L'articolo di Giuseppe Galasso di qualche giorno fa sul Corriere della Sera a commento della riedizione di un opuscolo di Luigi Salvatorelli del 1944 ci ha dato l'occasione per riscoprire un articolo di Benedetto Croce pubblicato nel Giornale di Napoli, 13 ottobre 1944, e nel Risorgimento liberale di Roma, 14 ottobre.
Nell'articolo Croce contesta organicamente al Salvatorelli il suo metodo e quindi tutto il contenuto dell'opuscolo dettato non già da analisi obiettiva ed impersonale ma dalla passione politica e segnatamente da quella di un partito, il Partito d'Azione molto rappresentato al governo ma che non avrebbe avuto alcun seguito popolare di lì a poco.
L'articolo è pubblicato in "Scritti e discorsi politici 1943-1947, Laterza 1962.
Ringraziamo i nostri solerti amici per la segnalazione che ci ha permesso di trovarlo!
Lo staff
Non si pensi che io voglia, neppure
per qualche momento, distrarre i nostri lettori dai problemi politici che
premono sopra noi tutti e sono il nostro presente e attuale dovere. Il
richiamo, che mi permetto di fare, all'osservanza del buon metodo della storia,
mi sembra oggi anch'esso sollecitudine e dovere politico.
Perché la conoscenza storica è il
fondamento di verità che di continuo poniamo e rassodiamo per il nostro fare
politico. Senza di essa, si andrebbe alla cieca, in un mondo cieco. E formare o
ricevere in sé la conoscenza storica vuol dire la ricorrente tregua o
sospensione mentale delle lotte tra gli uomini e tra i partiti nel momento che
ci affissiamo solo in lei.
Leggo, in un avviso che accompagna
l'opuscolo storico che ho dinanzi, che questo appartiene a una serie di
Pubblicazioni, condotte « secondo le direttive ideologiche e politiche del
Partito d'azione». Senza mancare di riguardo al Partito d'azione, -perché,
oltre il resto, non mi è possibile mancare di riguardo a un partito che vedo
ora in grande travaglio per definire sé stesso, - dico che nessun partito deve
dare le «direttive» alla storia, la quale le attinge solo dalla purezza del
pensiero.
Nessun partito? Neppure il
liberale? Neppure il liberale, perché questo (e tale è una delle ragioni per le
quali io sono liberale) professa bensì il suo rispetto assoluto alla storia e
riconosce senza esitanze, anzi con gioia, il contributo che, come la storia
mostra, al progresso civile e umano hanno apportato e apportano uomini di
partiti diversi ed opposti, i quali, anche senza averne chiarezza o contro i
loro propositi, hanno lavorato per la libertà - ma, nel far ciò, non dà le sue
proprie direttive alla, storia, sibbene accetta esso dalla storia una delle sue
necessarie condizioni o « direttive ».
Dunque , l'opuscolo di cui oggi
discorro è dovuto alla penna di uno dei nostri più colti storici e pubblicisti,
Luigi Salvatorelli, e s'intitola Casa Savoia nella storia d'Italia (Roma, maggio 1944); e vuol essere una
dimostrazione della quasi continua estraneità e divergenza e ostilità tra la
storia di Casa Savoia e quella d'Italia.
Per compiutezza bibliografica, mi
piace notare che lo stesso argomento, con la stessa tesi, è stato trattato in
un opuscolo (di cui il Salvatorelli non poté godere la benefica lettura, come
potemmo noi fin da alcuni mesi or sono in Napoli, che fu liberata prima di
Roma) di un giornalista italiano, diventato cittadino americano, il Borgese, il
quale ha ora il poco buon gusto di rovesciare contumelie e calunnie, dall'altra
sponda dell'Oceano, sugli uomini che in Italia, tra non piccole difficoltà,
operano come meglio possono per la salvazione della loro patria.
E’ agevole immaginare che cosa sia
diventata la storia della casa di Savoia nelle mani di un uomo simile, il
quale, per di più, non ha avuto mai alcuna pratica di cotesti studi e delle
delicate cure che richiedono.
