Elena
Aga Rossi ricostruisce le vicende della Acqui depurandole dalla retorica
"resistenziale"
Francesco
Perfetti
Sabato
10 dicembre 2016
La
notizia della firma dell'armistizio giunse a Cefalonia ai militari della
Divisione di fanteria Acqui, comandati dal Generale Antonio Gandin, nel tardo
pomeriggio dell'8 settembre 1943 grazie a una intercettazione della radio delle
Nazioni Unite.
Fu
accolta con sentimenti contrastanti che viravano dallo stupore al dispiacere
per la resa e, quindi, per la sconfitta, fino alla gioia legata all'illusione
che la guerra fosse finita. Dopo qualche giorno di indecisioni
sull'atteggiamento da assumere, consegnare le armi ai tedeschi o rifiutarsi e
resistere all'ultimatum dell'ex alleato, i militari della Acqui furono
impegnati, a partire dal 15 settembre, in furiosi combattimenti che si
conclusero con la vittoria tedesca. E, soprattutto, con l'eccidio della Divisione,
una vendetta sanguinosa destinata a fissarsi nella memoria collettiva come uno
degli episodi più tragici del Secondo conflitto mondiale. A Cefalonia e a
Corfù, subito dopo la resa, vennero trucidati migliaia di ufficiali e soldati,
il numero esatto è controverso, senza alcun processo e in aperta violazione di
ogni norma di diritto nazionale o internazionale. Fu una strage pianificata e
del tutto ingiustificata voluta da Hitler come vendetta per il «tradimento»
italiano. L'enormità e la brutalità dell'eccidio, perpetrato al di fuori di
ogni convenzione internazionale, furono riconosciute al processo di Norimberga
dove il Generale Telford Taylor, pubblico accusatore, dichiarò: «Questa strage
deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è
una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli. Questi uomini indossavano
regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole
e le usanze di guerra. Erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a
considerazione umana e a trattamento cavalleresco».
Elena
Aga Rossi ha dedicato un volume dal titolo Cefalonia. La resistenza, l'eccidio,
il mito (Il Mulino, pagg. 256, Euro 22) proprio alla ricostruzione delle
vicende delle quali fu protagonista la Acqui, ma anche, e soprattutto, al
tentativo di spiegare i motivi per i quali, attorno al sacrificio dei militari
italiani, sia stata creata, attraverso aggiustamenti e falsificazioni, una
«memoria divisa». È un volume documentato e importante, per molti versi definitivo,
che resterà, per la ricchezza del materiale e la finezza e l'equilibrio
dell'indagine, un punto fermo nella storiografia.
La
«mitologizzazione» dei fatti di Cefalonia, come esempio paradigmatico di «uso
pubblico della storia», cominciò presto quando, già nell'ultimo scorcio del
1945, Ferruccio Parri, prima, e Alcide De Gasperi poi, celebrarono l'episodio
come prima manifestazione di «resistenza partigiana». Ciò avvenne perché, come
osserva l'Aga Rossi, quell'episodio di resistenza ai tedeschi, nel particolare
momento storico che si stava attraversando, poteva essere valorizzato dal punto
di vista politico: «poteva servire a riscattare, sia per fini interni sia sul
piano della legittimazione internazionale, l'immagine di un Paese allo sbando
che, per il modo in cui era avvenuta la resa, era stata prevalente fino a quel
momento». Così, da più parti, si cominciò ad avallare l'idea che la Divisione
Acqui fosse assimilabile a una «formazione partigiana».
La
ricostruzione in dettaglio dei fatti di Cefalonia sulla base di materiale
documentario, oltre che memorialistico, ha consentito ad Aga Rossi di mettere
in discussione, senza peraltro diminuire né il valore sacrificale dell'eccidio
né la sua portata storica, la vulgata propria della letteratura e della
pubblicistica della sinistra filo-resistenziale. In questa ottica, alla
studiosa gli episodi di ribellione o sedizione e il «referendum» stesso fra i
militari all'origine della decisione di combattere i tedeschi, non appaiono
affatto come un «gesto di eroismo resistenziale» come, in seguito uno dei
protagonisti, l'allora tenente Renzo Apollonio, avversario del Generale Gandin,
avrebbe cercato di avallare per presentare quello che accadde a Cefalonia come
una sorta di «atto primo» della rifondazione del Paese.
