di Aldo A. Mola
«Vogliamo tutto e subito!». Oppure: «Questo mai e poi mai!». Sono due malattie infantili della Nuova Italia. Recidivanti.
Fanno parte dell’«Anomalia italiana» indagata da Fabrizio Cicchitto. L’intera storia, del resto, e non solo quella italiana, è un cimitero di tragedie scatenate dalla miscela esplosiva di esaltazione mistica e di avventurismo criminale.
A prima vista, non sempre è facile distinguere il profeta dall’arruffapopoli. Solo il tempo separa la pula dal chicco. Talvolta anche l’eroe di buon cuore scatena il finimondo e va fermato, costi quel che costi, perché una cosa è lo Stato, un’altra la ridda degl’impulsi particolari. Cade a proposito il 150esimo della spedizione che nel luglio 1862 Giuseppe Garibaldi intraprese dalla Sicilia per abbattere Pio IX, il papa-re. Sotto il profilo militare, quell’avventura fu una colossale sciocchezza. Era del tutto improbabile marciare dalla Calabria a Roma con bande improvvisate e bisognose di tutto, in territori impraticabili e sconosciuti. Fatalmente
i garibaldini sarebbero apparsi non patrioti ma briganti, come era accaduto a Carlo Pisacane nel 1857. Peggio
ancora, lo avesse voluto o no, Garibaldi avrebbe innescato la rivolta dell’intero Mezzogiorno. In nome di che cosa? La repubblica? Era il primo a non crederci. Proprio nel luglio 1862 il neonato regno d’Italia venne riconosciuto dall’Impero di Russia e dal regno di Prussia a patto che concorresse alla pace europea. Il governo di Torino era già alle prese con il «brigantaggio» (sic) che nell’ex Regno delle Due Sicilie
sommava resistenza borbonico-papalina e rifiuto dello Stato moderno, che impone tasse e leva militare in cambio di sicurezza e opere pubbliche. Dalla proclamazione del regno (14 marzo 1861) in tante plaghe della Nuova Italia il governo fece in un quinquennio quanto Casa Savoia aveva fatto in secoli di «bonifica» dei suoi antichi domini per portarli al livello degli Stati più progrediti d’Europa.
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