Il Salvatorelli ha ben questa
pratica ed è esattamente informato dei fatti particolari che viene rammentando;
ma ha preso le mosse da una polemica e confutazione della storiografia,
com'egli la chiama, sabauda e cortigiana, che ha avuto corso, dopo il 1860, in
manuali per le scuole o in libri di professori conformisti o di troppo zelanti
monarchici. Era necessaria questa polemica? In verità, quella storiografia
ufficiosa e convenzionale veniva smentita dalle parole che correvano in
proverbio, da tutti accettate: che la politica della casa di Savoia verso
l'Italia era stata quella del carciofo che si mangia a foglie; e, circa la
mutevole e infida politica di quella casa tra Francia e Spagna, tra Francia e
Impero, dal motto scherzoso ma acuto del principe di Ligne: che «alla casa di
Savoia la posizione geografica impediva di fare una politica estera onorevole».
Gli storici seri hanno sempre detto come stavano realmente le cose: e, per
esempio, anch'io, modestamente, nel dare un quadro della storia d'Italia nel
seicento, mi spacciai con poche parole delle esaltazioni nazionalistiche,
dovute a poeti e pubblicisti di quel tempo, della levata di Carlo Emanuele I
contro la Spagna, le quali erano, come scrissi, nient'altro che «un espediente
eli esortazione e di polemica ai fini della particolare politica di un
particolare stato, anzi di un singolo uomo, che, per amore di grandezza e di
gloria, sognava a volta a volta di farsi duca di Milano, signore di Genova,
conte di Provenza, re di Francia, re di Boemia e Imperatore romano» **. Come si
vede, in siffatti giudizi io non dissento dal Salvatorelli.
Ma il Salvatorelli prende
particolarmente a combattere l'interpretazione sabaudica data della storia di
casa Savoia dal prof. Cognasso, che insegna a Torino. Anche qui: ne francava la
spesa? Quale risonanza hanno mai avuto, quale pericolo di sviamento nei giudizi
hanno mai portato, quelle interpretazioni del Cognasso, i cui meriti di
studioso, del resto, sono stati acquistati soprattutto nella storia bizantina e
medievale?
Come che sia, ciò facendo, il
Salvatorelli ha disavvedutamente preso dal suo avversario l'impianto della
narrazione e dimostrazione storica, e in cambio di elevarsi sopra di esso col
rifiutare nettamente quello schema e salire sul monte della storia, e rimasto
sul piano.
Dal suo avversario gli è venuta
anche, per imitazione e contrario, la trattazione storica convertita in un
esame di ciò «che si doveva fare», e che i conti, duchi e re di casa Savoia, da
Umberto Biancamano a Vittorio Emmanuele III non fecero o fecero male o fecero
in senso opposto al dovuto. Tutto il suo opuscolo è intessuto di queste forme
di giudizi vietati allo storico, e di frasi in cui abbondano i «se», i «si
sarebbe potuto», e simili. Lo storico ben conosce che non è dato sostituire sé
stesso all'individuo che ha operato nelle individue condizioni di animo e nelle
circostanze in cui, di volta in volta, effettivamente ebbe a trovarsi; e non
smarrisce mai l'assioma che, se colui si comportò come si comportò, non poteva
altrimenti, e prova ne è che, nel fatto, non fece altrimenti. Lo storico non
consiglia, e non rimprovera, per piú efficacemente indirizzarli, uomini viventi
plastici, trasformabili, da persuadere o da intimidire per la più avveduta o la
più giusta loro azione nell'avvenire; ma ha innanzi il passato, reso sacro dal
suo carattere stesso di passato, voluto così da Dio o dallo spirito del mondo o (se ciò aggrada ai miei filosofici
colleghi comunisti) dalla necessità dialettica della Materia. Il Passato
bisogna, bensì intenderlo, ma non già presumere di censurarlo, né di
somministrargli l'errata-corrige.
L'esecuzione stessa di questo
errato schema si sarebbe presto fatta sentire al Salvatorelli disagevole e
insostenibile nel fatto, se egli non possedesse, altresì in comune col suo
avversario, un'idea che è un'immaginazione, contro la quale non ho mai
tralasciato di mettere in guardia gli studiosi: quella di un'unitaria storia
d'Italia nei secoli,
protagonista la persona spirituale dell'Italia. Ma l'Italia, e anche
l'aspirazione effettiva all'unità statale dell'Italia, fu un avvenimento del
secolo decimonono, nel quale tutti
sanno la grande parte che ebbe Giuseppe Mazzini; e non è lecito
assumerla a misura e criterio per i fatti di altre età, che ebbero altri problemi
e si mossero in altre cerchie ideali e operative, e le cui persone
erano Venezia, Firenze, Milano, Torino, Napoli, Sicilia e via dicendo. Così il
Salvatorelli accusa i Principi di casa di Savoia di non aver avuto di mira l'unità d'Italia, di
aver negletto di lavorare a tal fine, o di averlo contrastato. Ma anche quando
non c’era il problema dell'unità d'Italia, si poteva lavorare utilmente per la
civiltà e preparare alla lontana e inconsapevolmente le forze per affrontare un
giorno, allorché sarebbe sorto, il problema dell'unità nazionale, e gli altri
che l'hanno seguito e lo seguiranno. E la casa di Savoia governò, soprattutto
nel settecento e nell'ottocento, uno degli stati più saldamente costituiti tra
quelli italiani, che per questa sua saldezza poté, al momento buono, farsi
promotore dell’Indipendenza e attuare intorno a sé l'unità d'Italia.
