ARGINE CONTRO LA SOVVERSIONE
Da parte
bolscevica il grande e sconcertante avvenimento del 1956 fu il famoso «rapporto
» di Kruscev al XX Congresso, con la negazione del culto della personalità, la
deplorazione dei metodi staliniani, l'annunzio di un « nuovo corso » della
politica russa, l'ammissione delle « vie nazionali al socialismo » e con le
altre conseguenze che vanno sotto il nome di destalinizzazione.
Più che legittimo
fu allora il sospetto che tutto ciò dovesse interpretarsi come manovra volta ad
addormentare l'Occidente nell'illusione distensiva, nella rassicurante visione
d'una Russia sinceramente disposta alla coesistenza pacifica, sospetto divenuto
certezza da quando Kruscev stesso, con eclettismo non nuovo in campo sovietico,
cominciò a far macchina indietro non solo nei fatti, come si vide in Ungheria e
nel Medio Oriente, ma anche nella teoria. Egli infatti in un discorso
pronunziato al ricevimento di fine d'anno a Mosca e successivamente in altre
occasioni riabilitò parzialmente il vecchio dittatore e si dichiarò- fiero di
essere staliniano, dimostrando ad abundantiam come la destalinizzazione fosse
una manovra tattica legata a determinate contingenze.
In realtà, era
evidente che le accuse mosse a Stalin, legittime in una società governata da
principii di legalità civile, erano sulla bocca dei suoi successori ciò che di più
vacuo e inconsistente si potesse immaginare, sia riguardo alla autodefinizione
dell'uomo sia riguardo alla sua azione di governo.
In un paese e in
un momento in cui non esistono grandi
personalità è facile negare il culto della personalità: è come negare gli
alberi d'alto fusto in una landa ove in un dato periodo non crescono che
arbusti e cespugli. Non appena in quel paese si riveli una figura politica
d'eccezione, il culto della personalità vi si ristabilisce, ed è singolare in
proposito il fatto che contro i comunisti nostrani, docili agli ordini
destalinizzatori di Mosca, fummo allora proprio noi, uomini di Destra avversari
irriducibili del comunismo, a difendere le dimensioni storiche del morto
tiranno, dato che anche la tirannide è parte della storia.
E quanto ai metodi, un minimo d'intelligenza (lei
fatti bastava e basta a capire che quelli impiegati da Stalin sono inseparabili
dalla prassi del bolscevismo; a capire cioè che il comunismo o è staliniano o
non e comunismo.
La cosiddetta dittatura del proletariato è dittatura
d'un uomo o d'un gruppo d'uomini, e la «direzione collettiva» non cambia
l'essenza d'un sistema che non può non essere dispotico, poliziesco, spietato.
Il comunismo, radicalmente erroneo nelle sue premesse teoretiche del
materialismo marxistico, sul terreno pratico non può sussistere se non con la
violenza; è come un corpo umano costretto in una posizione sforzata, il quale
viene mantenuto immobile con una ingessatura che lo avvolge tutto quanto: il
corpo soffre atrocemente ma non esiste altro mezzo per tenerlo fermo;
sostituire il gesso con un bendaggio non serve, perché il corpo riprenderebbe
una posizione naturale, e allora tanto vale abolire anche il bendaggio e
lasciarlo muoversi naturalmente.
L'ormai defunto «nuovo corso» annunziato da Kruscev al
Congresso, ovvero la «destalinizzazione» del comunismo, sarebbe stato la
sostituzione dei bendaggio all'ingessatura.
Se democrazia significa legittimità della opposizione
politica, pluralità di partiti e principio elettorale sinceramente applicato,
il comunismo è costituzionalmente antidemocratico e, pena il suicidio, non può
fare alla democrazia la minima concessione. Una caldaia che non sia a tenuta
perfetta non funziona piú.
E come in politica cosi in economia tertium non datur.
