NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 agosto 2016

Richiamo al buon metodo della Storia. La storia della Casa di Savoia. Benedetto Croce


L'articolo di Giuseppe Galasso di qualche giorno fa sul Corriere della Sera a commento della riedizione di un opuscolo di Luigi Salvatorelli del 1944 ci ha dato l'occasione per riscoprire un articolo di Benedetto Croce pubblicato nel Giornale di Napoli, 13 ottobre 1944, e nel Risorgimento liberale di Roma, 14 ottobre.
Nell'articolo Croce contesta organicamente al Salvatorelli il suo metodo e quindi tutto il contenuto dell'opuscolo dettato non già da analisi obiettiva ed impersonale ma dalla passione politica e segnatamente da quella di un partito, il Partito d'Azione molto rappresentato al governo ma che non avrebbe avuto alcun seguito popolare di lì a poco.
L'articolo è pubblicato in "Scritti e discorsi politici 1943-1947, Laterza 1962.
Ringraziamo i nostri solerti amici per la segnalazione che ci ha permesso di trovarlo!
Lo staff


Non si pensi che io voglia, neppure per qualche momento, distrarre i nostri lettori dai problemi politici che premono sopra noi tutti e sono il nostro presente e attuale dovere. Il richiamo, che mi permetto di fare, all'osservanza del buon metodo della storia, mi sembra oggi anch'esso sollecitudine e dovere politico.
Perché la conoscenza storica è il fondamento di verità che di continuo poniamo e rassodiamo per il nostro fare politico. Senza di essa, si andrebbe alla cieca, in un mondo cieco. E formare o ricevere in sé la conoscenza storica vuol dire la ricorrente tregua o sospensione mentale delle lotte tra gli uomini e tra i partiti nel momento che ci affissiamo solo in lei.

Leggo, in un avviso che accompagna l'opuscolo storico che ho dinanzi, che questo appartiene a una serie di Pubblicazioni, condotte « secondo le direttive ideologiche e politiche del Partito d'azione». Senza mancare di riguardo al Partito d'azione, -perché, oltre il resto, non mi è possibile mancare di riguardo a un partito che vedo ora in grande travaglio per definire sé stesso, - dico che nessun partito deve dare le «direttive» alla storia, la quale le attinge solo dalla purezza del pensiero.

Nessun partito? Neppure il liberale? Neppure il liberale, perché questo (e tale è una delle ragioni per le quali io sono liberale) professa bensì il suo rispetto assoluto alla storia e riconosce senza esitanze, anzi con gioia, il contributo che, come la storia mostra, al progresso civile e umano hanno apportato e apportano uomini di partiti diversi ed opposti, i quali, anche senza averne chiarezza o contro i loro propositi, hanno lavorato per la libertà - ma, nel far ciò, non dà le sue proprie direttive alla, storia, sibbene accetta esso dalla storia una delle sue necessarie condizioni o « direttive ». 
Dunque , l'opuscolo di cui oggi discorro è dovuto alla penna di uno dei nostri più colti storici e pubblicisti, Luigi Salvatorelli, e s'intitola Casa Savoia nella storia d'Italia (Roma, maggio 1944); e vuol essere una dimostrazione della quasi continua estraneità e divergenza e ostilità tra la storia di Casa Savoia e quella d'Italia.

Per compiutezza bibliografica, mi piace notare che lo stesso argomento, con la stessa tesi, è stato trattato in un opuscolo (di cui il Salvatorelli non poté godere la benefica lettura, come potemmo noi fin da alcuni mesi or sono in Napoli, che fu liberata prima di Roma) di un giornalista italiano, diventato cittadino americano, il Borgese, il quale ha ora il poco buon gusto di rovesciare contumelie e calunnie, dall'altra sponda dell'Oceano, sugli uomini che in Italia, tra non piccole difficoltà, operano come meglio possono per la salvazione della loro patria.
E’ agevole immaginare che cosa sia diventata la storia della casa di Savoia nelle mani di un uomo simile, il quale, per di più, non ha avuto mai alcuna pratica di cotesti studi e delle delicate cure che richiedono.

