Immagine, bellissima, dell'Associazione Nazionale Carabinieri Chiaravalle |
di Aldo A. Mola
Parole e fatti...
L'Italia non è “in guerra”. È alla prese con la
diffusione di un virus, classificato “covid-19”, in costante mutazione, di
ampia diffusione e a modo suo di normale letalità. Parlare di “stato di guerra”
è un errore grave, evitato (al momento) dal Governo in carica ma usato a
sproposito da altre “istituzioni”, che diffondono allarmi in un Paese di per sé
emotivo, superstizioso, incline a informarsi sui “siti” anziché da fonti ufficiali,
possibilmente attendibili. Le parole pesano. Parlare di “guerra” per
un’emergenza sanitaria è mancanza di rispetto nei confronti della Guerra vera,
quella che anche oggi viene combattuta in tanti Paesi dai confini artificiosi e
labili. Gli italiani ricordano i bombardamenti su Sarajevo? Le centinaia di
bombardieri in volo dal suo territorio per annientare vite a pochi chilometri
dai suoi confini? Le stragi per motivi etnici e religiosi a due passi
dall'ultima “apparizione della Madonna”?
Che cosa ha a che fare la “crisi” del covid-19
con la tragedia dell'Afghanistan, dell'Iraq, della Siria, del Vicino Oriente,
della Libia? Guerra non significa essere costretti a stare in casa, in
condizioni spesso insostenibili come oggi accade per milioni di italiani.
Guerra vuol dire non sapere dove scappare dai bombardamenti, vedere le città
sventrate, i villaggi più sperduti spazzati via in pochi minuti da missili e i
loro abitanti annientati col napalm, mitragliati dall'alto mentre cercano
scampo, feriti senza soccorsi, cadaveri insepolti. La fame. La disperazione. La
Guerra è Guerra.
Evocarla a sproposito è errore grave, non solo
linguistico ma di Filosofia della Storia e di Politica. Se un giorno mai vi
fosse davvero bisogno di parlare di Guerra quale termine bisognerebbe usare?
La prima regola, dunque, è misurare le parole.
Ogni parola rappresenta un fatto. Lo insegnò Tommaso d'Aquino ottocento anni
orsono. Diversamente è vaniloquio, deformazione della realtà, inganno, sia
voluto, sia per retorica vanesia.
Alzare al massimo il volume delle parole
ottunde la sensibilità, fa perdere il contatto con la realtà. Inchioda al
presente e fa scordare quanto è avvenuto il giorno prima. L'informazione non è
succuba del chiasso, non canta dai balconi, non sventola bandiere, non
sguinzaglia gabellieri e delatori a caccia di chi senza nuocere a nessuno
prende il sole in perfetta solitudine, lontano dal frastuono di “grida” tardive
emesse a singhiozzo. L'informazione non cerca consensi. Recupera le tessere
disperse del mosaico quotidiano e ricompone la storia, giorno dopo giorno.
Usare termini sbagliati conduce a decisioni
inspiegabili. Fra queste una rimane senza risposta: perché impedire ad abitanti
non contagiati, non in quarantena e debitamente attrezzati di trasferirsi nelle
seconde case (ovunque le abbiano) così allentando il sovraffollamento delle
aree urbane?
A quanti parlano a vanvera di guerra vanno
ricordati gli “sfollati” ai tempi della Guerra vera, che picchiava soprattutto
sulle aree molto antropizzate e industriali.
Sonnambuli di ieri...
Quanto è avvenuto in questi mesi evoca, ma
molto molto da lontano (si parva licet componere magnis,
dicevano i Romani), l'inizio della Guerra dei Trent'anni cominciata tra fine
luglio e i primi d’agosto del 1914. Imperatori, re, presidenti di repubbliche,
capi di stato maggiore di terra e di mare, governi, scrittori, sociologi,
giornalisti tuttologi, cronisti e poetucoli a noleggio (un tanto la quartina,
come un famelico Vate, foraggiato dal proprietario-direttore di un famoso
quotidiano milanese...) sapevano che le grandi potenze erano armate sino ai
denti e ogni anno accrescevano la loro capacità distruttiva. Nulla di nuovo.
“Sudate, o fochi, a preparar metalli” aveva scritto nel 1629 il giurista,
diplomatico e poeta bolognese Claudio Achillini (1574-1640) per incoraggiare
Luigi XIII di Francia a invadere la pianura padana. Era l'anno della Peste
descritta da Manzoni nei Promessi sposi.
