A 90 anni dalla morte (Cavour, 17 luglio 1928) Giovanni Giolitti rimane lo
Statista eminente della Nuova Italia. Il trascorrere del tempo lo rende anzi sempre
più paradigmatico. Di famiglia borghese, orfano di padre a un anno, crebbe
vegliato dalla madre, Enrichetta Plochiù, e dai suoi quattro fratelli che,
scapoli, investirono sulla sua formazione e sulla sua ascesa al servizio dello
Stato, impersonato dal Re, Carlo Alberto di Savoia - Carignano (1831-1849). Due
degli zii di "Gioanin” erano magistrati (Melchior e Luigi); un terzo,
Alessandro, venne promosso generale per il valore mostrato nella battaglia di
San Martino (21 giugno 1859); il quarto, Giuseppe, medico, fu ripetutamente
eletto deputato di Cavour al Parlamento subalpino dal 1848. Melchior, di ampie
vedute liberali, fu azionista del giornale di Camillo Cavour, “Il Risorgimento’!
Il Risorgimento culturale e civile divenne la stella polare della vasta dirigenza
del regno di Sardegna, restaurato e ingrandito con la Liguria dopo l'età franco-napoleonica
(1814). Il nonno materno dello Statista, Giovanni Battista Piochiù, meritò la
Legion d’Onore da Napoleone. Magistrato, vedeva nell’Imperatore il "Genio del Mondo” (come scrisse
Hegel) che incarnava gli ideali più durevoli della Grande Rivoluzione, i
diritti dell’uomo e del cittadino, da riconquistare anche in Italia quale base
per l’unità.
A lungo non fu chiaro se questa dovesse tradursi in federazione degli Stati
esistenti, in "unione” presieduta nominalmente dal papa (come proponeva Napoleone III) o, come poi avvenne, in unificazione politica con le
insegne di Casa Savoia. Alla meta finale si pervenne con le difficoltà ora narrate da Nico Perrone in “Il processo all'agente segreto di
Cavour. L'ammiraglio Persano e la disfatta di Lissa” (Rubbettino).
Laureato a Torino in giurisprudenza a 18
anni, amato alla magistratura, sostituto procuratore del Re a 24, alto
funzionario dello Stato negli anni di Firenze capitale e “prestato” al
ministero delle Finanze, ove svolse delicati incarichi per Quintino Sella, nel 1882 il
quarantenne Giolitti fu nominato consigliere di Stato per decisione del presidente del governo, Agostino Depretis, massone per essere
eleggibile senza rischio di finire tra i pubblici dipendenti in eccesso sui
numeri di seggi all’epoca loro riservati. Eletto trionfalmente nel collegio Cuneo
I nell'ottobre di quell'anno, fu dichiarato ineleggibile dall’apposita commissione di verifica dei titoli. Si difese con abilità e nella primavera del 1883 venne convalidato. Critico nei confronti della costosa espansione in Africa, cui anteponeva la "colonizzazione interna’’ e la lotta contro la
rendita parassitica (soprattutto nel Mezzogiorno), nel 1889 Giolitti fu nominato
ministro del Tesoro (presto aggiunse le Finanze) nel governo presieduto dal siciliano
Francesco Crispi. Tra i più fattivi della storia dell’Italia unita, questo varò elettività dei sindaci e dei presidenti delle deputazioni provinciali, nuovo codice penale (con
abolizione della pena di morte), trasformazione delle"opere pie” in
istituti di pubblica assistenza, promozione di casse di risparmio e banche
popolari. Nel 1892 Umberto I incaricò Giolitti di formare il governo. Da presidente,
egli ridusse da sei a tre le banche ancora titolate a emettere moneta,
suscitando l’ostilità di opachi interessi, aggrumati in specie nel Banco di
Napoli e nella Banca Romana, fonte di uno scandalo che lo travolse proprio
mentre stava varando la riforma della Banca Nazionale.
