NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 24 marzo 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 2


Ben pochi speravano che i tedeschi si acconciassero - al nostro armistizio e filassero via per il nord lasciandoci tranquilli nella recuperata pace. Ma in sostanza quando si giunse al fatale otto settembre nulla o assai poco era stato predisposto dall'alto comando per fronteggiare il nuovo nemico. La guerra non era stata mai ben condotta perché non era sentita nel paese e non era sentita nell'esercito. Ma dopo il 25 luglio si verificò nel meccanismo delle Forze Armate qualche cosa di più di un arresto. Vi fu vera e propria frattura tra il passato e il presente. Tutti avvertirono che si andava avanti per forza d'inerzia. Nella svagata e convalescente atmosfera di quell'estate (tutti credevano di essere usciti da un incubo e di procedere verso tempi migliori mentre in realtà tutti precipitavamo verso un più profondo abisso) i soldati pensavano che la guerra era ormai finita e che era giunto il momento della distensione dopo tanti anni di esasperata tensione. Invece le prove più dure dovevano cominciare.

Cominciarono intanto gli anglo-americani a inasprire la guerra. Dopo pochi giorni di attesa e di riserbo, la voce di Londra cominciò a pronunciare aspri attacchi alla Monarchia accusandola di continuare la politica di Mussolini. Sin dall’agosto (appena due settimane dopo la caduta di Mussolini) nostri emissari entra­vano in contatto con diplomatici e ufficiali alleati ep­pure ciò non bastava.

Forse per mascherare le trattative, le polemiche radiofoniche anglo-americane divenivano più aspre. Si è affermato che gli italiani della radio lon­dinese o i vari Sprigge, esperti di cose italiane, insinuas­sero dei dubbi sulla linea di condotta del nostro Gover­no. Un giovane consultore della democrazia cristiana ha anche stampato che da esponenti del partito d'azione si richiese il bombardamento delle città per costringere il Governo a cedere e a seguire la volontà del paese. Verrà tempo in cui tutto ciò sarà chiarito e se questo delitto contro la Patria è stato compiuto esso non gioverà certo alla causa di quegli arrabbiati.

Per tutto il mese di ago­sto e ancora nella prima settimana di settembre sulle nostre più illustri città si abbatté la furia dei bombar­damenti nemici. Napoli, Torino, Cagliari, Genova, Ro­ma, Viterbo, Grosseto, Benevento, Foggia, Taranto Ter­ni, Bologna, Civitavecchia, Bolzano, Rimini, Capua, Ca­tanzaro, Frascati, Padova, Vicenza e Milano: tutte le nostre città furono colpite con bombardamenti indiscri­minati che uccisero diecine di migliaia di italiani senza nessuna necessità bellica. Erano, quei morti, dei cuori che speravano da alcune settimane che il loro martirio stesse per finire e fervidamente credevano nelle promesse di radio Londra pur mentre piovevano le bombe stermina­trici. La guerra ha visto molte cose tristi e inutili, ma nessuna più triste e più inutile dei bombardamenti delle città italiane nell'agosto del 1943. Il nostro Governo era più che deliberato, ansioso di uscire dalla guerra. 

