembrini  con  la  denuncia  “Protesta  del  popolo  delle  Due  Sicilie”, Giuseppe  Mazzini   con  i  “ Doveri  dell’uomo”, ed  Antonio  Rosmini , con  “Delle  cinque  piaghe  della  Santa  Chiesa”, Silvio  Pellico  con  “Le  mie  prigioni” , il  racconto  della  sua  prigionia  allo  Spielberg , e   poi  un  Alessandro  Manzoni , sia  con  “I  promessi  sposi” , sciacquati  nell’Arno  e  con  “Marzo  1821” , ricordando  l’ Italia  “una  d’ arme , di  lingua , d’altare ,di  memorie , di  sangue  e  di  cor.” e  ancora  Ippolito  Nievo , garibaldino,  mancato  a  soli  trent’anni, con le “Confessioni  di un italiano”  ed  i  già  ricordati  Giacomo  Leopardi  ed  Ugo  Foscolo  di  cui  non  possiamo  dimenticare  l’altissima  poesia  dei  “Sepolcri” , dove  parlando  della  Chiesa  di  Santa  Croce , a  Firenze :”…beata  che  in  un  tempio  accolte,- serbi  l’itale  glorie, uniche forse- da  che….l’alterna  onnipotenza  delle  umane sorti – armi e  sostanze  t’invadeano  ed  are – e  patria e ,tranne  la  memoria,tutto.- Che  ove  speme di  gloria  agli  animosi  intelletti  rifulga  ed  all’(talia,-quindi  trarrem gli  auspici..”  .A  questi  maggiori  via  via  si  uniscono  tante  altre  voci ,  che  diventano  un  vero  e  proprio  coro , e  così  si  raggiungono  altri  strati  della  popolazione  culturalmente  più  avanzati  e    si   approfondiscono  i  motivi  autenticamente  italiani  della  riscossa  nazionale, e  quindi  della  identità  nazionale..
Il  milanese   Giovanni  Berchet (1783- 1851) ,tra  i  fondatori  de  “Il  conciliatore”, prende  spunto  dalla  rievocazione  del  giuramento  di  Pontida, per  incitare  alla  riscossa, un  altro  milanese ,Giovanni  Torti ( 1774-1851), scrive  un  inno, dedicato  alle  cinque  giornate del 1848,, l’ abruzzese  Gabriele  Rosseti ( 1783-1854), canta  “L’ amor  di  Patria”, Angelo  Brofferio ,( 1802-1866),piemontese, ed  anche  uomo  politico, scrive  un  inno :”Viva  il  Re,dall’Alpi  al  mar –il  Baiardo  di  Savoia – Re  Vittorio  l’ha giurato – che  giammai  non  spergiurò”. Da  Napoli , Alessandro  Poerio, ( 1802-1848 ) va  a  combattere  e  morire  nel  1848 ,nella difesa  di  Venezia, e  prima  aveva  scritto  “Il  Risorgimento” con  “O  patria ,fiorente , possente , d’un solo  linguaggio”,mentre  il  toscano  Giuseppe  Giusti ( 1809-1850), risponde  al  poeta francese Lamartine , con  “La  terra  dei  morti”,ed  un  giovanissimo  poeta  genovese , Goffredo  Mameli ,( 1827-1849), caduto  nella  difesa  di  Roma  contro  i  francesi, , scrive  un  primo  “ Inno   di  guerra”, con  “Viva  l’ Italia , era  in sette spartita , le  sue  membra  divulse”, ed  un  secondo  ben  più  famoso , anche  se  vi  è  qualche dubbio  sulla  sua  paternità, “Fratelli d’Italia” , musicato  da  Michele  Novaro. All’inno  di  Mameli , si  aggiunge  un  “Inno  popolare  di  guerra”  di  Giovan  Battista  Niccolini ,( 1782-1861), toscano, più noto  come  drammaturgo ,con  i  versi  “Giuste  leggi  e non  cieca  licenza- libertade  ad  un tempo  e  potenza,- non  servile ma forte  unità “, ed  il  marchigiano ,Luigi  Mercantini ( 1821-1872), con i  versi  “l’ardente  destriero , Vittorio  spronò, a  dir  viva l’Italia, va  il  Re  in  Campidoglio”  e  la  “Canzone  italiana”, meglio  conosciuta  come  “Inno  di  Garibaldi” , musicato  da  Alessio   Olivieri, che  ha  un  tono  quasi  religioso “Si  scopron  le  tombe , si  levano  i  morti , i  martiri   nostri  son  tutti  risorti”. Sempre  tra  i  poeti , anche  se  più  noto  per  altre  opere, fra  le  quali  il  grande  “Dizionario  della  lingua  italiana” , il  dalmata , Niccolò  Tommaseo ( 1802-1974), scrive  una  poesia  “All’ Italia”,nel 1834, incitando  alla  rinascita,, ed  un  trentino , Giovanni  Prati, (1814 – 1884) , fedelissimo  alla  Casa  Sabauda, ricordando  i  giovani universitari  di  Curtatone ,scrive “Viva  la bella  Italia! – orniam  di  fior  la testa ;-o vincitori  o  martiri ,- bello  è  per  lei  cader.”:A  tale  proposito  è  bene  sottolineare  che  fino  al  1849  i  canti  o  gli  inni  non  si  rivolgevano  solo  a  Casa  Savoia , perché  vi  erano  anche  autori  di  fede  mazziniana, ma  fin  da  allora  si  deve  notare  una  tendenza  da  parte  di  questi  patrioti  non  monarchici  di  voler  discriminare  coloro  che  la  pensavano  diversamente, come  nel caso di  Prati , che  per  aver  scritto  un  inno  a  Carlo  Alberto  si  vide  voltare  le  spalle  dai  repubblicani   che  lo  additarono  con  avversione  crescente  per  la  sua  intimità  con  la  corte  sabauda.
