NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 23 gennaio 2023

Giovanni Giolitti: come nacque e pensò uno statista

di Aldo A. Mola


Oggi tanti rimpiangono i “partiti”. Si dimentica che in principio vi era lo Stato, la monarchia costituzionale, che si valeva di una dirigenza sin dall'infanzia formata all'idea di operare per l'Italia: diplomatici, militari, docenti, scienziati, artisti, ecclesiastici soccorrevoli e una miriade di funzionari e impiegati pubblici di condizioni modeste ma fieri della propria missione civile. Il piemontese Giovanni Giolitti ne è un esempio illustre. Memore del proprio lungo “apprendistato”, quando fu al governo rispettò sempre i talenti dei Travèt, ai quali non venne mai né chiesta né imposta una “tessera” ma solo la fedeltà al servizio dello Stato. Merita di essere meglio conosciuto.      

 

Candidato alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile

Nelle Memorie della mia vita Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla “lettera circolare” in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non si sarebbe ripresentato e “senza dir(gli) niente” avanzò il suo nome. Aggiunse: «Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco, ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale.» La realtà fu del tutto diversa da come la narrò. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili confluiti dal Piemonte a Dronero per lo scoprimento del monumento di Gustavo Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il munifico conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la burocratica carriera di Giolitti (entrato in magistratura a vent'anni e dal 1869 “prestato” al ministero delle Finanze, ove collaborò con Quintino Sella) assicurò a Riberi la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. A volerlo deputato fu anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21 agosto, in vista delle elezioni lo nominò consigliere di Stato ponendolo al riparo dall'estrazione a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai pubblici dipendenti e di decadere, come era accaduto a Giosuè Carducci nel 1876.

    Il  16  settembre  Francesco Blanchi , fratello di un prestigioso notaio locale, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della “storia di famiglia” e di quanti ne avevano propiziato l'ascesa (a cominciare dagli zii materni, Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli) precisò che non intendeva “fare fiasco” e rischiare “una meschina figura”. A istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli elettori del Collegio di Cuneo furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli, procuratore del Re, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis, massone e direttore del quotidiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, che da quasi trent'anni era il regista delle elezioni parlamentari locali. Dopo turbinosa altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e Luigi Roux, direttore della “Gazzetta Piemontese” (futura “La Stampa”) di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle celebri Miserie 'd Monsù travet.

   Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente la “lettera agli elettori” e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla “Sentinella”. Su suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso: «Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese». Dall'esordio Giolitti si mostrò dunque “politico” autentico: capace di ascolto, di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma sollecitò il sostegno di decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti, militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) con lettere personali. sollecitandone il sostegno. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti. Un successo clamoroso, superiore alle sue prudenti previsioni.

   Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, formata dai deputati più prestigiosi, stabilì che era ineleggibile perché retribuito dall'erario con propine per le sue funzioni di consigliere di Stato. Giolitti se ne adontò perché percepì che la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà morale prima che politica, quasi avesse truffato gli elettori, candidandosi benché ineleggibile. Approntò scrupolosamente la difesa. Il 21 aprile la illustrò in Aula. Aveva percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, ma le aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato “le spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili”. Richiesti di approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti.

   Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo deputato, né capofila dell'opposizione piemontese al governo Depretis nel 1886, né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno tra il 1892 e il 1921, né altro ancora. Gli otto mesi dalla candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di “homines abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali” (come gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16 marzo 1928. Meritano di essere riletti.

 

Amministratori e politici? “Una riunione di amici”

Per comprendere la sua concezione della politica, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899 (anche per difendere il suo onore dalle accuse mossegli in connessione con lo “scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925.

  Lasciata il 16 marzo 1905 la guida del governo, per seri motivi di salute, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista.»

   Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e socialriformisti, nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale – aggiunse – noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche”.

   Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie.» Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove e severe prove, giacché «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa», lontano dal “Paese che lavora. Il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (lasciata celebrare a Luzzatti) Vittorio Emanuele III gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.

   All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo, Giolitti non fu affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una  parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della sospensione non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia di Pio X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che esse andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano però misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Lanciò un monito severo: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».

 

Venti di guerra, tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea

Nel primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta ideale” e dai salotti molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva, così provocando la rivoluzione e la crisi della monarchia: obiettivo dei repubblicani che, fece notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo.

   Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il “memoriale” segretissimo sulla “probabilità” che entro pochi mesi l’Italia potesse essere “costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania”. Ne nasceva la «probabilità (probabilità non certezza) che il successo di tale spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani». All’orizzonte gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente. Chi avrebbe dato fuoco alla miccia?

   Il programma del settembre 1900 per l’unione dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del 16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di Torino: «Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i nostri occhi dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.» 

   Profondamente radicato nella tradizione del Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del cammino dei popoli, all'inaugurazione dell'ospedale per l'infanzia “Regina Elena” in Cuneo il 14 agosto 1914 Giolitti meditò ad alta voce. Bisognava «procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione». Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo egli dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo.» Non era un’apertura di credito illimitata. Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso: la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna (3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani).

   Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un attentato mortale ormai in corso di attuazione, lo statista riparò a Cavour. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò: «Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata», impegnati in un conflitto dal quale dipendeva «l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua storia». Ma a differenza di Salandra e del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, aveva chiaro che la guerra sarebbe durata anni. Nella forzata solitudine constatava l’imparità dei governi al “più grave disastro dell'umanità dopo il diluvio universale” anche a giudizio del premier britannico David Lloyd George. Chi avrebbe riacceso i lumi sull'Europa? La sua vita di statista era finita?


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