NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 21 gennaio 2013

Il Partito nazionale Monarchico - XVII parte


ANTECEDENTI E INVOLUZIONE DEL COSTITUZIONALISMO

A Torino l'8 febbraio 1848 fu pubblicato il manifesto nel quale Carlo Alberto annunziava prossima la promulgazione dello Statuto, esponendone i punti fondamentali, e da quel giorno il Consiglio di Conferenza, come si chiamava il Consiglio dei Ministri, elaborò gli articoli della Carta costituzionale, che fu portata a compimento il 2 marzo, venne firmata dal Re il 4 e promulgata il 5.
Gli 84 articoli del documento stabilivano la formazione e il funzionamento dei tre poteri, fissavano le prerogative della Corona e la legge di Successione dinastica, definivano i diritti del cittadino sulla base dell'uguaglianza giuridica e della libertà di parola, stampa, riunione, associazione.
Il testo era preceduto da un preambolo steso dal ministro Sclopis ove si parlava di larghe e forti istituzioni rappresentative, e l'articolo secondo diceva che lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo. Il carattere distintivo del nuovo sistema risiedeva appunto nell'esistenza di una «rappresentanza nazionale», formata attraverso libere elezioni, tale essendo il significato che si dava allora al termine «costituzione». Si diceva che un paese sfornito di rappresentanza elettiva non ha costituzione.

In Italia i primi tentativi di un regime rappresentativo si erano avuti nel 1796-97 quando, durante la campagna napoleonica, erano sorte le repubbliche cispadana e transpadana, poi unite nella repubblica cisalpina, e nel 1799 quando visse per pochi mesi la repubblica partenopea.

Precedentemente, un regime rappresentativo che tentava di conciliare la Monarchia col principio deIla sovranità nazionale fu la Costituzione francese del 1791, e ad essa si ispirava la costituzione spagnola del 1812, stabilita quando il Wellington occupò la penisola iberica contro i francesi, mentre il re Ferdinando VII era prigioniero di Napoleone.
Successivamente vi fu la carta data nel 1814 da Luigi XVIII nei giorni della Restaurazione. La costituzione invocata nei moti carbonari nel 1820 a Napoli e nel 1821 in Piemonte era quella spagnola del 1812. Il moto dell'Emilia del 1831 si svolse nel clima della rivoluzione di luglio, compiuta a Parigi al grido di: «Viva la Carta!», la Carta, cioè, del 1814, ripresa, modificandola, dalla monarchia di Luigi Filippo d'Orléans: «una monarchia circondata da istituzioni repubblicane», come si disse.

Questa Costituzione francese del 1830 fu la principale fonte a cui attinsero i redattori dello Statuto Albertino, e ad essa miravano i liberali italiani che fra il '30 e il '48 nelle varie parti della penisola si agitavano per ottenere dai rispettivi sovrani le riforme e da ultimo la essenziale riforma, che doveva avvalorare tutte le altre: la Carta.
Rintracciando la genesi del regime rappresentativo bisogna dunque riferirsi alla Costituzione francese del 1791, e quindi alla «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» del 4 agosto 1789, la quale a sua volta aveva un precedente storico nella «Dichiarazione dei diritti» di Filadelfia del 1776, riportata nella Costituzione degli Stati Uniti d'America del 1790, aveva un antecedente politico nella pratica del governo britannico, e aveva un sostrato teoretico nella cultura dell'enciclopedismo.
Filosoficamente i due principi della eguaglianza giuridica e della sovranità nazionale, che costituirono poi l'eredità della rivoluzione francese, erano il portato della cultura settecentesca, permeata di umanesimo illuministico, erano il punto di arrivo d'una età critica che aveva corroso il principio d'autorità, negato la trascendenza religiosa, generato l'illusione dell'autosufficienza dell'uomo.
Astraendo dalla questione della validità di codeste idee prodotte dal razionalismo e permeate di spirito antistorico, occorre notare che esse furono gettate (come lo scultore getta in una forma la materia plastica) nelle forme politiche elaborate nel Sei e nel Settecento dal felice empirismo britannico, fatto che potrebbe latinamente chiamarsi contaminatio, poiché quell'empirismo sempre volto a risolvere i concreti problemi dell'ora rebus ipsis dictantibus, era lontanissimo dal logicismo francese dalle idee chiare e distinte e dal settecentesco idoleggiamento della raison.
L'esistenza a Londra di una Camera dei Comuni dotata di ampie prerogative generò in Francia la teoria della geometrica « tricotomia » dei poteri elaborata dal Montesquieu nel suo Spirito delle leggi. Su questa opera e sul Contratto Sociale del Rousseau avevano formato la propria cultura politica gli uomini dell''89 membri dell'Assemblea Nazionale Costituente, autori della Costituzione del '91.
Ma il principio della sovranità nazionale, nel senso di sovranità popolare, discendente dal democratismo del Rousseau, non aveva nulla in comune con la pratica politica in Inghilterra dove il corpo elettorale era ristrettissimo e venne allargato solo con la riforma del 1832.
In Inghilterra esecutivo e legislativo erano separati nelle funzioni ma collegati dalla consuetudine del Sovrano, iniziata da Giorgio 1 di Hannover per consiglio del Walpole, di scegliere i ministri del partito maggioritario dei Comuni, alternativamente Tory o Whig.