Oltre   alla  poesia una  parte  non  trascurabile , forse  anche  più  diffusa , di  incitazioni  patriottiche  è  dovuta  ad  opere  teatrali  ed  ai  romanzi  storici , perché , anche  se  riferentisi  ad  eventi  e  personaggi  del  passato , gli  autori , tutti  patrioti , trovavano  il modo  di  inserirvi  elementi  che  facessero  pensare  ad  eventi  contemporanei  o  facendone  i  protagonisti , campioni  d’ italianità , e  di  questo  il  caso  più  tipico  e  conosciuto  è  “Ettore  Fieramosca”  del  piemontese  Massimo  Taparelli    d’Azeglio ,(1798-1866 ) rievocante  la  disfida  di  Barletta, tra  cavalieri  italiani  e  francesi , fra  i  quali  si  annida  il  rinnegato  Gano  che  osava  dire : “ho  in  tasca  gli  italiani , l’ Italia  e  chi  le  vuol bene; servo  chi  mi  paga , io .Non  sapete …che  per  noi  soldati  dov’ è  pane  è  la  patria”. Anche  nella  “Margherita  Pusterla”  del  lombardo  Cesare  Cantù,( 1804-1895) grandeggia  il  motivo  del  Risorgimento  sotto  lo schermo  di  una  storia  lontana , e  nella  “ Battaglia  di  Benevento” , del  toscano  Francesco  Domenico  Guerrazzi ( 1804 -1873 ),l’inizio  del  romanzo  è  un  inno  all’ Italia., “L’ Italia , che  sedeva , regina  del  mondo.”.
E  così  si  giunge , il  17  marzo  1861  , a  conclusione  di  quello  che  un  moderno  studioso , Domenico  Fisichella ,  ha  definito  “Il  miracolo  del  Risorgimento” ,  alla  proclamazione  di  Vittorio  Emanuele  II  a  Re  d’Italia , e  Cavour , nel  suo  genio  multiforme , vuole  onorare  anche  artisti  e  letterati , per  cui  chiede  e  quasi  impone  a  Giuseppe  Verdi,  il  grande , massimo  musicista  italiano , il  cui nome  preceduto  da “Viva” , aveva  anche  significato  “Viva  V (ittorio) E (manuele) R (e) DI(talia) , a  presentarsi  candidato  per  il  primo  parlamento  del  Regno , e  pure  fa  appello  all’altro  grande  Alessandro  Manzoni. Dunque  hanno  vinto  anche  i  poeti , i  letterati  ed  altri  artisti ,ma  ora  bisogna  consollidare  l’opera  ed  anche  i  pittori  prima  e  poi  gli  scultori  debbono  ricordare  le  vicende  del  Risorgimento  ed  i  suoi  protagonisti , per  allargare  ulteriormente  le  conoscenze  delle  stesse  e  favorire  l’identità  nazionale.
Aveva  iniziato  il  veneto  Francesco  Hayez, ( 1791- 1882)  con  i  suoi  grandi  quadri  storici  ed  il  famoso  “Bacio” , poi  un  suo  scolaro  Domenico  Induno ( 1815-1878 )  ed  il  fratello Gerolamo ( 1827-1890 ), con  i  soggetti  militari,di  cui  ricorderemo  “La  battaglia  di  Magenta”  , “La  battaglia  della  Cernaia” ,  “La  partenza  da  Quarto”, “Garibaldi  al  Volturno” , (  tutte  esposte  al  Museo  del  Risorgimento  di  Milano) ,   “Garibaldi  in  divisa  di  generale  dell’esercito  Sardo”  ed  il  “Racconto  del  garibaldino”.  I  grandi  quadri  storici  al  Palazzo  Madama, in  Roma, sede  del  Senato ,  ed  a  Siena , nel  palazzo  comunale ,tra  i  quali  “La  consegna  dei  risultati  del  plebiscito  di  Roma  a Vittorio  Emanuele  II”, sono  opera  del  senese   Cesare  Maccari ,( 1840-1919) e  sempre  riguardanti  il  ciclo  di  affreschi   di  Siena , vi  sono  due  lavori   di  un  altro  toscano ,  Amos  Cassioli ,(1832 -1891 ) uno  raffigurante   “La  battaglia  di  Palestro”, l’altro  “La  battaglia  di  San  Martino” ed  infine, il  grossetano ,Pietro  Aldi ,( 1852-1888),  dipinge “L’armistizio  di  Vignale” . ”Garibaldi  a  Digione”,( esposto  al  Museo  del  Risorgimento  di  Milano),  è  del  milanese  Sebastiano   De Albertis ,(1828 -1897), garibaldino , che  dipinge  pure  “La  carica  dei  Cavalleggeri  di  Monferrato  a  Montebello”,  mentre  sempre  a  Siena  vi  è  il  famoso “ Incontro  di  Teano” , opera  di  Carlo  Ademollo ,( 1823 – 1911 ),fiorentino,autore  anche  della  “Battaglia  di  San  Martino,( esposto  al  Museo  del  Risorgimento  di  Firenze), nonché  della  “Breccia di  Porta  Pia”, mentre  Clemente  Origo, ( 1855-1921 ),romano,  dipinge  la  carica  della  cavalleria  alla  Bicocca del  1849 , e  Gustavo  Dorè,(1832 – 1883) al  quale  dobbiamo  le  meravigliose  tavole  della  “Divina  Commedia”, disegna gli  episodi  principali  dell’ impresa  garibaldina  del  1860 , e  Carlo  Alberto  a  Novara  è  ricordato  da  Gaetano  Previati, ( 1852 -1920 ), ferrarese, che  dipinge  anche  il  popolano  milanese ,  Amatore  Sciesa , condotto , nel  1851 , alla  fucilazione dagli  austriaci , mentre  pronuncia  la  celebre  frase “tiremm   innanz” .Vengono  poi  i  “macchiaiuoli”  toscani  e  fra  questi  Telemaco  Signorini ,(1835 -1901 ), con  il  quadro  degli  “Zuavi  francesi  ed  artiglieri  italiani” ,( esposto  al  Museo  del  Risorgimento  di  Firenze), ed  il  loro maggiore  esponente, Giovanni  Fattori , (  1825-1909 ), che  ai  paesaggi  maremmani  seppe  unire  la  rappresentazione  dei nostri  soldati  in  due  momenti  particolari , uno  felice “ Il  campo  di  battaglia  italiano  dopo  ( la  vittoriosa  battaglia  di)   Magenta” , l’altro  relativo alla  sfortunata “  Battaglia  di  Custoza”, ( esposti  entrambi alla  Galleria  d’arte  moderna  di  Firenze )., Tutti  dipinti  che  se  al  momento  furono  visti  da  una  ristretta cerchia  di  persone , sarebbero  successivamente  divenuti  le  illustrazioni  di  libri  di  scuola  e  di  storia  e  quindi  conosciute  da  una  più  vasta  platea , che  così  riviveva  tanti  principali  episodi  del  Risorgimento , ed  a  questi  pittori , dobbiamo  doverosamente  aggiungere   Achille  Beltrame , che  sul  settimanale  “La  Domenica  del  Corriere” , in edicola  dall’ 8  gennaio  1899 ,disegnava  delle  bellissime  tavole  a  colori , sui  principali  avvenimenti  della  settimana  accaduti  in  Italia  e  nel  Mondo, compresi   quelli  riguardanti  i  nostri  Reali, che , data  la  tiratura  del  giornale  che  già  dopo  pochi  anni  aveva  raggiunto  le  600.000  copie , per  superore  poi  il  milione .arrivava  in  tante  famiglie , anche  di  modeste  condizioni  economiche.