Forte del consenso del "suo" collegio
(Busca-Caraglio-Dronero, che lo rielesse sino al 1924), Giolitti visse alcuni
anni tra persecuzioni e amarezze. Inseguito da un’imputazione senza motivazione,
prudentemente riparò a Berlino, in visita alla figlia, Enrichetta, sposata con
l’ingegnere Mario Chiaraviglio, massone. Tornato in patria e già in dialogo con
il radicale Felice Cavallotti, affiancò Giuseppe Zanardelli nella riscossa
liberale contro i reazionari, capitanati da Antonio di Rudinì, Sidney Sonnino e
Luigi Pelloux. Si valse dei lungimiranti suggerimenti di Urbano Rattazzi jr, ex ministro della Reai Casa. A determinare la svolta furono l’assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio
1900 e l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III. Esaurito l’esecutivo di
transizione dell’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato, il
trentunenne sovrano chiamò al potere Zanardelli e Giolitti. Iniziò così l’età
giolittiana’,’ che più correttamente andrà detta emanuelino-giolittiana perché,
mentre vi si susseguirono una decina di diversi governi (dai programmi molto v'ari, senza dimenticare il Progetto proposto dal ministro delle Finanze Leone Wollemborg, dimissionario
nell’agosto 1901), fu il Re a reggere la barra dell’Italia liberaldemocratica, capace
di ampie riforme sociali per conservare le Istituzioni.
Nel 1911 il Paese tracciò il bilancio di
mezzo secolo di unità, largamente positivo in tutti i campi, in specie nell’istruzione, nel progresso economico e nel consolidamento dello Stato, anche grazie all’opera dei prefetti. Quell’Italia raggiunse l’apice della propria
capacità statuale con la dichiarazione della sovranità su Tripolitania e Cirenaica, coronata dalla pace di Losanna del 1912 a conclusione della guerra vittoriosa contro l’impero turco - ottomano, e
con il diritto di voto maschile quasi universale. Certo il Paese registrava una
forte migrazione verso l’Oltralpe e oltre Atlantico, ma anche questa era segno
di vitalità. Crescevano correnti socialiste estreme, ma i riformisti erano
numericamente più forti (anche se politicamente indecisi e spesso pavidi, come
documenta Aldo G. Ricci). I cattolici moderati ormai prevalevano sui clericali
che ancora rimpiangevano il papa-re.Le frange di nazionalisti e di scontenti
(quale Paese non ne aveva?) sarebbero però rimastepoliticamente irrilevanti se
nel luglio-agosto l'Europa della Belle Epoque non si fosse suicidata con la
Conflagrazione, degenerata in Grande Guerra e poi in Guerra mondiale.
Giolitti avversò l’intervento dell’Italia
a fianco dell'Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna) non perché pacifista o neutralista assoluto ma
perché conosceva a fondo le condizioni del Paese e riteneva che una guerra grossa
avrebbe sottratto risorse al riequilibrio Nord-Sud, a dannodell’unità effettiva
e, quindi, delle Istituzioni stesse. Giustamente fece osservare che, non per caso,
gli interventisti erano prevalentemente repubblicani o massimalisti, come
Mussolini. Pochi mesi prima della conflagrazione europea, nel marzo 1914 Giolitti rassegnò le dimissioni e suggerì al Re di affidare il governo a Salandra, che
poi, alla prova dei fatti, egli bollò quale bugiardo. Da deputato assicurò la
piena lealtà alla Corona ma non potè influire sulle
decisioni del sovrano, il quale ritenne prioritario l'ingresso in guerra per
far coincidere i confini politici con quelli naturali (almeno a est: a ovest erano
stati compromessi nel 1860 con la cessione di Nizza all’ingrata Francia). A
deciderela partita fu anche l’incombenza di un attentato mortale alla vita di
Giolitti, il 16 maggio 1915 costretto a lasciare Roma, preda del delirio
interventistico, che,ignaro dell’accordo sottoscritto a Londra dal governo
Salandra-Sonnino, si cullava nella fatua illusione di una guerra breve ed
esclusivamente contro l’Impero di Austria-Ungheria.
