NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 4 gennaio 2018

Armando Diaz (1861-1928) Il Duca della Vittoria - II parte

Forte della sua lunga esperienza di ufficiale di stato maggiore e di una visione più aperta delle necessità del conflitto, Diaz riorganizzò il Comando supremo, valorizzando il ruolo del sottocapo Badoglio e del generale addetto Scipione Scipioni (1867-1940), riordinando il lavoro degli uffici ed attribuendo ad ognuno di essi responsabilità definite e concrete; tutto ciò senza clamore né scosse, conservando anzi quasi tutti i collaboratori di Cadorna e favorendo la nascita di un clima di squadra nel rispetto dei diversi compiti. Il nuovo Comando Supremo curò particolarmente lo sviluppo dei servizi informativi e potenziò il ruolo degli ufficiali di collegamento, che dovevano dargli notizie dirette sulla situazione dei vari fronti, senza però scavalcare i comandi d’armata, con cui furono curati rapporti molto stretti, in modo da superare distacchi e incomprensioni. Particolarmente felice fu la collaborazione con Badoglio (dell’altro sottocapo, Giardino, il Diaz si era elegantemente liberato promuovendolo a comandare l’armata del Grappa), che si occupò soprattutto delle operazioni e del coordinamento tra gli uffici del Comando supremo, alleggerendo il Diaz di buona parte del lavoro di routine e conquistandone la piena fiducia (tanto che, come è noto, Armando Diaz ottenne per lui un trattamento di assoluto privilegio dalla ministeriale commissione d’inchiesta sul ripiegamento al Piave, che dovette rinunciare ad approfondire l’esame della sua condotta a Caporetto).
Ciò non significa che egli abdicasse alle sue responsabilità di comandante in capo, ma che, come richiedeva la complessità della guerra, sapeva valorizzare l’opera dei suoi collaboratori, delegando loro importanti compiti esecutivi, di preparazione e di controllo, riservandosi però la decisione finale e l’intervento personale nelle situazioni di emergenza.
Più che a Napoleone, modello inconfessato di tutti i comandanti della grande guerra, il Nostro può essere avvicinato a Dwight David Eisenhower (1890-1969), un altro comandante capace di affrontare la complessità della guerra moderna appoggiandosi sul lavoro del suo stato maggiore.
Sin dall’inizio del suo comando si era proposto di curare di persona i rapporti con il Re, il governo e il mondo politico; a ciò lo predisponeva la sua lunga esperienza prebellica e la sua convinzione della necessità di una collaborazione di tutte le energie disponibili. Con il Re, il Nostro ebbe contatti frequentissimi: si recava da lui a pranzo due volte la settimana e gli faceva visita anche più spesso quando c’erano novità.
Con Vittorio Emanuele Orlando si incontrava tre o quattro volte al mese, al Comando Supremo o a Roma, con lunghi colloqui che assicuravano unità d’azione nella difficile situazione.
Il Diaz aveva accolto senza obiezioni la costituzione di un Comitato di guerra di sette ministri, in cui i capi di stato maggiore dell’esercito e della marina avevano soltanto voto consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi a Roma, ministri e uomini politici influenti [in particolare Francesco Saverio Nitti (1868-1953), Ministro del Tesoro, che veniva dal suo stesso ambiente napoletano e molto si dava da fare per appoggiarlo], senza intromettersi nei contrasti interni alla maggioranza governativa, ma per illustrare le esigenze dell’esercito e il suo operato. Tutta questa disponibilità non implicava una eccessiva arrendevolezza alle istanze politiche: egli non discuteva il primato del governo e la necessità di un’ampia e continua collaborazione, anche per migliorare l’immagine del Comando Supremo dinanzi al mondo politico ed al paese, ma non accettava ingerenze nel suo campo di responsabilità, con un’interpretazione più elastica, ma non meno netta di quella di Cadorna, sulla distinzione di sfere tra potere politico e potere militare; come è noto, nel settembre 1918, egli respinse energicamente gli inviti di Orlando ad attaccare l’esercito austro-ungarico di cui si profilava la crisi, rivendicando a sé soltanto, la condotta delle operazioni, tanto da tenere inizialmente il governo all’oscuro della preparazione dell’offensiva cui si era infine deciso.
Anche con gli alleati franco-britannici ebbe buoni rapporti: non era sensibile come Cadorna alla necessità di una condotta unitaria della guerra di coalizione e rifiutò sempre di sferrare offensive senza altro obiettivo che l’alleggerimento indiretto del fronte francese, ma seppe dare un’impressione positiva di sicurezza e volontà di collaborazione e stabilire proficui contatti a livello degli Stati Maggiori.
L’altro grande e indiscusso merito del Diaz comandante in capo fu il suo fattivo interesse per le condizioni dei soldati.
In questo non era solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa che il collasso di Caporetto fosse in gran parte dovuto alla stanchezza fisica e morale dei combattenti, che molto avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le iniziative per il miglioramento del regime di vita dei soldati e per una propaganda articolata ed efficace. Un impulso decisivo, necessario per vincere le resistenze burocratiche a tutti i livelli, venne però dal Diaz medesimo, il quale fece quanto era in suo potere per assicurare ai soldati un vitto curato e regolare, turni sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto della vita e della salute anche in trincea (quindi alloggiamenti meno trascurati, qualche tentativo di igiene, un freno poi allo stillicidio di piccole e sanguinose azioni di scarso costrutto) e un’assistenza morale e politica non limitata alla pur benemerita attività dei cappellani.
I risultati non furono dappertutto uguali (la tradizione agiografica certamente ne sopravaluta l’effetto), ma furono avvertiti dalle truppe e accolti con favore.
Merito minore, ma non trascurabile, fu di saper evitare facili successi pubblicitari con l’ostentazione del suo interesse per i soldati: i suoi nuovi compiti gli impedivano di ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i soldati, se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto per l’ordinamento gerarchico dell’esercito lo indusse a limitarsi a dare le direttive generali che gli competevano, senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti.