Dal  punto  di  vista  non  solo  artistico , ma  della  identità  nazionale , fu  senza  dubbio  la  scultura, divenuta  civile  e  patriottica , maggiormente  atta  a  serbare  le  memorie , con  le  statue  ed  i  monumenti , particolarmente  di  Vittorio  Emanuele  II   e  di  Giuseppe  Garibaldi , e  di  altri artefici  del  Risorgimento,  a    coinvolgere  anche  la  massa  della  popolazione , essendo  per  lo  più  situate  nelle  piazze  principali  di  quasi  tutte  le città  e  nei  Municipi. .Pensiamo  al  ticinese ,Vincenzo  Vela, ( 1820 – 1891 ), ai  torinesi  Carlo  Marocchetti ,(1805 – 1867), con  la  statua   equestre di  Emanuele  Filiberto ,nella  piazza  San  Carlo , e  Davide  Calandra ( 1856 – 1915 ), con  altra statua  equestre  di  Amedeo  di  Savoia ,  ed  il  marchigiano ,Ercole  Rosa, (1846-1898 ), a  cui  si  deve  il  monumento  equestre  di  Vittorio  Emanuele  II  a  Milano , nella  piazza  del  Duomo, e  sempre  dedicati  al  Re , sono  i  monumenti  a  Venezia  di Ettore  Ferrari , e  a  Palermo  di Benedetto  Civitelli , mentre  ad  Enrico  Chiaradia ,( 1851- 1901 ),friulano, spetta  la  grande  statua  equestre  del  grande  Re ,  nel  “Vittoriano” ,mirabile  sintesi di architettura  e scultura , Infatti  questa  opera  monumentale , progettata  dall ‘architetto  bresciano Giuseppe  Sacconi ,( 1854- 1905) , vincitore  di  un  concorso  nazionale  indetto  per  erigere  a  Roma  un  monumento  celebrativo  della  raggiunta  Unità  e  del  primo  Re  d’Italia , inaugurata dal  nipote, il Re Vittorio  Emanuele  III , nel  1911 ,  in  occasione del  cinquantenario  del  Regno , presenti i  Sindaci  di  tutta  Italia , nonché  i  rappresentanti  di  tutti  i  Reggimenti  del  Regio  Esercito , che  riempivano  l’intera  Piazza  Venezia , rappresenta  il  maggiore  contributo  che  l’architettura  abbia  dato  all’affermazione  dell’identità  nazionale , per  cui  è  anche  chiamato  “Altare  della  Patria” . Ritornando  alla  scultura  ricordiamo  che  al  senese  Giovanni  Duprè, ( 1817 – 1882 )  si  deve  uno  dei  pochi  monumenti  del  conte  di  Cavour, ed  ai  fiorentini , Cesare  Zocchi,(1851 -1922)  ed  Emilio  Gallori ( 1846 -1924 ), si  devono  rispettivamente ,   il  grande  monumento  a  Dante , inaugurato  nel  1896 , nella  ancora  asburgica  Trento , a  riaffermare  l’italianità  del  trentino , e  la  statua  equestre  di  Garibaldi  sul  Gianicolo , entrambe  opere  di  notevolissimo  valore  artistico , sia  scultoreo  che  architettonico, per  terminare  con  il bresciano  Angelo  Zanelli ,(1879 -193.), vincitore  del concorso  per il  grande  fregio  decorativo dell’ Altare  della  Patria ,  e  per  la  statua della  Dea  Roma , che  sovrasta  il  sacello  del  Milite  Ignoto.