Se lo Stato assume totalitariamente la gestione della
economia, da un lato sterilizza una quantità di potenziali energie economiche e
crea l'elefantiasi burocratica, l'inarrestabile spreco, l'indigenza, il lavoro
coatto, e dall'altro lato compie le grandi «realizzazioni» che i varii
«compagni» additano all'ammirazione dei propri gregari; e profondendo nelle
ricerche e negli esperimenti scientifici mezzi illimitati arriva anche a
precedere l'America nella creazione e nel lancio delle «lune rosse» ruotanti
intorno al nostro pianeta. Anche le Piramidi di Gizeh furono grandi «realizzazioni»,
rese possibili dall'estenuante fatica di intere generazioni di schiavi. Di
diverso vi e che gli schiavi d'allora avevano almeno nei loro patimenti il
conforto di una fede trascendentale, mentre agli odierni schiavi anche quel
sollievo è stato tolto.
In economia il «nuovo corso» è impossibile senza
demolire l'intera costruzione. Ammettere oggi la libertà dei piccoli operatori
economici attraverso la piccola proprietà agricola e artigiana, significa
ammettere domani i medi e posdomani i grandi operatori economici.
La libertà implica l'agonismo, la selezione,
l'evoluzione, e quindi la disparità dei guadagni e delle fortune. La libertà
economica, indispensabile fonda mento della libertà civile, determina un
relativo benessere generale con l'attivazione di tutte le energie esistenti, ma
è incompatibile con le pianificazioni integrali, con l'industrializzazione
intensiva e con la mastodontica produzione russa degli armamenti.
Al tempo suo Lenin - che era nella specie umana ciò
che sono nella zoologia i grandi felini, cosa che non esclude l'ingegno - attuò
la rivoluzione comunistica nel più completo oblio delle leggi economiche e a
chi gli diceva ch'egli andava contro la realtà rispondeva: «tanto peggio per la
realtà». Nondimeno, quando vide abbattersi sul paese il flagello della fame, si
ricredette e non esitò ad accantonare i piani d'industrializzazione per
adottare la N E P, la nuova politica economica, che era semplicemente una
controrivoluzione economica, in quanto ripristinava la proprietà privata, la
libera iniziativa, i liberi mercati.
La Russia respirò e gradualmente la produzione dei
beni di consumo prese ad adeguarsi al bisogno. Ma alcuni anni più tardi il
successore Stalin vide che, con la NEP, dell'edificio comunista rimaneva solo
la facciata e che industrializzazione ed armamenti venivano rimandati alle
calende greche, onde abolì la NEP, inasprì la dittatura, introdusse la
pianificazione totale e il lavoro schiavista, stroncò con le esecuzioni
capitali o la deportazione in Siberia ogni ombra di critica e ogni conato di
resistenza, lasciò morir di fame milioni di culaki, ma compì, con la direzione
tecnica di ingegneri dell'Occidente, l'industrializzazione ed ebbe gli
armamenti.
Il tutto fu sopportato dai russi, atavicamente
assuefatti a misere condizioni di vita e per i quali l'onnipotenza dello Stato
e l'onnipresenza della polizia è la sola esperienza politica che abbiano fatto.
Col suo prestigio personale, con l'antico patriottismo del popolo e con la
produzione propria largamente integrata dalle armi gli equipaggiamenti i viveri
ricevuti dall'America, egli poté superare la prova della seconda guerra
mondiale.
La vittoria gli diede il dominio dei paesi « satelliti».
Il comunismo venne per la prima volta introdotto presso popoli abituati a
civili condizioni di vita, alla libertà politica, a un relativo benessere economico,
e presto anche quanti in quel paesi avevano accolto lietamente la
trasformazione si accorsero che l'abolizione del cosiddetto «sfruttamento
capitalistico» non aveva portato loro il paradiso bensì l'inferno in terra.
Ma coi governi Quisling, istituiti dal russi e sostenuti
dalle loro divisioni corazzate, il tentativo di scrollarsi il giogo dal collo
esigeva un coraggio rasentante la follia, quale dimostrarono nell'autunno del
'56 gli Ungheresi.
