ANTECEDENTI E INVOLUZIONE DEL COSTITUZIONALISMO
A Torino l'8 febbraio 1848
fu pubblicato il manifesto nel quale Carlo Alberto annunziava prossima la
promulgazione dello Statuto, esponendone i punti fondamentali, e da quel giorno
il Consiglio di Conferenza, come si chiamava il Consiglio dei Ministri, elaborò
gli articoli della Carta costituzionale, che fu portata a compimento il 2
marzo, venne firmata dal Re il 4 e promulgata il 5.
Gli 84 articoli del
documento stabilivano la formazione e il funzionamento dei tre poteri,
fissavano le prerogative della Corona e la legge di Successione dinastica,
definivano i diritti del cittadino sulla base dell'uguaglianza giuridica e
della libertà di parola, stampa, riunione, associazione.
Il testo era preceduto da un
preambolo steso dal ministro Sclopis ove si parlava di larghe e forti
istituzioni rappresentative, e l'articolo secondo diceva che lo Stato è retto
da un governo monarchico rappresentativo. Il carattere distintivo del nuovo
sistema risiedeva appunto nell'esistenza di una «rappresentanza nazionale», formata
attraverso libere elezioni, tale essendo il significato che si dava allora al
termine «costituzione». Si diceva che un paese sfornito di rappresentanza
elettiva non ha costituzione.
In Italia i primi tentativi
di un regime rappresentativo si erano avuti nel 1796-97 quando, durante la
campagna napoleonica, erano sorte le repubbliche cispadana e transpadana, poi
unite nella repubblica cisalpina, e nel 1799 quando visse per pochi mesi la repubblica
partenopea.
Precedentemente, un regime
rappresentativo che tentava di conciliare la Monarchia col principio deIla sovranità
nazionale fu la Costituzione francese del 1791, e ad essa si ispirava la
costituzione spagnola del 1812, stabilita quando il Wellington occupò la penisola
iberica contro i francesi, mentre il re Ferdinando VII era prigioniero di
Napoleone.
Successivamente vi fu la
carta data nel 1814 da Luigi XVIII nei giorni della Restaurazione. La
costituzione invocata nei moti carbonari nel 1820 a Napoli e nel 1821 in
Piemonte era quella spagnola del 1812. Il moto dell'Emilia del 1831 si svolse
nel clima della rivoluzione di luglio, compiuta a Parigi al grido di: «Viva la
Carta!», la Carta, cioè, del 1814, ripresa, modificandola, dalla monarchia di
Luigi Filippo d'Orléans: «una monarchia circondata da istituzioni repubblicane»,
come si disse.
Questa Costituzione francese
del 1830 fu la principale fonte a cui attinsero i redattori dello Statuto
Albertino, e ad essa miravano i liberali italiani che fra il '30 e il '48 nelle
varie parti della penisola si agitavano per ottenere dai rispettivi sovrani le
riforme e da ultimo la essenziale riforma, che doveva avvalorare tutte le
altre: la Carta.
Rintracciando la genesi del
regime rappresentativo bisogna dunque riferirsi alla Costituzione francese del
1791, e quindi alla «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» del 4
agosto 1789, la quale a sua volta aveva un precedente storico nella
«Dichiarazione dei diritti» di Filadelfia del 1776, riportata nella
Costituzione degli Stati Uniti d'America del 1790, aveva un antecedente
politico nella pratica del governo britannico, e aveva un sostrato teoretico
nella cultura dell'enciclopedismo.
Filosoficamente i due
principi della eguaglianza giuridica e della sovranità nazionale, che
costituirono poi l'eredità della rivoluzione francese, erano il portato della
cultura settecentesca, permeata di umanesimo illuministico, erano il punto di
arrivo d'una età critica che aveva corroso il principio d'autorità, negato la
trascendenza religiosa, generato l'illusione dell'autosufficienza dell'uomo.
Astraendo dalla questione
della validità di codeste idee prodotte dal razionalismo e permeate di spirito
antistorico, occorre notare che esse furono gettate (come lo scultore getta in
una forma la materia plastica) nelle forme politiche elaborate nel Sei e nel
Settecento dal felice empirismo britannico, fatto che potrebbe latinamente
chiamarsi contaminatio, poiché quell'empirismo sempre volto a risolvere i
concreti problemi dell'ora rebus ipsis dictantibus, era lontanissimo dal
logicismo francese dalle idee chiare e distinte e dal settecentesco
idoleggiamento della raison.
L'esistenza a Londra di una
Camera dei Comuni dotata di ampie prerogative generò in Francia la teoria della
geometrica « tricotomia » dei poteri elaborata dal Montesquieu nel suo Spirito
delle leggi. Su questa opera e sul Contratto Sociale del Rousseau avevano
formato la propria cultura politica gli uomini dell''89 membri dell'Assemblea
Nazionale Costituente, autori della Costituzione del '91.