Il  ruolo  dei  letterati , dei  poeti  e  degli  scrittori  non  cessa , ma  anzi  si  fa  più  costante  e  metodico  per  rafforzare  i  valori  dell’ unità  ed  indipendenza  raggiunti , ed  il  campione  di  questa  azione  è  il  toscano  Giosuè  Carducci ,( 1835- 1907) , che  con  le  sue  poesie  riguardanti  storia  e  glorie  passate ,  eventi , regioni , personaggi , avvicina  tra loro   le  genti  italiche, ne  rafforza  la  coscienza  nazionale , come pure  con  i  suoi  superbi  discorsi  celebrativi  e  commemorativi , tra  i  quali  quello  pronunciato  il  7  gennaio  1897   a  Reggio  Emilia , per  il  centenario  del  tricolore , dove   celebra  il  natale  della  Patria , ed  esalta  “la  bella , la  pura , la  santa  bandiera  dei  tre  colori “ , quasi come  un  sacerdote  della  religione  della  patria, che  il  suo  erede , nella  cattedra  universitaria ,  il  romagnolo  Giovanni  Pascoli ,( 1855- 19012) , avrebbe  continuato  ad  officiare  nei  suoi  discorsi , in occasione  del  cinquantenario  della  proclamazione  del  Regno, parlando   all’Università  di  Bologna  il  9  gennaio  1911, che  chiamò “anno  santo” della  Patria e, poi  il  successivo  9  novembre  all’Accademia  Navale  di  Livorno  ed  infine  il  26  dello  stesso  mese ,  a  Barga ,“La  grande  proletaria  si  è mossa.”, in  occasione  della  guerra  di  Libia  . Carducci  con  “Piemonte” , celebra  la  regione  e  lo  stato  sabaudo  che  dette  inizio  alla  prima  guerra  d’indipendenza , e  Carlo  Alberto, “ Re  per tant’anni  bestemmiato  e  pianto , che  via  passasti  con  la  spada  in  pugno…” , con  “Cadore”,  celebra  i  montanari  che  si  opposero  agli  austriaci , ed il  loro  comandante , “anima  eroica, Pietro  Calvi” ,con  il  “Canto  dell’amore”  ricorda i  perugini  che  si batterono  per  la libertà, e  non  ultima, anzi   cronologicamente  prima , con  la canzone “Alla  Croce  di  Savoia” , che  è  una  mirabile  sintesi  risorgimentale  della  Toscana  e  di  Firenze , con il  Piemonte  e  la  casa  Savoia, di  cui  ricorda  la  storia  italiana , con  la  rievocazione  dei  grandi  italiani  dei  secoli  bui , canzone  che  non    esaurisce  il  suo  valore  storico  e  poetico , nella  strofa  più  conosciuta  “ Dio  ti  salvi , o  cara  insegna, nostro  amore  e  nostra  gioia! Bianca  Croce di  Savoia, Dio  ti  salvi  e  salvi  il  Re.”.  Carducci  capiva  infatti  che  l’identità  nazionale  aveva  bisogno  di un  punto  di  riferimento  che  non  fosse  solo  un  uomo , sia  pure  in  molti  casi necessario , se  non  indispensabile , come  Garibaldi , al  quale  pure  dedicò  discorsi  e  poesie, ma  una  dinastia , un  istituto  che  continua  nel  tempo , quale  la  Monarchia , artefice  dell’unità, di  cui  scrisse  “.la  Monarchia  fu  ed  è  un  gran  fatto  storico  e  rimane  per  molta  gente  una  idealità  realizzata..” concludendo  che “il  capo  della  famiglia  di  Savoia , rappresenta  l’ Italia  e lo  Stato”, ed   è  così  che  si  spiegano  le  sue  liriche “Alla  Regina  d’Italia”, del  20  novembre  1878 ,”quali  a  noi  secoli-si  mite  e  bella  ti  tramandarono..”  e  la  successiva  “Il  liuto  e  la  lira” , entrambe  dedicate  alla  prima  Regina  d’Italia , Margherita, “..figlia  e  regina  del  sacro- rinnovato  popolo  italiano.” , nelle  quali  parla  dell’eterno  femminino  regale , e  che  Margherita  lo  incarnasse , rafforzando  l’identità  nazionale , lo  conferma  dopo  oltre  un  secolo , uno  storico  contemporaneo , Giuseppe  Galasso ,che  l’ ha  definita  in  un  suo  scritto : “Icona  dell’Italia  unita.”
E  come  Carducci  a  Bologna ,  dall’ Università  di  Napoli , contribuiva  alla  creazione  di  questa  coscienza  unitaria , l’irpino ,Francesco  De  Santis, ( 1817- 1883 ), patriota, carcerato  dal  governo  borbonico  ed  uomo   politico  e  ministro  della  Pubblica  Istruzione  nel  primo  governo del  Regno  d’Italia, con  Cavour, ed  anche  in  successivi  governi, con  la  sua  “Storia  della  letteratura  Italiana” ,da  lui   inserita  nella  storia  della  nostra civiltà, così  che  dall’unità  politica    veniva  a  poco  a  poco  nascendo  una   identità  di cultura , opera  sulla  quale  , successivamente , hanno  studiato  tante  generazioni di  studenti , e  poi  professori .
Su  di  un  piano  diverso , ma  non  meno  importante , è  la  figura  del  ligure , Edmondo  De  Amicis , ( 1846 – 1908 ) ,militare ,combattente  nel  1866 , viaggiatore, giornalista , scrittore , particolarmente  con  una  sua  opera  “Cuore” ,stampata  per  la  prima  volta  nel  1886, la  cui  immediata  fortuna   e  diffusione , protrattasi  nel  tempo , ha  favorevolmente  influito  sulla  coscienza  nazionale , superando  pregiudizi  regionalistici e  classisti , sia  con il  suo  testo  base , ambientato  in  una  scuola  elementare  , vedi l’arrivo  dell’allievo  calabrese e  la  morte  del  “muratorino”, ma  soprattutto  e  volutamente  con  i  “racconti  mensili” , dove  De  Amicis , sa  trovare  il  modo  di  esaltare  il  comportamento  di  giovani  di  ogni  parte  dell’ Italia , dal  “Piccolo  patriota  padovano”, alla  “Piccola  vedetta  lombarda”,  al  “Piccolo  scrivano  fiorentino”, al  “Tamburino  sardo”, al  “Sangue  romagnolo”,  a  “L’infermiere  di  Tata”, al  “Valore  civile”, al  giovane  viaggiatore  “dagli  Appennini  alle  Ande”, ed  infine  al  “Naufragio” . Ed  effettivamente  la  scuola  dette  pure  un’importantissimo  contributo  all’identità  nazionale  con  i  suoi  maestri  e  maestre, come  la  maestra  descritta  da  Guareschi  e  così  pure  l’esercito , sia  con l’istruzione  civile , militare  ed  anche  tecnica , nonché agricola, sia  con  le  prime  campagne  nell’ Africa  Orientale , sia  pure  sfortunate  e  tragiche , dai  cinquecento morti  di  Dogali , con il  colonnello De  Cristofori , e  poi  Macallè  con  Galliano , l’Amba  Alagi  con  Toselli  ed  infine  Adua , con  ben  due  generali caduti  sul  campo ,Giuseppe  Arimondi  e  Vittorio  Dabormida,  dove , ovunque  risaltò  il  valore  dei  soldati italiani, quasi  tutti  contadini  delle  regioni  italiane , per  cui , Giovanni  Pascoli, ad  esempio ,  dedicò  una  sua  poesia , inserita  nella  raccolta  “ Odi  ed Inni”,  “Alle  Batterie  Siciliane”, comandate  dal  capitano  Masotto , medaglia d ‘oro  al  valor  militare, per  l’eroico  comportamento tenuto  ad  Adua., dove  aveva  difeso  con i  suoi  soldati  siciliani  , i  cannoni  fino  alla  morte.