Meno stridente che non sia con la
sua rassegna storica (la quale dal secolo undecimo va fino al secolo
decimonono) è il tono mordace, acre, sarcastico, astioso, e insomma, appassionato,
del racconto del Salvatorelli, quando egli giunge al secolo ventesimo e alla
sciagurata contaminazione di quella assai stimata monarchia col fascismo. Ciò
che egli dice della responsabilità del re Vittorio Emanuele III nel triste e
vergognoso periodo chiuso della nostra vita nazionale, è stato gridato alto da
noi, qui in Napoli, prima che il Salvatorelli e i suoi compagni potessero
liberamente muoversi e parlare. Ma noi appunto, nel dire quel che dicemmo,
nell'esortare e nel premere perché il re lasciasse il potere come alla fine
ottenemmo, facevamo politica. e non già scrivevamo storia. Forse anche nella
nostra indignazione per l'accaduto c'era, almeno in alcuni di noi il senso
doloroso dell'offesa che si era recata da un re dei Savoia a questa veneranda
casa sovrana, la, più antica di Europa che noverava nove secoli di vita, ricchi
di nobili e severe memorie, e che, quando noi eravamo giovani, aveva ispirato
l'altissimo canto di Giosué Carducci.
Un'ulti-ina osservazione si avverte, nelle.
pagine del Salvatorelli, come un continuo sospetto e rimprovero che i re di
casa Savoia, o i re in genere dirigessero la loro politica nell'interesse della
conservazione e salvazione della Monarchia e della Dinastia.
Ma se la Monarchia è la forma di
uno stato, quale meraviglia che il re intenda a conservarla e tenga in conto le
necessità vitali di essa, giacché la sua stabilità e il suo vigore sono pur
necessari allo stato e al popolo che essa governa? Tutto sta a non perdere
propter vitam vitae causas, e a non sacrificare, per conservare la monarchia,
il bene pubblico, e a non sacrificare il popolo che si regge: con che si
perderebbe, infine, la monarchia stessa. Così un esercito è fatto per difendere
la patria, ma insieme con ciò ha i suoi interessi propri, di esercito, che non
può servire la patria se prima non conserva sé stesso, cioè non serve alle
ragioni del suo organismo militare. Così gli scienziati servono alla patria
fornendola di scienza, ma questa forza non potrebbero prestare alla patria se
innanzi tutto non servissero agli interessi della scienza, della pura scienza,
autonomi e distinti da quelli della patria, sebbene con essa unificabili. Non
vedo perché i monarchi, che hanno a cuore la stabilità della monarchia e la
successione del trono, debbano essere trattati peggio dei militari e degli
scienziati, e sottomessi a un sospetto e a un discredito dal quale gli altri
vanno esenti. In fondo, il re Vittorio Emmanuele III fu colpevole di avere, non
già provveduto alla stabilità della monarchia e alla successione dinastica, ma,
per accomodamento, per quieto vivere, per fiacchezza, compromesso l'una e
l'altra con l'abbandonare prerogative che erano non soltanto sue ma del suo
popolo, come la successione ereditaria, e diritti e doveri che lo Statuto gli assegnava
e, che egli lasciò esercitare a un avventuriero, come la dichiarazione di
guerra e il comando delle forze di terra e di mare. Così avess'egli difeso le
sorti della sua casa, «inseparabili» (come in una solenne occasione aveva
affermato) «da quelle della libertà »!
* Nel Giornale di Napoli, 13
ottobre 1944, e nel Risorgimento liberale di Roma, 14 ottobre.
**Storia dell'età, barocca, p. 489
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