Col­pendo in quel modo le nostre città e le nostre popolazioni gli anglo-americani non giovavano alla propria azione, ma all'azione tedesca perché essi indebolivano quell'Ita­lia che doveva combattere contro i tedeschi e non contro di loro. L’Italia non aveva mai subito tanto scempio nei secoli più oscuri e più dolorosi della sua storia. Eppure nella sua quasi generalità la popolazione italiana conservò l'odio per i tedeschi e la speranza e la fiducia ne­gli anglo-americani. L'Italia aveva la colpa di tenere ad­dosso «un larvato Governo fascista» secondo la radio di Londra che esaltava a metà d'agosto il buon lavoro compiuto due giorni innanzi sul centro di Milano con 2000 tonnellate di bombe che avevano mandato in ro­vina la Scala, Palazzo Marino e Palazzo Reale. 
E nes­suno rifletteva, né italiano, né inglese che quel Governo era già spiato e guardato a vista da nugoli di spie tede­sche e le divisioni corazzate germaniche scendevano ra­pidamente dal Brennero e tra poco, sorpresi e traditi in tutti gli angoli del territorio balcanico, e di Francia e d'Italia, centinaia di migliaia di soldati italiani avreb­bero" preso la via dei campi di concentramento e di ster­minio del Reich. Nessuno prevedeva che di li a poco nella sola isola di Cefalonia novemila soldati italiani sa­rebbero morti in 12 giorni di combattimento contro il tedesco, senza ricevere dai dominatori dell'aria e del mare, né un aeroplano, né una nave in loro soccorso. Ah, come doveva essere amara la prima lotta per la li­bertà. Erano i giorni in cui Fiorello La Guardia sermo­neggiava di repubblica e di monarchia in Italia e invitava a cacciare il coltello nella pancia dei soldati tede­schi. 
Non neghiamo gli errori del Governo Badoglio tra il 25 luglio e l'8 settembre, ma bisogna riconoscere che da tutti, all'interno e all'esterno, gli fu resa la vita ama­ra. I tedeschi lo consideravano il Governo del tradimento e preparavano il suo castigo; gli inglesi e gli americani un «larvato governo fascista »; i partiti italiani un Go­verno debole e indeciso che non poteva condurre la guer­ra, ma non poteva neppure fare la pace. Ma fare la pace o almeno l'armistizio il Governo voleva con tutta  la sua forza. E ad affrettare le sue decisioni, ad accogliere le richieste nemiche che ripetevano sempre più ru­demente l'intimazione di Casablanca (resa senza condi­zioni) lo sollecitavano tutti i partiti del Comitato di li­berazione.
È stato spesso notato che i Governi pagano i loro atti virtuosi a prezzo molto più caro dei loro misfatti. Così il trattamento riguardoso usato a Mussolini (in Ger­mania o in Russia si sarebbero sbarazzati di lui in modo molto sbrigativo) costò al Governo e alla Monarchia assai più di tutti gli errori veri o presunti.
Cominciò dunque Badoglio le trattative, né facili, né rapide per l'armistizio e non vi fu nessuno che disap­provasse il suo atto. Tutti anzi lo incoraggiavano ad af­frettare. Ma questo non dipendeva da lui. Perfino Mus­solini nell'esilio di Ponza diceva ai carabinieri: «occorre sganciarsi dai tedeschi al più presto possibile. Questa é la sola salvezza d'Italia» (1). Una volta iniziate le trat­tative il Governo del Re non era più padrone della scelta del tempo. Gli anglosassoni si riservavano di annunciare l'armistizio alla data per essi più opportuna. L'armisti­zio fu firmato il tre settembre in Sicilia. La data prescelta dal Comando alleato per annunciarlo fu quella dell'otto settembre.
Tra l'otto e il dieci settembre l'Italia poteva cacciare i tedeschi almeno fino alla linea gotica e guadagnare sul campo, prontamente il suo brevetto di eroina della libertà, il suo «biglietto di ritorno». Subì, invece, la più nera disfatta di tutta la guerra e fu calpestata e spo­gliata per circa due anni dall'invasore tedesco.
Poiché questo è avvenuto, è naturale che l'opinione pubblica cerchi un responsabile nel Governo in carica e al disopra del Governo nello stesso capo dello Stato. Se questo fosse il giudizio dell'uomo comune il quale vede la sua città e la sua casa invasa, il suo campo di­strutto, i suoi alberi tagliati, la stessa terra sua e dei suoi avi combusta (quella terra che — scriveva Alvaro in quei giorni — porta il pane e i frutti e l'olio e il vino, gli alimenti di questo popolo sobrio) se questo è il giu­dizio dell'uomo comune si potrebbe anche accettare. La responsabilità è come un fatum sospeso sul capo di chi sta più in alto di tutti e come tale ha tutti i poteri, tutti i diritti ma anche tutti i doveri. Ma così non è. Il giu­dizio negativo, amaro, gonfio d'ira e di rimprovero è di quella esigua minoranza che professava da anni l'odio all'istituto monarchico: gli insulti alla dinastia vengono da quei fuorusciti che già attesero dalla guerra etiopica l'imbottigliamento delle navi italiane nel mar Rosso; mi­gliaia di nostri marinai in fondo al mare, l'isolamento e la sconfitta della Patria. Essi vivevano all'estero alimen­tati dai fondi dell'antifascismo internazionale e sogna­vano la rovina del paese. Appena cessata, con loro scor­no quella folle speranza, essi: si lanciarono nella guerra di Spagna per sfogare contro i loro fratelli l'acre odio della guerra civile. Essi non erano per la Repubblica di Mazzini, ma per la Repubblica rossa di Azaña.

PAOLO MONELLI : Roma 1943, pag. 229.

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