Perciò  nel  1911  poteva  dirsi  abbastanza  diffuso  il  concetto  d’identità  nazionale, collegato  alla  diminuzione sensibile  dell’analfabetismo ed  al generale  progresso  economico e sociale, e  sia  le  grandi  celebrazioni  del  cinquantenario , sia  la  contemporanea  conquista della  Libia  ne  furono  autorevoli  testimonianze , anche  se  le  nuove  generazioni  di  letterati  operanti  nelle numerose  riviste  sorte  nel  primo  decennio  del  novecento  erano  abbastanza  critiche  nei  confronti  dell’Italia , chiamata  “Italietta”, per  la  quale  auspicavano  più  alti  destini  e  la  stessa  monarchia , così  “borghese”, con  il nuovo  Re, non  sembrava  loro  abbastanza autorevole  e  rappresentativa . Se  leggiamo  ad  esempio  Trilussa (Carlo  Alberto  Salustri – 1871-1950)), nelle  sue  poesie  romanesche  più  volte , in forma  indiretta , critica  la   “democraticità”  di  un  ipotetico  Re., molto  simile a  Vittorio  Emanuele. Letterati  che  poi  , però , si  riscattarono  nel  maggio  del  1915 , partecipando  alla  guerra , che  avevano  chiesto , pagando  un   doloroso  e  sanguinoso  prezzo ! Ben  diverso  invece  l’atteggiamento  costruttivo , nei  loro  scritti , dei  grandi  storici  da  Benedetto  Croce ( 1866-1952), a Gioacchino  Volpe ,( 1876-1971 ), entrambi  abruzzesi, a  Pietro  Silva,( 1887-1954 ),parmense ,  ed  a  Niccolò  Rodolico ,(1873 -1969),di  Trapani , sui  cui  testi  hanno  studiato  generazioni  di  studenti  liceali , fin  quasi  agli  anni ’50  del  secolo  scorso , nel  valutare  positivamente  l’esperienza  unitaria , specie  se  commisurata  ai  punti  di  partenza  in  tutti i  settori . Un  discorso  a parte  va  dedicato  a  Gabriele  d’Annunzio ,(1863- 1938 ),  perché  se  aveva  salutato  l’avvento  al  trono  di  Vittorio  Emanuele III ,”…miri  Tu  lontano ?...Giovine , che  assunto  dalla  morte –fosti  Re  nel  mare.”, negli  anni  successivi , anche  lui    era  tra  i  meno  entusiasti  del  governo  dell ‘Italia, quella  “…Italia , Italia – sacra  alla  nuova Aurora – con  l’aratro  e  la  prora !.”, per  cui  si  riavvicinò  solo  con  la  guerra  di  Libia , per  la  quale  scrisse  le “Canzoni  delle  gesta  d’oltremare” , pubblicate  integralmente ,a  tutta  pagina, dal  “Corriere  della  Sera” , salvo  una  dove  aveva  chiamato  Francesco  Giuseppe ,”…l’angelicato  impiccatore,-l’angelo  dalla  forca  sempiterna” , per  poi  essere  tra  i maggiori  fautori  del  nostro  intervento  in  guerra  nel  1915  e dedicare  al  Re ,un  altra  poesia , dove  lo  vede  in  panni  bigi , vicino  ai  suoi  soldati. A  fronte   di  questa  opera  per  l’identità  nazionale , rifacentesi  al  Risorgimento , ai  suoi  artefici , tipica  la  riunione  in  stampe e  dipinti  di  Cavour, Mazzini ,Garibaldi  e  Vittorio  Emanuele  II , vi  era una  costante  propaganda  repubblicana , spesso  con  toni  abbastanza  abbastanza  volgari e   virulenti , tipico  il  giornale “L’ Asino”, di  Podrecca ,sia  proveniente  dai  repubblicani  storici ,che  ritenevano  la  monarchia  traditrice  degli  ideali  risorgimentali  in  tema  di  irredentismo , arrivando  a  dire  nel  1915  “ O  guerra  o  repubblica !” ,  sia  dai  socialisti , che  erano  per  principio  contro  spese  e  campagne  militari , che  ritenevano  dovute  alla  monarchia  , di cui  non  vedevano o non  volevano vedere  l’azione di  elevazione  e pacificazione  sociale  ed  il  grande  esempio  d i senso  del  dovere  del  Re  e  della   sobrietà  di  vita  e  di  costume  dato   della  famiglia  reale , concentrando  questa loro  opposizione  proprio  sulla  Casa  Savoia .  “ I  Savoia”  detto  con  tono  di  disprezzo ,oppure   “maledetti  Savoia” , dinastia  di  cui ignoravano  la  storia  e  che , invece , con  suoi  esponentii , come  il  Conte  di  Torino , che  aveva  respinto  sul  terreno  le  ingiurie  di  un  principe  francese  nei  confronti  dei soldati italiani  che  avevano  combattuto  ad  Adua ,ed  il  Duca  degli  Abruzzi, scalatore  delle  più  importanti vette  dall’ America , all’Africa  ed  all’Asia, imprese  che  in  tutto  il  mondo  erano  state  seguite  con interesse  ed  ammirazione , non  ultima  quella  di  raggiungere  il  Polo  Nord , che  non fu  raggiunto , ma  per  l’epoca  fu  la  spedizione  che  vi  era  giunta  più  vicino.,  avevano  innalzato  il  nome  ed  il  prestigio  dell’Italia  e  degli  italiani , specie  quelli  che erano  emigrati  all’estero,  tranne   i  gruppi  anarchici a  cui  era  dovuta  la  progettazione  e  l’esecuzione  dell’ assassinio  del  Re  Umberto .