Tutte le fondamentali leggi del costituzionalismo inglese del sec. XVII: Petizione dei diritti (1628), Habeas corpus (1678), Atto del diritti (1688), Atto di stabilimento (1700), erano state formulate non in base a un astratto schema di pubblico ordinamento derivato da una filosofia, ma sotto l'urgenza di necessità contingenti, e in esse avevano sempre operato due elementi ai quali lo spirito della costituente francese era del tutto estraneo: un elemento religioso e uno finanziario.
Le frequenti convulsioni politiche tra cui visse la Francia, che ebbe nel secolo XIX tre rivoluzioni, oltre a numerose affaires e anche in questo secolo è continuamente travagliata dallo sforzo di darsi un governo, derivarono e derivano dalla difficoltà di adattare al paese istituzioni nate sotto altro cielo, presso un popolo di diversa indole e di diversa storia.
Molti errori della Costituzione del '91, e principalmente la frattura in questa creata tra legislativo ed esecutivo col divieto fatto al Sovrano di scegliere i ministri fra i membri della Camera elettiva, vennero corretti nelle carte promulgate successivamente in Europa, e di tale esperienza si valsero i redattori dello Statuto Albertino, che fin dal suo esordio mostrò di possedere il requisito della elasticità, necessario ad un ordinamento pubblico per adeguarsi ai mutevoli bisogni dei tempi. E nelle innovazioni i nostri uomini di governo si ispirarono spesso direttamente al modello britannico.
Lo Statuto ad esempio parlava di ministri del Re, non di un Consiglio dei ministri né di un presidente del Consiglio, e l'idea di governo rappresentativo non implicava la pratica di governo parlamentare: ma fin dal primo ministero presieduto da Cesare Balbo si delineò nel gabinetto la figura di un primus inter pares, e il necessario nesso tra i poteri legislativo ed esecutivo fu attuato con la scelta dei ministri nella maggioranza parlamentare.

Cosi sovranità regia e sovranità parlamentare furono conciliate preservando la irresponsabilità della Corona con lo stabilire che ogni atto del Re per divenire esecutivo dovesse portar la firma di un ministro responsabile dinanzi alla Camera, misura derivata dall'Act of settlement.

Lo Statuto attuò la concezione moderna dello Stato quale volontà impersonale a in cui confluiscono e si armonizzano tutte le volontà individuali, ove la libertà risiede nella consentita sovranità della legge; essa consiste cioè nella spontanea adesione a un ordine di cui ogni cittadino è artefice, e si identifica quindi con la responsabilità. In effetti libertà e responsabilità formano una unica idea in due parole.
E ove si faccia astrazione dalle polemiche di parte, non si può disconoscere il valore di una carta costituzionale che assecondando la vigorosa spinta evolutiva della nazione accompagnò l'Italia nella sua rapida ascesa al rango di grande Potenza e assicurò, con l'unità territoriale e morale del Paese, la continuità della sua vita politica.
Ai nostri giorni il concentrarsi della attività politica in partiti, i quali sono incapaci di intavolare un dialogo fecondo in quanto muovono da premesse antitetiche e hanno opposti concetti dello Stato e dei suoi compiti, determina la disfunzione dell'istituto parlamentare, e dieci anni dopo la promulgazione della Costituzione repubblicana il nostro diritto e la nostra prassi costituzionale sono ancora in fieri e la Costituzione sussiste in virtù dell'oblio in cui alcune sue parti sono cadute. In realtà l'esistenza di un partito di Centro, il cui peso deriva principalmente dal prestigio di un'istituzione esterna ad esso, e la sua volontà di costituirsi in Parlamento una maggioranza preordinata e immutabile per una intera legislatura o per un più lungo periodo, altera radicalmente la nozione di quella fiducia che in passato condizionava l'esistenza di un governo, mentre nessuna remora viene posta alle forze centrifughe da un Capo dello Stato avente carattere avventizio a causa della sua stessa origine elettiva.

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