In
realtà, tra i militari di stanza a Cefalonia e a Corfù, ve ne erano moltissimi
che non pensavano affatto a una discontinuità storico-istituzionale, quasi un
nuovo inizio, della storia italiana post-fascista, ma, fedeli al giuramento
prestato al Re, guardavano alla Monarchia come alla istituzione che avrebbe
dovuto guidare e gestire la ricostruzione del Paese. Peraltro tra le molle che
spinsero i militari a non cedere le armi e a imbracciarle contro i tedeschi non
vi erano tanto «motivazioni antifasciste», quanto piuttosto ragioni diverse e
concorrenti quali il senso della dignità e dell'onore, la stanchezza della
guerra, la frustrazione e il desiderio di tornare a casa. È sintomatica, in
proposito, la testimonianza di un reduce riportata dall'autrice: «è ancora vivo
in noi il senso del dovere e dell'obbedienza e solo per questo abbiamo
imbracciato le armi contro i tedeschi, come d'altra parte le avremmo
imbracciate contro gli alleati se ci fosse stato ordinato. Quale interesse
possiamo avere noi ad affiancarci ai tedeschi o agli alleati quando è stato
firmato un armistizio senza condizioni, che ci umilia e ci avvilisce? In noi
tutti manca la volontà di combattere una guerra perduta ed è vivo solo il
desiderio di tornare al più presto in Patria». E, uno dei promotori della
resistenza ai tedeschi, il Capitano Amos Pampaloni, di convinzioni
antifasciste, avrebbe confermato in una delle sue ultime interviste: «Noi
pensavamo che cedendo le armi diventavamo prigionieri. E invece noi, con
l'armistizio, volevamo tornare in Italia. E questo è il concetto principale».
C'era, pure, nei soldati della Divisione Acqui, con molta probabilità, la
convinzione che gli anglo-americani, dopo lo sbarco a Salerno, sarebbero
intervenuti nelle isole Ionie e avrebbero dato man forte contro i tedeschi. Ciò
non avvenne anche perché gli alleati, impegnati nell'azione di consolidamento
delle loro posizioni nell'Italia meridionale, sopravvalutarono l'effettiva
capacità di resistenza delle truppe italiane. E non mostrarono, dopo tutto, un
vero interesse ad «appoggiare» o «incoraggiare» più di tanto la resistenza
italiana in vista delle decisioni postbelliche sull'assetto territoriale di
quelle zone. In un certo senso, come emerge dal bel lavoro di Elena Aga Rossi,
si potrebbe parlare anche di responsabilità sia del Governo Badoglio per gli
ordini impartiti di resistere sia degli Alleati per il loro cinismo.
L'eccidio
di Cefalonia, che secondo le stime di Elena Aga Rossi comportò il sacrificio di
oltre 2000 italiani morti in combattimento o fucilati dopo la resa, fu il più
brutale e imponente massacro compiuto dai tedeschi nei confronti degli
italiani. E questo fatto, combinato col momento nel quale esso fu perpetrato,
spiega perché esso sia diventato un vero e proprio «mito» funzionale alla
«ragion politica». Un «mito» che Elena Aga Rossi, liberandolo dalle pulsioni
ideologiche, ha riportato sul terreno concreto della storia. Rendendo, in tal
modo, giusto omaggio ai Martiri.
Ce n'ha messo di tempo la prof. Aga Rossi ma alla fine è addivenuta alle mie stesse conclusioni.
RispondiEliminaMeglio tardi che mai !
avv. Massimo Filippini
Orfano del magg. Federico fucilato a Cefalonia il 25/9/1943
http://www.politicamentecorretto.com/index.php?news=1824