E  questo  senso  dell’ identità  nazionale , diffuso  , ma  ancora  parziale , ci  consentì  di  affrontare  la  guerra,  e  di condurla  per  quasi  quarantadue  mesi, dal  24  maggio  del  1915  al  4  novembre  1918 , e  durante  questi  lunghi  mesi, crebbe , sia  pure  ad  un carissimo  prezzo , sì  che  alla  sua  conclusione  vittoriosa , potevasi  dire  che  la  guerra  stessa  , “Fu  lo  strumento , grazie  al  quale  si  rafforzò   l’identita  nazionale , la   diretta  conoscenza  del  RE , che  moltissimi  soldati  avevano  conosciuto , fino  ad  allora , solo  sulle  monete  e  sui  francobolli , e si  sviluppò  il  senso  di  una  comune  appartenenza  allo  Stato  unitario , costruito   attraverso  tanti  sacrifici  e  tante  lotte”, come  ha  scritto  Francesco  Perfetti , in  quanto  fu  la  prima  grande , difficile  ed  anche  dolorosa  esperienza  collettiva  di  tutti  gli  italiani , e  di  questa  identità  fu , due  anni  dopo , testimonianza  la  moltitudine  degli  italiani  che  si  assiepò  lungo  tutti  i  binari  ad  attendere  ed  onorare  il  passaggio  del  treno  che  da  Aquileia  trasportava  a  Roma , dove  era  ad  attenderla  il Re, la  salma  del  Milite  Ignoto , per  essere  deposta  all’ Altare  della  Patria , all’ ombra  della  statua  del  grande  Re ,Vittorio   Emanuele  II,   simbolo , ancor  oggi , della  nostra  identità  nazionale  .


Domenico  Giglio 


lunedì 22 agosto 2016

Articolo di Giuseppe Galasso sul saggio di Salvatorelli

Riportiamo, come al solito, l'articolo per la buona informazione dei nostri amici. Non perché ne condividiamo i contenuti.

di Giuseppe Galasso

Savoia, l’adesione al fascismo non cancella i meriti della dinastia


Esce una nuova edizione del saggio «Casa Savoia nella storia d’Italia» in cui Luigi Salvatorelli demolisce ogni aspetto della  Casa Reale. Un giudizio forse eccessivo.

Il destino dei Savoia tra gli storici ha finito con l’essere infelice quanto il loro destino politico, deciso dal referendum che nel 1946 instaurò in Italia la Repubblica. Non è accaduto spesso che una casa reale, perduto il trono, abbia conservato un aplomb e una dignità regale, quali che ne fossero le prospettive di un ritorno in auge. L’esilio di Umberto II fu dignitoso, in Portogallo, dove cento anni prima si era già ritirato il nonno di suo nonno, Carlo Alberto. Per i figli di Umberto — dalle vicende amorose di Beatrice a quelle di vario genere e di assai dubbia qualità dell’erede Vittorio Emanuele, per non parlare del figlio di quest’ultimo, Emanuele Filiberto, con la sua notorietà televisiva — non è stato così.

Tutto ciò non toglie che la Casa di Savoia resti in Europa una delle famiglie reali, in trono o non più in trono, di più antica ascendenza storica. Per l’Italia, in particolare, essa ha rappresentato per 6 o 7 secoli un protagonista fra gli altri della storia del Paese. In ultimo, dal 1848 in poi e fino al 1946, con l’unificazione e con la loro promozione a re d’Italia, i Savoia divennero addirittura un punto nodale della storia nazionale. Il che indusse buona parte degli storici italiani a costruire un profilo della storia nazionale radicalmente inficiato da un doppio errore di prospettiva.

[...]
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domenica 21 agosto 2016

No alla riforma degli strafalcioni e degli inganni!

L'occasione buona per dire come la pensiamo circa il referendum sulla riforma costituzionale. Ci torneremo su.


Nella biografia  del più grande romanziere della lingua italiana dell’800, Alessandro Manzoni, si legge che lo scrittore fosse profondamente insoddisfatto della sua opera dal punto di vista linguistico. Decise perciò di trasferirsi per un certo periodo a Firenze, ove intrattenne rapporti con i migliori linguisti dell’epoca, per tradurre il suo romanzo, ricco di espressioni milanesi, in fiorentino, da cui la famosa frase “risciacquare i panni in Arno”, di modo che fosse scritto in una lingua più vicina a quella parlata e potesse essere compreso da un pubblico il più vasto possibile senza distinzione di ceto e di livello di istruzione.
Nel 1947 l’Assemblea costituente, dopo aver approvato il testo della Costituzione repubblicana, affidò ad un gruppo di esperti letterati il compito di purificarne il testo dagli errori sintattici, dai termini burocratici e dalla verbosità novecentesca, in modo da avere una Carta fondamentale dei diritti e dei doveri chiara e comprensibile a tutti, senza bisogno di interpretazioni di tecnici del cavillo.
Queste due importanti lezioni sembrano essere sfuggite al terzetto responsabile della stesura della cosiddetta riforma costituzionale che tra qualche mese sarà sottoposta a referendum confermativo.