L'infelice esito della guerra, dalla quale soltanto il
bolscevismo usci avvantaggiato, diede alla Russia diritto di cittadinanza
nell'ONU come a un paese civile tra paesi civili, le conferì un ruolo
diplomatico e un posto eminente nei consessi internazionali come se essa e i
popoli liberi parlassero un medesimo linguaggio; ma ciò non è se non una
finzione imposta dalla necessità, poiché la Russia, se fu uno Stato
relativamente civile al tempo degli Zar, non lo è più dopo la rivoluzione
d'ottobre, come sa chiunque l'abbia veduta con occhi obbiettivi. Per citare un
fatto tra mille, quella che i nostri comunisti chiamano l'universale civiltà di
domani avente in Mosca il suo luminoso centro d'irradiazione, è la civiltà che
trasforma le cattedrali in musei antireligiosi, ove i maestri accompagnano le
scolaresche per preservarle dalla contaminazione religiosa; e questo
programmatico ateismo di Stato basta da solo a escludere moralmente quel paese
dal consorzio dei popoli civili. Manca tra esso e gli altri quella intrinseca
omogeneità spirituale che rende possibile la reciproca comprensione e fecondo
il dialogo.
L'episodio ungherese ha dimostrato a tutti ciò che
molti utili idioti negavano rabbiosamente quando lo sentivano affermare da noi:
l'incapacità del comunismo a conquistare spiritualmente un popolo civile.
Costoro hanno toccato con mano che se operai e contadini, i quali dovrebbero
esserne i beneficiari, se i giovani che a causa dell'età non conobbero nulla di
diverso, lo respingono, la condanna del comunismo è totale.
Ciò non toglie che rispetto al popoli i quali, come
l'italiano, non lo hanno sperimentato esso conservi ancora forza suggestiva e
capacità di proselitismo. Una propaganda che fa leva sulle più basse passioni
umane avidità, invidia, odio contro chi ha maggiori agi - e le ricopre con la
maschera della «giustizia distributiva», troverà sempre seguaci in un ambiente
sociale che ignora il dopo; e se la Russia in una eventuale prova di forza non
può contare sui « satelliti », può però contare sulle sue quinte colonne presso
i paesi occidentali. Della «crisi» della quinta colonna italiana bisogna
rallegrarsi moderatamente, perché è vero che il P.C. viene abbandonato da
alcuni iscritti a cui i fatti d'Ungheria hanno aperto gli occhi, ma queste
perdite marginali rendono più compatto il nucleo del partito. D'altronde i
transfughi affluiscono presso i cugini, e comunismo e socialismo non sono che
due diversi stati febbrili della stessa malattia. L'Italia ha ancora da
cominciare a guarire dalla scarlattina rossa, e la bianca anemia governativa
non è fatta per risanarla.
Sul piano politico e istituzionale l'unica valida
antitesi del comunismo è la Monarchia.
Già nel secolo scorso i teorici del marxismo videro
nella soppressione della Monarchia la condizione non sufficiente, ma
necessaria, a un successivo avvento del comunismo. La rivoluzione del terzo
stato, portatrice del regime repubblicano, era per essi la necessaria
introduzione alla rivoluzione del quarto stato, portatrice del regime
comunistico; e la repubblica borghese costituiva il ponte di passaggio alla
repubblica proletaria.
Giusta intuizione, confermata dall'esperienza storica.
Per non giungere su quella riva bisogna restare di qua dal ponte, bisogna
restare alla Monarchia, la quale è per assunto la naturale custode dei valori
morali e religiosi di un popolo e quindi è organicamente incompatibile con la
concezione marxistica che fa della sola economia il destino dell'uomo e
considera derivazione o maschera di quella tutto ciò che si chiama vita
spirituale.
In questo caso il fatto istituzionale è l'indice d'un
clima, d'una mentalità che non ammette usurpazioni della materia sullo spirito.
La Monarchia non disconosce il dato economico ma lo
tiene, per usare un'espressione dantesca, «dentro a sua meta»; essa accoglie
ogni reale esigenza di giustizia sociale per il fatto stesso che sua mira
costante è il bene generale e come una madre guarda con più amore ai figli meno
agguerriti contro le difficoltà del vivere; e in quanto libera da ogni spirito
di parte e da ogni condizionalità di interessi particolari essa è il supremo
centro ordinatore, moderatore ed equilibratore delle forze esistenti in un
paese, che tutte convoglia appunto verso il bene generale.
Col principio di una autorità superiore e legittima
derivata dall'Alto e riconosciuta dal basso la Monarchia possiede una
creatività morale che è sua propria e peculiare, poiché per essa, a differenza
degli altri sistemi, la storia non può trovare il suo senso se non nell'etica,
e con ragione i comunisti, i quali cercano quel senso' nell'economia, sono i
suoi nemici irreducibili.
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