Il Salvatorelli ha ben questa pratica ed è esattamente informato dei fatti particolari che viene rammentando; ma ha preso le mosse da una polemica e confutazione della storiografia, com'egli la chiama, sabauda e cortigiana, che ha avuto corso, dopo il 1860, in manuali per le scuole o in libri di professori conformisti o di troppo zelanti monarchici. Era necessaria questa polemica? In verità, quella storiografia ufficiosa e convenzionale veniva smentita dalle parole che correvano in proverbio, da tutti accettate: che la politica della casa di Savoia verso l'Italia era stata quella del carciofo che si mangia a foglie; e, circa la mutevole e infida politica di quella casa tra Francia e Spagna, tra Francia e Impero, dal motto scherzoso ma acuto del principe di Ligne: che «alla casa di Savoia la posizione geografica impediva di fare una politica estera onorevole». Gli storici seri hanno sempre detto come stavano realmente le cose: e, per esempio, anch'io, modestamente, nel dare un quadro della storia d'Italia nel seicento, mi spacciai con poche parole delle esaltazioni nazionalistiche, dovute a poeti e pubblicisti di quel tempo, della levata di Carlo Emanuele I contro la Spagna, le quali erano, come scrissi, nient'altro che «un espediente eli esortazione e di polemica ai fini della particolare politica di un particolare stato, anzi di un singolo uomo, che, per amore di grandezza e di gloria, sognava a volta a volta di farsi duca di Milano, signore di Genova, conte di Provenza, re di Francia, re di Boemia e Imperatore romano» **. Come si vede, in siffatti giudizi io non dissento dal Salvatorelli.
Ma il Salvatorelli prende particolarmente a combattere l'interpretazione sabaudica data della storia di casa Savoia dal prof. Cognasso, che insegna a Torino. Anche qui: ne francava la spesa? Quale risonanza hanno mai avuto, quale pericolo di sviamento nei giudizi hanno mai portato, quelle interpretazioni del Cognasso, i cui meriti di studioso, del resto, sono stati acquistati soprattutto nella storia bizantina e medievale?
Come che sia, ciò facendo, il Salvatorelli ha disavvedutamente preso dal suo avversario l'impianto della narrazione e dimostrazione storica, e in cambio di elevarsi sopra di esso col rifiutare nettamente quello schema e salire sul monte della storia, e rimasto sul piano.

Dal suo avversario gli è venuta anche, per imitazione e contrario, la trattazione storica convertita in un esame di ciò «che si doveva fare», e che i conti, duchi e re di casa Savoia, da Umberto Biancamano a Vittorio Emmanuele III non fecero o fecero male o fecero in senso opposto al dovuto. Tutto il suo opuscolo è intessuto di queste forme di giudizi vietati allo storico, e di frasi in cui abbondano i «se», i «si sarebbe potuto», e simili. Lo storico ben conosce che non è dato sostituire sé stesso all'individuo che ha operato nelle individue condizioni di animo e nelle circostanze in cui, di volta in volta, effettivamente ebbe a trovarsi; e non smarrisce mai l'assioma che, se colui si comportò come si comportò, non poteva altrimenti, e prova ne è che, nel fatto, non fece altrimenti. Lo storico non consiglia, e non rimprovera, per piú efficacemente indirizzarli, uomini viventi plastici, trasformabili, da persuadere o da intimidire per la più avveduta o la più giusta loro azione nell'avvenire; ma ha innanzi il passato, reso sacro dal suo carattere stesso di passato, voluto così da Dio o dallo spirito del  mondo o (se ciò aggrada ai miei filosofici colleghi comunisti) dalla necessità dialettica della Materia. Il Passato bisogna, bensì intenderlo, ma non già presumere di censurarlo, né di somministrargli l'errata-corrige.