Ogni cittadino sano di mente ha il diritto-dovere di "schierarsi" sulle regole fondamentali della repubblica e dare una lezione di senso civico e di coraggio a quei conigli che siedono nei sacri palazzi che, pur di salvare lo scranno, i privilegi, e le prebende, hanno votato una pessima riforma.
Il trio dei toscani (ma guarda un po’ che scherzo della sorte!) Renzi, Boschi, Verdini, che avrebbe dovuto possedere per dono di natura la capacità di esprimersi in italiano corretto è inciampato in errori sintattici che vengono irrimediabilmente marcati con la matita blu e in ragionamenti contorti da leguleio di provincia.
Possibile? Purtroppo con l’aggravante che deputati e senatori, molti dei quali vantano, almeno sulla base dei loro curriculum, titoli accademici di tutto rispetto, hanno svolto un ruolo subalterno e servile, tradendo lo spirito della Costituzione della repubblica parlamentare senza il minimo sussulto di dignità.
Se affermo che la riforma è scritta male, non intendo limitarmi ad un raffronto con quella elaborata 70 anni fa dai padri costituenti, ma sottolineare che è scritta proprio male come non farebbe nemmeno un alunno di scuola media.
C'è un refuso, inammissibile per un giornalino parrocchiale ma che sancito nella Carta costituzionale fa accapponare la pelle. Leggere per credere, addirittura nel primo articolo dedicato al Senato! Roba forte da rimanerne sbigottiti:
“Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l'Unione europea”.
Gli scrivani fiorentini, meglio dire gli scribacchini, con il loro linguaggio sciatto, sintomo di un malessere inconsapevole, hanno scritto per due volte nello stesso comma ben 14 parole di fila, a distanza di due righe: esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica.
Un altro esempio di contorsionismo verbale, intellettuale e politico? Basta confrontare il vecchio testo dell’art. 70 sulla potestà legislativa di 9 parole (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”) con quello, redatto con la stessa puntigliosità di un regolamento condominiale, imposto dal governo ad un parlamento di imbelli che lo ha approvato quattro volte.
Il nuovo art. 70 è di ben 440 parole e mi scuso in anticipo con il lettore se gli infliggo la pena di leggerlo perché si convinca che così com’è la riforma va buttata al macero, scrivendo NO sulla scheda del referendum. Viceversa se onestamente dichiara di afferrarne il senso e valutarne per intero le aberranti conseguenze applicative della variegata casistica di formazione delle leggi, senza servirsi della traduzione di un esperto in arzigogoli e pandette mi converto al SI.
Questo il testo dell’art. 70 sottoposto ora alla conferma popolare:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli:
57, sesto comma; 80, secondo periodo; 114, terzo comma; 116, terzo comma; 117, quinto e nono comma; 119, sesto comma; 120, secondo comma; 122, primo comma; e 132, secondo comma.
Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.
Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all'esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.
L'esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione.
Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
I disegni di legge di cui all'articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione.
I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti.
Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei deputati».
I presidenti delle Camere che qui vengono chiamati ad un ruolo taumaturgico non hanno nulla da dire per aver soppresso con ogni tipo di forzatura ed abuso di tagliole, di ghigliottine e di canguri  la voce dell’opposizione ed avallato un simile obbrobrio? E’ gravissimo che a un Parlamento eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla Corte Costituzionale sia stato concesso di sconvolgere il patto che sorregge da 70 anni la vita politica e sociale del nostro paese per di più non su sua iniziativa, come vorrebbe il buon senso quando si tratta di scrivere le regole, ma su diktat del primo ministro. Le buone leggi si scrivono quando la politica non fa tutto da sola.
Il governo ha ripetuto all’infinito che il Paese è arretrato, impantanato, senza crescita, con i parametri economici negativi ed il debito pubblico galoppante (al 30 giugno record di 2.248 miliardi di euro con un + 70 miliardi rispetto al mese precedente) perché il sistema è fondato sul bicameralismo. Mai inganno più colossale è stato ordito contro la credulità popolare. Il partito democratico, da Renzi in giù attraverso la Boschi, Serracchiani, Verini, Zanda, Rosato, Finocchiaro ecc. senza temere il ridicolo, è arrivato a promettere per bocca dell’ineffabile ministra Mariaele che con il nuovo articolo 70 si aumenterà il PIL e si potrà sconfiggere il terrorismo. La Boschi non solo dimostra di aver perso la consapevolezza dei problemi che ha di fronte ma addossando ad una questione di tecnica parlamentare i guai del paese e del mondo offende l’intelligenza di un popolo intero.
Non se ne può più di sentire ripetere la cantilena che distorce e falsifica la realtà, del “cambiamo la costituzione perché l'Italia ha bisogno di decisioni rapide e non è tollerabile avere due Camere legislative che fanno le stesse cose mentre il parlamento dovrebbe legiferare più velocemente” come se fosse una fabbrica di bulloni la cui produttività si misura in base ai pezzi prodotti. Non dicono che i provvedimenti presi più velocemente sono stati anche i peggiori: il decreto Fornero fu convertito in quindici giorni lasciando sul lastrico centinaia di migliaia di persone; le norme ad personam di Berlusconi furono approvate come fulmini a ciel sereno, salvo poi vederseli bocciare dalla Corte Costituzionale; il Porcellum fu promulgato in due mesi, ecc.
I nuovi costituenti da strapazzo hanno scambiato la quantità con la qualità. A loro non importa che le leggi siano ben fatte, quello che interessa è che si facciano secondo i voleri del boss, come è accaduto per la legge elettorale. Dicevano che l'italicum era la migliore legge elettorale possibile perché avrebbe permesso di conoscere il vincitore delle elezioni appena fatto lo spoglio.
Renzi ha ripetuto infinite volte che il telegiornale a spoglio ultimato deve annunciare al popolo chi ha vinto, come se fosse un’olimpiade, disorientando il popolo per concentrarne l’attenzione solo sulla sera delle elezioni, più che sull’arte del buon governo, sul suo progetto culturale,  di welfare, di riduzione della forbice di povertà, di crescita. Ora però si sono accorti, con in testa  il peggiore presidente della repubblica, e perciò rieletto, che con quella legge potrebbe vincere il M5S ed allora non va più bene. Bisogna cambiarla perché il sistema è diventato tripolare. Non deve vincere il migliore, ma solo quello che fa comodo.