Ma il principio della
sovranità nazionale, nel senso di sovranità popolare, discendente dal
democratismo del Rousseau, non aveva nulla in comune con la pratica politica in
Inghilterra dove il corpo elettorale era ristrettissimo e venne allargato solo
con la riforma del 1832.
In Inghilterra esecutivo e
legislativo erano separati nelle funzioni ma collegati dalla consuetudine del Sovrano,
iniziata da Giorgio 1 di Hannover per consiglio del Walpole, di scegliere i
ministri del partito maggioritario dei Comuni, alternativamente Tory o Whig.
Tutte le fondamentali leggi
del costituzionalismo inglese del sec. XVII: Petizione dei diritti (1628), Habeas
corpus (1678), Atto del diritti (1688), Atto di stabilimento (1700), erano
state formulate non in base a un astratto schema di pubblico ordinamento
derivato da una filosofia, ma sotto l'urgenza di necessità contingenti, e in
esse avevano sempre operato due elementi ai quali lo spirito della costituente
francese era del tutto estraneo: un elemento religioso e uno finanziario.
Le frequenti convulsioni
politiche tra cui visse la Francia, che ebbe nel secolo XIX tre rivoluzioni,
oltre a numerose affaires e anche in questo secolo è continuamente travagliata
dallo sforzo di darsi un governo, derivarono e derivano dalla difficoltà di
adattare al paese istituzioni nate sotto altro cielo, presso un popolo di
diversa indole e di diversa storia.
Molti errori della
Costituzione del '91, e principalmente la frattura in questa creata tra
legislativo ed esecutivo col divieto fatto al Sovrano di scegliere i ministri
fra i membri della Camera elettiva, vennero corretti nelle carte promulgate
successivamente in Europa, e di tale esperienza si valsero i redattori dello
Statuto Albertino, che fin dal suo esordio mostrò di possedere il requisito
della elasticità, necessario ad un ordinamento pubblico per adeguarsi ai
mutevoli bisogni dei tempi. E nelle innovazioni i nostri uomini di governo si
ispirarono spesso direttamente al modello britannico.
Lo Statuto ad esempio
parlava di ministri del Re, non di un Consiglio dei ministri né di un
presidente del Consiglio, e l'idea di governo rappresentativo non implicava la
pratica di governo parlamentare: ma fin dal primo ministero presieduto da
Cesare Balbo si delineò nel gabinetto la figura di un primus inter pares, e il
necessario nesso tra i poteri legislativo ed esecutivo fu attuato con la scelta
dei ministri nella maggioranza parlamentare.
Cosi sovranità regia e
sovranità parlamentare furono conciliate preservando la irresponsabilità della
Corona con lo stabilire che ogni atto del Re per divenire esecutivo dovesse
portar la firma di un ministro responsabile dinanzi alla Camera, misura
derivata dall'Act of settlement.
Lo Statuto attuò la
concezione moderna dello Stato quale volontà impersonale a in cui confluiscono
e si armonizzano tutte le volontà individuali, ove la libertà risiede nella
consentita sovranità della legge; essa consiste cioè nella spontanea adesione a
un ordine di cui ogni cittadino è artefice, e si identifica quindi con la
responsabilità. In effetti libertà e responsabilità formano una unica idea in
due parole.
E ove si faccia astrazione
dalle polemiche di parte, non si può disconoscere il valore di una carta
costituzionale che assecondando la vigorosa spinta evolutiva della nazione
accompagnò l'Italia nella sua rapida ascesa al rango di grande Potenza e
assicurò, con l'unità territoriale e morale del Paese, la continuità della sua
vita politica.
Ai nostri giorni il
concentrarsi della attività politica in partiti, i quali sono incapaci di
intavolare un dialogo fecondo in quanto muovono da premesse antitetiche e hanno
opposti concetti dello Stato e dei suoi compiti, determina la disfunzione
dell'istituto parlamentare, e dieci anni dopo la promulgazione della Costituzione
repubblicana il nostro diritto e la nostra prassi costituzionale sono ancora in
fieri e la Costituzione sussiste in virtù dell'oblio in cui alcune sue parti
sono cadute. In realtà l'esistenza di un partito di Centro, il cui peso deriva
principalmente dal prestigio di un'istituzione esterna ad esso, e la sua
volontà di costituirsi in Parlamento una maggioranza preordinata e immutabile
per una intera legislatura o per un più lungo periodo, altera radicalmente la
nozione di quella fiducia che in passato condizionava l'esistenza di un
governo, mentre nessuna remora viene posta alle forze centrifughe da un Capo
dello Stato avente carattere avventizio a causa della sua stessa origine
elettiva.
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