Nel romitaggio di Cavour Giolitti visse
nuovamente anni di amarezze. Tornò alla Camera nel novembre 1917, dopo Caporetto, per ribadire la
piena e mai dismessa lealtà verso la Patria. Quarantun mesi di guerra stravolsero
l'assetto del Paese. Avvantaggiati dalla sostituzione dei collegi uninominali
con la ripartizione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti, i partiti di
massa (socialisti e popolari, cioè i cattolici orchestrati da don Luigi Sturzo,
acremente antigiolittiano e antisabaudo) prevalsero alla Camera senza però
assicurare stabilità di governo. In quattro anni si susseguirono sei diversi ministeri, a danno della
continuità in dicasteri fondamentali (Esteri, Forze Armate, affidate anche a
"borghesi” di manifesta inettitudine, Istruzione e governo dell'economia
nel passaggio dalla produzione di guerra a quella ordinaria...). Il 16 giugno 1920 Vittorio Emanuele
III affidò ancora una volta il governo a Giolitti, che in pochi mesi superò l’occupazione delle
fabbriche da parte di vanesi rivoluzionari socialcomunisti, costrinse Gabriele
d’Annunzio a lasciare Fiume dopo la caotica "Reggenza” abolì il prezzo politico
del pane che stava rovinando la finanza dello Stato e varò blocchi nazionali
per ripristinare la corretta amministrazione di comuni e province. A legge elettorale
immutata, nel maggio 1921 gli italiani tornarono alle urne. Pochi giorni prima morì sua moglie, Rosa
Sobrero, nipote del celebre chimico Ascanio, inventore della nitroglicerina.
Con alto senso del dovere, lo Statista raggiunse la salma della sposa solo
quando ebbe la certezza del controllo dell’ordine pubblico. Secondo la tradizione della sua terra, racchiuse in sé lo strazio di quella perdita. Nella tomba di Famiglia, a
Cavour, Rosa Giolitti è ricordata quale Collaressa della Santissima Annunziata,
l’onorificenza suprema della Monarchia, conferita al marito il 20 settembre
1904, comportante il rango di "cugino del Re’!
Di fronte alla frammentazione della Camera
in 14 gruppi e allo sfarinamento dei "costituzionali” Giolitti rassegnò le dimissioni. Il
veto opposto da don Sturzo a un governo comprendente liberali, popolari e socialisti riformisti, capace di fermare la guerra civile
strisciante tra chi voleva “fare come in Russia” e i fascisti (dal programma ancora confuso), nel volgere di sedici mesi condusse alla crisi
di fine ottobre 1922, riportata da Vittorio Emanuele III nei binari
istituzionali con l’incarico a Mussolini, che formò un governo di coalizione nazionale.
Come Luigi Einaudi, Enrico De Nicola, Vittorio Emanuele Orlando e la generalità
di liberali e cattolici (a cominciare da Alcide De Gasperi), Giolitti lo approvò, nell’auspicio di una nuova legge elettorale, varata nel 1923 con la sua stessa regìa. Nelle elezioni
del 6 aprile 1924 Giolitti guidò una lista di liberaldemocratici che ottenne
tre seggi (con lui furono Marcello Soleri ed Egidio Fazio: voci estreme del
Vecchio Piemonte) che negli anni seguenti si opposero a provvedimenti liberticidi.
Giolitti morì deputato in carica. Vittorio
Emanuele III (che non presenziò ad alcun funerale, se non a quello di Armando Diaz) si fece
rappresentare da Adalberto di Savoia,
duca di Bergamo, pluridecorato della Grande Guerra: omaggio della tradizione
militare al rupestre statista. Poco prima di morire, Giolitti lesse la storia
della "sua” Italia, scritta da Benedetto Croce, che aveva voluto ministro
dell’Istruzione nel suo ultimo governo. Di sé aveva composto le “Memorie della mia
vita" (erroneamente attribuite a Olindo Malagodi e meditatamente non
aggiornate), uscite il 27 ottobre 1922, quando compì 80 anni, a Cavour: vigilia
della fase apicale della crisi del governo Facta. A esse vanno affiancate le
5.000 pagine di "Giolitti al governo, in Parlamento, nel Carteggio’’ (ed. Bastogi) pubblicate tra il 2007 e il 2010 col sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di
Saluzzo e il concorso dell’Associazione di Studi sul Saluzzese, in
collaborazione con l’Archivio Centrale dello Stato. Neemergono la grandezza e
l'attualità non solo di Giolitti ma di una vastissima dirigenza animata dal "senso
dello Stato" una realtà apparentemente impalpabile. Come la luce, l’aria,
l’acqua esso è vitale. Se ne scopre il bisogno quando comincia a mancare. (*)
Aldo A. Mola
(*) Nel 90° della morte, alle h. 18 del 17
luglio, Giolitti viene ricordato con un minuto di silenzio dinnanzi alla sua
Tomba, nel cimitero di Cavour, per
iniziativa dell'Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti presieduta dal
saggista Alessandro Mella.
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