Malgrado il fervore guerrafondaio e la gara a
chi varava corazzate più invulnerabili, produceva cannoni più rapidi e dalla
gittata più lunga, mitragliatrici più micidiali, fucili più precisi e persino i
primi velivoli, a inizio Novecento l'Europa era adagiata tra le piume della
Belle Epoque: lusso, divertimenti, viaggi, alfabetizzazione accelerata delle
masse, progresso in ogni aspetto della vita quotidiana, riscaldamento e
illuminazione elettrica delle abitazioni, acqua corrente, igiene personale.
Povero professore, celebre ma senza proventi d'autore, quando si trovò a
ricevere in casa l'ambasciatore di Svezia, Carl Bildt, che gli annunciava il
Premio Nobel, per non sfigurare Giosue Carducci affittò un paio di lampadari.
Ne andava del decoro dell'Italia, che procedeva a piccoli passi. Più
dell'attuale, svagata e smemorata, ignara di sé ma misteriosamente corriva a
svacanzare nelle isole più remote.
In “1913. L'anno prima della tempesta” (ed.
Marsilio) Florian Illies ha narrato giorno per giorno quell'“Europa in pace”,
colta, gaudente e tuttavia inquieta. Nel dicembre Oswald Spengler avvertì che
essa si stava spogliando “di tutto: civiltà, bellezza, colori”. Lo stesso mese
David Herbert Lawrence, il cui “Figli e amanti” riscuoteva straripante
successo, scrisse “La mia grande religione è la fede nel sangue, nella carne,
in quanto più saggi dell'intelletto. Ciò che il nostro sangue sente, crede e
dice è sempre vero”. Il sano razionale positivismo ottocentesco cedeva il passo
allo “slancio vitale”, al volontarismo. La scienza a rigurgiti di misticismo.
Matisse e Picasso cavalcavano insieme. I rimatori si ergevano a profeti, mentre
veniva dimenticato l'ungherese Ignace Semmelweiss (1818-1865) passato per pazzo
perché diceva ai chirurghi di lavare ben bene le mani prima durante e dopo gli
interventi per scongiurare la setticemia. Anche in Italia spopolavano parolai
come Mario Morasso e Filippo Tommaso Marinetti, inneggiante alla guerra, “sola
igiene del mondo”.
La storia sembrava correre su binari sicuri.
Ogni tanto una galleria, una guerra coloniale, completa di stragi efferate e di
orrori, ma là, lontano, ai confini del mondo. L'“Illustrazione italiana”,
rivista di bellezza editoriale inarrivabile, alternava immagini festose ad
altre orripilanti. Così si pensava di esorcizzare il Male, di allontanare il
“guerrone”, incubo di papa Pio X, come ha scritto il suo biografo Gianpaolo
Romanato.
Ma quei costosi binari (accade anche oggi) a
volte avevano scambi difettosi. Nel 1914, come negli esperimenti in uso nelle
aule scolastiche di fisica e chimica, il “precipitato” si cristallizzò. Un mese
dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo il 28 giugno (né
il primo né l'ultimo di una testa coronata o di un suo erede), gli Stati si
arroccarono, i governi si minacciarono e in pochi giorni scattarono uno contro
l'altro, anzi uno prima dell'altro, nel timore di perdere il vantaggio per
vincere la “guerra lampo”. Gettarono nella conflagrazione tutta la propria
capacità offensiva e difensiva. Malgrado decenni di retorica pacifista il
sentimento dominante risultò l'odio. I “popoli” scoprirono di doversi odiare a vicenda,
per motivi in massima parte ignoti alla maggioranza. Per combattersi a quel
modo bisognava odiarsi. Una guerra infame, come scrisse Luigi Cadorna, massimo
stratega europeo. Tra le migliaia di episodi spicca la leggendaria “battaglia
dei morti viventi”: il centinaio di russi che il 6 agosto 1915, sopravvissuti
alle bombe al cloro dei tedeschi, con ferite aperte appena bendate e sputando
sangue e pezzi di polmone, travolsero 7000 nemici assedianti la fortezza di
Osowiec.