Del resto tutto il suo stile di comando fu sobrio, come attestano i suoi proclami alle truppe.
Gli agiografi di Luigi Cadorna hanno posto in rilievo che fu l’accorciamento del fronte italiano (praticamente dimezzato con la ritirata sul Piave) a permettere al Diaz di assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di costituire quelle riserve a disposizione del Comando Supremo che negli anni precedenti erano state vietate dall’assillante esigenza di impiegare tutte le forze disponibili per guarnire il lunghissimo fronte.
Parimenti è stato fatto osservare che due altri vantaggi di cui il  Nostro fruì, ossia la forte produzione dell’industria bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell’Impero austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del suo predecessore.
Sono fatti indiscutibili (né li avrebbe negati il Diaz, che credeva fermamente nella propria fortuna, con qualche concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel 1918 il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell’Intesa; ma bisogna anche ricordare che dopo Caporetto la posizione strategica dell’esercito italiano era molto più delicata (mancava lo spazio per un’ulteriore ritirata, soprattutto perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è un fatto che la ripresa del paese e delle truppe fu assai più lenta e contrastata di quanto non voglia la leggenda patriottica, che vede Caporetto come un “colpo di sprone” al cavallo di razza in difficoltà.
Inoltre scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna aveva potuto attingere con relativa larghezza: il Diaz non avrebbe potuto affrontare una battaglia di logoramento, perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata alle armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto nella primavera del 1919.
In ogni caso ci sembra priva di senso la contrapposizione polemica tra la strategia offensiva di Cadorna e quella difensiva del Diaz: assai più che dalla personalità dei comandanti in capo, l’andamento della guerra era deciso dal concorso di molte e diverse circostanze (a cominciare dal comportamento del nemico); ed infatti l’asprezza dei contrasti personali non aveva impedito ad Antonio Salandra (1853-1931), a Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) e ad Paolo Boselli (1838-1932)  di condividere e appoggiare l’impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e il Diaz, dopo dieci mesi di piena collaborazione, si divisero nel settembre 1918 sull’opportunità dell’offensiva autunnale.
In sintesi, la scelta di una strategia difensiva era sostanzialmente obbligata fino al settembre 1918.
Merito del Nostro fu di condurla con intelligente fermezza e di approfittare del rallentamento delle operazioni e della disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l’esercito.
Fu certamente positiva la proclamazione dell’inscindibilità della divisione, pedina base della condotta del combattimento (così come il battaglione ad un livello inferiore); semmai la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era stata fatta nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare alla divisione ternaria (cioè su tre reggimenti di fanteria, anziché sui quattro che la rendevano assai pesante).
Positive furono anche la redistribuzione dell’esercito in sei armate di medie proporzioni e l’emanazione di nuove norme per le operazioni, che sulla base della dura esperienza prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le costose offensive dimostrative (anche se poi Armando Diaz  permise che, il 24 ottobre 1918, il generale Giardino lanciasse la sua 4ª armata in improvvisati attacchi contro le munite posizioni austriache del Grappa, risoltisi in un massacro di fanterie, e privo di risultati concreti).
Complessivamente insufficienti invece gli sforzi per un migliore addestramento delle truppe, anche perché all’efficienza degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra corrispondeva uno scadimento della media dei quadri inferiori, troppo giovani e inesperti.
Deludente infine l’esperienza del corpo d’armata d’assalto, che cercava di replicare su grande scala, senza un adeguato potenziamento dei mezzi offensivi, l’eccellente rendimento negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.
Quanto al governo dei quadri, la contrapposizione tradizionale tra i siluramenti indiscriminati del generale Cadorna e la gestione umana e ragionevole del generale Diaz non sembra felice.
Indubbiamente il primo non aveva avuto la mano leggera e nei molti esoneri da lui effettuati o avallati (217 generali, 255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si contano non pochi abusi o errori; ma l’eliminazione dei tanti ufficiali incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del conflitto era una necessità innegabile ed i suoi effetti furono in sostanza positivi, tanto che il Diaz ereditò alti comandi (generali e colonnelli) complessivamente all’altezza della situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli del 1915 e non inferiori a quelli francesi o inglesi.
Non ha quindi senso confrontare quantitativamente gli esoneri nei diversi periodi della guerra, perché avevano luogo in condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di alti comandanti disposti direttamente dal Diaz o da lui avallati non furono pochi, anche se meglio accolti dall’opinione pubblica.
In realtà la sua immagine tradizionale di comandante paterno e comprensivo è vera solo a metà: il suo fattivo interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina, né la sua consapevolezza della stanchezza delle truppe e della pesantezza dei sacrifici loro imposti comportava alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta.
Nell’ultimo anno di guerra i tribunali militari continuarono a lavorare con il ritmo e i metodi dei tempi di Cadorna (mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono reiterati gli inviti ufficiali a repressioni.

Un giudizio complessivo dell’operato del generale Armando Diaz come comandante in capo è certamente positivo.

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