L'esecuzione stessa di questo errato schema si sarebbe presto fatta sentire al Salvatorelli disagevole e insostenibile nel fatto, se egli non possedesse, altresì in comune col suo avversario, un'idea che è un'immaginazione, contro la quale non ho mai tralasciato di mettere in guardia gli studiosi: quella di un'unitaria storia d'Italia nei secoli,            protagonista la persona spirituale dell'Italia. Ma l'Italia, e anche l'aspirazione effettiva all'unità statale dell'Italia, fu un avvenimento del secolo decimonono, nel quale tutti            sanno la grande parte che ebbe Giuseppe Mazzini; e non è lecito assumerla a misura e criterio per i fatti di altre età, che ebbero altri problemi e si mossero in altre cerchie             ideali e operative, e le cui persone erano Venezia, Firenze, Milano, Torino, Napoli, Sicilia e via dicendo. Così il Salvatorelli accusa i Principi di casa di Savoia di non aver           avuto di mira l'unità d'Italia, di aver negletto di lavorare a tal fine, o di averlo contrastato. Ma anche quando non c’era il problema dell'unità d'Italia, si poteva lavorare utilmente per la civiltà e preparare alla lontana e inconsapevolmente le forze per affrontare un giorno, allorché sarebbe sorto, il problema dell'unità nazionale, e gli altri che l'hanno seguito e lo seguiranno. E la casa di Savoia governò, soprattutto nel settecento e nell'ottocento, uno degli stati più saldamente costituiti tra quelli italiani, che per questa sua saldezza poté, al momento buono, farsi promotore dell’Indipendenza e attuare intorno a sé l'unità d'Italia.

Meno stridente che non sia con la sua rassegna storica (la quale dal secolo undecimo va fino al secolo decimonono) è il tono mordace, acre, sarcastico, astioso, e insomma, appassionato, del racconto del Salvatorelli, quando egli giunge al secolo ventesimo e alla sciagurata contaminazione di quella assai stimata monarchia col fascismo. Ciò che egli dice della responsabilità del re Vittorio Emanuele III nel triste e vergognoso periodo chiuso della nostra vita nazionale, è stato gridato alto da noi, qui in Napoli, prima che il Salvatorelli e i suoi compagni potessero liberamente muoversi e parlare. Ma noi appunto, nel dire quel che dicemmo, nell'esortare e nel premere perché il re lasciasse il potere come alla fine ottenemmo, facevamo politica. e non già scrivevamo storia. Forse anche nella nostra indignazione per l'accaduto c'era, almeno in alcuni di noi il senso doloroso dell'offesa che si era recata da un re dei Savoia a questa veneranda casa sovrana, la, più antica di Europa che noverava nove secoli di vita, ricchi di nobili e severe memorie, e che, quando noi eravamo giovani, aveva ispirato l'altissimo canto di Giosué Carducci.
 Un'ulti-ina osservazione si avverte, nelle. pagine del Salvatorelli, come un continuo sospetto e rimprovero che i re di casa Savoia, o i re in genere dirigessero la loro politica nell'interesse della conservazione e salvazione della Monarchia e della Dinastia.
Ma se la Monarchia è la forma di uno stato, quale meraviglia che il re intenda a conservarla e tenga in conto le necessità vitali di essa, giacché la sua stabilità e il suo vigore sono pur necessari allo stato e al popolo che essa governa? Tutto sta a non perdere propter vitam vitae causas, e a non sacrificare, per conservare la monarchia, il bene pubblico, e a non sacrificare il popolo che si regge: con che si perderebbe, infine, la monarchia stessa. Così un esercito è fatto per difendere la patria, ma insieme con ciò ha i suoi interessi propri, di esercito, che non può servire la patria se prima non conserva sé stesso, cioè non serve alle ragioni del suo organismo militare. Così gli scienziati servono alla patria fornendola di scienza, ma questa forza non potrebbero prestare alla patria se innanzi tutto non servissero agli interessi della scienza, della pura scienza, autonomi e distinti da quelli della patria, sebbene con essa unificabili. Non vedo perché i monarchi, che hanno a cuore la stabilità della monarchia e la successione del trono, debbano essere trattati peggio dei militari e degli scienziati, e sottomessi a un sospetto e a un discredito dal quale gli altri vanno esenti. In fondo, il re Vittorio Emmanuele III fu colpevole di avere, non già provveduto alla stabilità della monarchia e alla successione dinastica, ma, per accomodamento, per quieto vivere, per fiacchezza, compromesso l'una e l'altra con l'abbandonare prerogative che erano non soltanto sue ma del suo popolo, come la successione ereditaria, e diritti e doveri che lo Statuto gli assegnava e, che egli lasciò esercitare a un avventuriero, come la dichiarazione di guerra e il comando delle forze di terra e di mare. Così avess'egli difeso le sorti della sua casa, «inseparabili» (come in una solenne occasione aveva affermato) «da quelle della libertà »!

* Nel Giornale di Napoli, 13 ottobre 1944, e nel Risorgimento liberale di Roma, 14 ottobre.
**Storia dell'età, barocca, p. 489

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