Pochi uomini politici (fu il caso dell'italiano
Giolitti) capirono che la guerra sarebbe durata anni e avrebbe risucchiato le
risorse del Paese per almeno una generazione. Ma non furono compresi. Il
socialista francese Jean Jaurès, contrario alla guerra contro la Germania non
perché filotedesco o traditore della patria ma convinto che l'Europa potesse
risolvere le tensioni antiche in una visione continentale dei problemi locali,
fu assassinato. I dissenzienti vennero isolati come appestati. Romain Rolland
si giocò la vasta e meritata popolarità perché non bruciò incensi a Marte e a
Bellona.
Cent'anni dopo la storiografia ha fatto passi
avanti nello studio della “catena di comando”, ma nessuno nella comprensione
del conflitto che sconvolse irrimediabilmente l'Europa. L'opera più meditata rimane
“I sonnambuli. Come l'Europa arrivò alla Grande Guerra” di Christopher Clark
(ed. Laterza): una “non spiegazione”. La storia procede a zig-zag, sfugge di
mano. Clio danza avvolta nei veli delle molteplici interpretazioni che
disputano sulle “ragioni” delle sue venture.
...e di oggi
L'incertezza dinnanzi a quel passato, alle sue
possibili cause e concause (Sidney Sonnino, che certo non era un'aquila, una
volta mestamente abbozzò che forse tutto era dovuto al passaggio di una cometa:
annunzio di pestilenze anziché di vera Luce o, si diceva, di Epifania) ha poco
da spartire con la condotta dei governi odierni a cospetto della diffusione del
Covid-19.
Travolti e sempre più infastiditi dalle misure
restrittive delle loro libertà elementari imposte dai governi, i cittadini sono
storditi. Motivo in più per fare sintesi degli eventi nella loro arida
sequenza: la cronologia è l'attaccapanni della storia, che non è profezia del
passato ma ricostruzione dei fatti nella loro successione. Il meno che si può
dire a ricapitolazione della tempesta in corso è la constatazione della
manifesta inettitudine mostrata dai governi dei principali Paesi europei
dinnanzi alla prevedibilissima diffusione del contagio. Se le parole hanno un
senso, alcuni di essi si sono condotti da “untori di Stato”. La storia dirà se
e quanto lo abbiano fatto di proposito, per miope calcolo o per colpevole inettitudine. O semplicemente nel
timore dell'opposizione, che è sempre più vociante e temibile della “maggioranza
borbottante” disposta ad assecondare provvedimenti razionali.
I fatti, comunque, sono sotto gli occhi.
Ridotti all'osso, valgano quattro “casi di scuola”.
In Francia il presidente tuttofare Emmanuel
Macron ha introdotto le prime modeste misure anti-contagio solo dopo aver fatto
“celebrare” le elezioni amministrative nelle quali i suoi candidati di fiducia
sono rimasti travolti. A epidemia conclamata ha rinviato il ballottaggio a data
incerta. In un paese per mesi squassato dai “gilets gialli” Asterix tace. In
Francia si ammalano e muoiono come in Italia, sino a poco prima irrisa dai
“cugini d'Oltralpe” in modi arroganti e indecenti. Lì il governo tecnocratico
ha mostrato tutte le sue rughe.
In Spagna il vanesio Sánchez ha caldeggiato la
superflua festa dell'8 marzo quando ormai il contagio dilagava. Un esempio
clamoroso di imprevidenza e cecità. Il vicepresidente, in quarantena, ha
partecipato al consiglio dei ministri. L'imprevidenza del governo di Madrid è
colpevole.
In Gran Bretagna (che ormai non fa più parte
dell'Unione Europea) Boris Johnson pensava di pascere a piacer suo le pecorelle
inglesi, ma il gregge, poco rassegnato al buon pastore, dalla Scozia al Galles
gli ha imposto misure non troppo lontane da quelle italo-franco-iberiche.
L'“Inghilterra” è molto più fragile, anzi friabile, ora che deve fare da sé.
Che cosa le rimane aldilà della Regina e del Consorte Filippo di Edimburgo non
proprio adolescenti?
La Germania rimane un caso a sé: uncinata non
solo dai neonazisti ma dalla frammentazione dei suoi poteri e dal manifesto
declino di Angela Merkel a due mesi dall'inizio del contagio non sta prendendo
misure adeguate.