Ma la legge elettorale non fu approvata con il voto di fiducia? Ed allora il governo e i parlamentari ne traggano le conclusioni: se la legge non va più bene il primo si dimetta e gli altri abbiano la decenza di tacere.
Le riforme devono valere nel tempo e non rispondere all'esigenza politica del momento di questo o quel partito, debbono migliorare la qualità della vita dei cittadini, allargare a loro favore il campo dei diritti, alleviare la povertà, ridurre le enormi differenze socio economiche. Se non sono ispirate a questi obiettivi si tratta di truffa e di propaganda di regime.
Andando al sodo il vero intento del premier e della sua musa ispiratrice è chiaramente quello di un premierato assoluto che abbia in pugno non solo l’esecutivo ma anche il potere legislativo con una Camera fatta per il 70% di deputati nominati, scelti tra i fedelissimi e con il Senato ridotto a un terzo dei componenti (da 315 a 100) nominati dai consigli regionali, specie di dopolavoro, seppur dotato di orpelli e immunità e che riduca a un ruolo subalterno gli organi di garanzia: Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm.
L’eccessivo ampliamento dei poteri del Presidente del Consiglio che è anche segretario del PD, è il risultato della combinazione di questa riforma costituzionale con la nuova legge elettorale che assegna un abnorme premio di maggioranza al primo partito (fosse anche portatore di solo il 25% dei consensi al primo turno).
In nessun paese democratico il primo ministro oserebbe imporre il cambiamento in un sol colpo di ben 49 articoli della costituzione, anziché attuarne sul serio i principi tutt’ora negati a milioni di italiani e compensare con le buone pratiche politiche gli eventuali difetti del sistema. Ad esempio chi ha mai sentito Renzi, la Boschi o i loro coristi, parlare  dell’attuazione dell’art. 36: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.?
C’è da provare un senso di pena per la modestia intellettuale di chi adduce come motivo principale della riforma la riduzione dei costi della politica. Lo si fa per impressionare a buon mercato un’opinione pubblica disorientata dalla crisi, scadendo in un populismo sguaiato e mendace, dimenticando gli sprechi quotidiani, il voluto fallimento della spending review, per non toccare gli interessi consolidati delle banche, delle assicurazioni, delle multinazionali del gioco, del petrolio, del tabacco, la Confindustria, i sindacati gialli ecc.
Cerchiamo dunque di riassumere il decalogo delle bugie ingannatrici della buona fede popolare per sventare lo stravolgimento della nostra Repubblica:
La riforma supera il bicameralismo? NO, anzi lo rende più confuso come ampiamente dimostrato dal nuovo art. 70.
La riforma cancella il Senato? NO, lo trasforma in un dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali ai quali viene tolta la potestà di dare la fiducia al Governo, ma viene regalata l’immunità.
La riforma è chiara e scritta bene? NO, contiene errori, è confusa, pasticciata e di difficile comprensione oltreché fonte di contenzioso tra le Camere.
La riforma garantisce la governabilità e la democrazia? NO, scompare l’equilibrio tra poteri dello Stato, si riduce l’area dei diritti del cittadino che non elegge più il proprio parlamentare.
La riforma è fatta a norma di legge? NO, è illegittima perché elaborata e imposta dal governo e approvata con ricatti e voti di fiducia da un parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale.
La riforma rispetta la volontà popolare? NO, la espropria riducendone il potere di partecipazione diretta (le firme necessarie per leggi di iniziativa popolare passano da 50.000 a 150.000).
La riforma taglia i costi della politica di mezzo miliardo di euro come dice il premier, imitato pappagallescamente dai suoi gazzettieri? NO, il risparmio sugli stipendi dalla riduzione dei senatori, secondo i calcoli della Corte dei Conti è di soli 46 milioni di euro quanti se ne spendono ogni anno per il leasing del super aereo del Presidente del Consiglio e sei volte di meno di quanto il Governo ha sprecato rifiutando l’accorpamento del referendum anti trivelle con le elezioni comunali.
La riforma contribuisce all’aumento del Pil? NO, perché solo il lavoro, la produzione, gli investimenti pubblici e i consumi possono spingere in alto il Pil che non è una variabile indipendente della politica.
La riforma accelera l’attività della pubblica amministrazione? NO, perché non ha nessuna ricaduta sulla macchina amministrativa. Vinte le elezioni europee Renzi aveva promesso che entro il 21 settembre 2014 avrebbe estinto il debito dello Stato nei confronti dei fornitori di beni e servizi ammontante a 90 miliardi. Ad oggi, dopo due anni, il debito dello Stato verso i privati è ancora di 61 miliardi mentre il ritardo nei pagamenti è sceso appena del 9% passando da 144 a 131 giorni (la media UE è di 45 giorni, in Gran Bretagna di 30 e in Germania addirittura di 15).
La bocciatura della riforma significa lo sconquasso? NO, bisogna rigettare lo spauracchio del TINA (there is no alternative) e sapere sin d’ora che se con l’autunno e l’inverno arriveranno ulteriori sacrifici sarà solo per le cambiali in bianco delle clausole di salvaguardia per 15 miliardi di euro che Renzi ha firmato con l’Europa.
Se i parlamentari non hanno saputo mantenere la schiena dritta di fronte all’arroganza del premier, lo faranno col referendum i cittadini che non temono rappresaglie e che hanno preso coscienza dei loro diritti.
Sarà possibile modificare la Carta, ma occorrerà da una parte l’umiltà di ascoltare i consigli dei “gufi” e dei “professoroni” per produrre un testo migliore di quello dei padri costituenti e dall’altra la lungimiranza di lasciare ai figli una società più giusta, più equa, più sana.


Torquato Cardilli