A sua volta, con delusione dei suoi ammiratori
nostrani, il presidente degli USA Donald Trump sul coronavirus in pochi giorni
ha detto tutto e il contrario di tutto, quasi ventriloquo di uno dei tanti siti
che lo imputano a un complotto di Spectre (manca solo Licio Gelli) per
allontanare da sé l'addebito più ovvio: è un sonnambulo, come Macron, Sánchez e
i tanti altri che, a contagio ormai conclamato, o non hanno preso precauzioni
personali o non ne hanno imposte ai propri “vicini”. È il caso di Alberto II di
Monaco, “positivo” giorni dopo che il morbo aveva contagiato il suo primo
ministro, il vescovo e altri molti in uno “stato” che sembra fatto apposta per
la propagazione vertiginosa di un qualunque raffreddore.
L'Italia s’è desta?
L'Italia, per ora, è un caso a sé. Allertata
per prima nell'Europa centro-occidentale dall'evidenza di malati, ha fatto e fa
i conti con la sproporzione tra la sua volontà di circoscrivere la diffusione
del contagio e la modestia dei mezzi disponibili anche in regioni che vantavano
primati indiscutibili. Il mancato tempestivo approvvigionamento di “mascherine”
lascia sconcertati. Virologi a parte, non era difficile intuirne l'urgenza e la
quantità necessaria.
Senza nulla togliere ai meriti del governo, due
constatazioni s’impongono. Il potere politico si è affidato “toto corde” alla
scienza, ma questa non si è mostrata affatto unanime, né nell'analisi né nella
terapia. Gli sforzi si sono concentrati sulla prima linea, ma con mezzi
inadeguati, confidando che la tempesta presto sarebbe mutata in acquazzone e
poi in pioggerellina di marzo. Di lì la propensione, ancora perdurante, a
provvedimenti circoscritti nello spazio e nel tempo, “salvo intese”, cioè con
la riserva di proroghe, senza indicazione attendibile del futuro superamento
dell'“emergenza”. Assillato dall'opposizione e dai “sondaggi” il governo si è
occupato più della trincea avanzata (vulnerabile, come sempre accade a chi sta
in prima linea) che delle seconde e terze linee e della grande riserva: la
pazienza degli italiani. Anche questo è un motivo ulteriore per evitare di
parlare di “guerra”. Quando proprio si è spossati, per uscire da un conflitto
al nemico si chiede un armistizio. Ma non lo si può chiedere al covid-19, che
non fa indice conferenze stampa. Com’è venuto, se ne andrà. Come e quando non
si sa.
La frontiera è la guarigione. Potere politico e
scienza sono impegnati a raggiungerla. Vi sono però “terreni” che vanno governati
con polso e con chiarezza: il rapporto fiduciario tra cittadini e
amministrazione delle città e il sistema scolastico-educativo. L'osservanza dei
Decreti del presidente del Consiglio dei ministri non può essere abbandonata
all'arbitrio di “poteri” locali e dei loro “agenti” se non rischiando di
infrangere il già vacillante rapporto di fiducia dei cittadini verso certe
“autorità” e di scatenare i peggiori istinti di rivolta contro irruzioni
pretestuose nella loro innocua quotidianità. Occorrono precisazioni ulteriori,
ferme, precise e valide erga omnes (“agenti” inclusi) da parte dell'Esecutivo,
nell'incalzare della “bella stagione” e nella notoria inadeguatezza della
capacità abitativa nazionale ai bisogni elementari dei suoi utenti.
Quanto al sistema scolastico, tutto si può fare
tranne che dare l'anno per concluso e valido con una “promozione” generalizzata
senza alcuna verifica dell’effettiva trasmissione del sapere. Tanto vale
dichiarare l'inutilità dell'istruzione pubblica e dei suoi diplomi. Aveva
dunque ragione Luigi Einaudi a chiedere l'abolizione del valore legale dei
titoli di studio. In settantacinque anni la Repubblica non gli ha dato retta.
Ci voleva ora il covid-19 per dimostrare che egli era nel giusto?
Altrove il combinato disposto potere-scienza ha
dato segni manifesti di sonnambulismo. Nel Paese Italia, che al momento si è
mosso molto meglio degli altri, è il momento di abbassare i toni e di assumere
misure accettabili e di lungo periodo: di ritrovare quel “senso dello Stato”
che da troppo tempo si è perso a beneficio dei “sondaggi”, della ricerca di
consensi. Il Governo di un grande Paese non cerca applausi. Non imita “il
medico pietoso” che “fa la piaga cancrenosa” . La cura. E così avrà la
gratitudine dei posteri.
Aldo A. Mola
Nessun commento:
Posta un commento