NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 8 gennaio 2023

Un regime in disgregazione



 Riflessioni sul decimo anniversario della morte di Umberto Il. L'occasione per verificare il fallimento del progetto elaborato dopo il giugno del '46


di Antonio Mangano

Se ci si dovesse domandare, per un attimo, se Umberto II, ultimo re d'Italia, potesse annoverarsi tra i grandi uomini della storia, il giorno del 13 giugno del 1946 dirimerebbe ogni dubbio. Perché quando ci si sacrifica in prima persona per il bene supremo della vita — quella dei tanti a cui venne risparmiata — rinunciando a tutto, avviene che l'Uomo grande si coniuga con l'uomo buono, per cedere a tribunali che non sono di questo mondo, giudizi che la persona più accorta è obbligata, rispettosamente, a declinare.

Ricordo di aver trovato un giorno, curioso di scrutare ed osservare tra i pochi libri che la mano di un bambino può raggiungere, alti nelle scaffalature dello studio di mio padre, un opuscoletto di vecchia data, che subito sfogliai perché attratto dalla figura del fronte-spazio: una persona a mezzo busto dall'aspetto all'un tempo nobile e paternamente rassicurante in divisa da generale, senza copricapo, e, sotto, la scritta «Umberto». Guardando quell'opuscolo distribuito per la propaganda ai fini del referendum tra Repubblica e Monarchia, capii che una volta l'Italia aveva avuto un Re. Può essere singolare come un bambino possa cogliere, oltre a simpatie istintive, attimi di nostalgia per tempi ed immagini mai vissute. Può esserlo; ma quand'è così, è l'idea che incomincia a formarsi dentro. fnrm2rsi dentro: e. da quel momento in poi, «si capisce».

E continuai a capire qualche anno dopo, guardando le immagini toccanti di Umberto II salutare, con gli occhi lucidi, dal portello di un quadrimotore, la scaletta non ancora tolta, in procinto di partire per un viaggio donde non tornare più. Addio, Italia! Addio, terra degli avi, ricordi belli, addio!

Quell'uomo in monopetto «a spada», col cappello a cencio, quel pomeriggio di Sant'Antonio del '46, doveva imprimere il proprio nome tra i personaggi che lasciano un segno nella storia. Non occorrono le epiche gesta e le battaglie vinte: può varcarsi il Rubicone con un sacrificio struggente d'omissione che vale quanto e più delle armate condotte a Roma col nemico in fuga. Lì il nemico era nell'Urbe, forse poteva annidarsi tra gli stessi adulatori pronti a cambiar capo per il padrone migliore, era comunque sicuramente affrontabile e fattibile, perché l'arroganza non prevalesse sul diritto. Epperò ciò significava Io scontro: legittimo sì, ma coi morti inevitabili per le strade; e con la nazione per qualche tempo lacerata, come se non fosse bastata una guerra civile appena conclusa con la guerra perduta, fomentata da chi, per il trionfo del comunismo totale, rinnegava la Patria. Ecco allora che Umberto obbedisce, quasi con mistico, obbligato senso del dovere, alla filosofia evangelica, francescanamente, scegliendo l'esilio di Cascais.

Dieci anni sono ora passati dacché l’ultimo re smise di anelare all'Italia; e la Repubblica, lungi dal rafforzarsi, o, quanto meno, dal confermarsi in efficienza, vive la sua distruzione. Ma già al 1983, anno della morte di Umberto, la Carta Costituzionale coniata a bella posta per favorire la partitocrazia e la disgregazione dello Stato (il compromesso catto-comunista, coi liberali presenti e presi in giro) dimostrava il proprio fallimento. C'era una volta lo Stato.

Poi vennero i partiti ed il governo dei partiti, i potentati locali volutamente incontrollati, il governare andreottianamente secondo la logica di don Abbondio, le convergenze parallele oltraggio dei bambini di terza elementare, le tangenti non più nomenclatura matematica, lo sfascio, il dissesto delle regole. E la protervia di chi governa.

Il guaio è questo: che ognun dice che si deve cambiare, ed il loro cambiamento è la loro mummificazione per perpetuarsi sfrontatamente. Così l'allarme scattato con le elezioni del 5 aprile, all'insegna dell'ingovernabilità (la paura di chi perde il potere e si sente cancellato e non voluto), nella ricerca del rimedio per sopravvivere: la riforma elettorale, cioè la truffa alla gente che li ha disconosciuti per poter ottenere, prevaricando, che, «pur perdendo, si (mal) governi». Questa, la loro democrazia. Come quella che ha portato all'istituzione della Bicamerale, fantasma che non ha creato nulla, sottraendo al popolo sovrano il potere di eleggere un'assemblea rappresentativa, istituita per redigere una nuova Costituzione per un nuovo Stato.

Orbene, se la novità sta nelle riforme elettorali, perché il sistema maggioritario o i premietti di maggioranza rafforzino il potere di chi è destinato a perdere e nell'aggrapparsi alla poltrona lancia vili ricatti di ingovernabilità; se la novità sta in questa perpetuazione dell'assillo partitocratico che ha generato inefficienza, corruzione e concussione; se il nuovo, o quel che vogliono propinarci per nuovo, è il «colpo di spugna» perché chi ha sbagliato non paghi; se il nuovo è la concessione, fatta ai cittadini per evitare che assaltino il Palazzo, dell'elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia, ma con opportuni «accomodamenti» per cui «il banco vince sempre» (vedi il gioco dei capilista sindaco o presidente, proclamati tali di diritto, se la lista arriva prima); se il nuovo è «trasparenza» e «trasversalità» invece che «efficienza» e «verticalità»; se tutto questo è il nuovo, noi ai marchingegni abbindolatori rispondiamo, come Statuto ci insegnava, che la governabilità non la si persegue mediante aggiustamenti elettorali (che si risolvono nel gioco dei potenti), sibbene con la fine del regime parlamentare, col taglio netto del rapporto di fiducia che lega il governo al Parlamento. Si occupi l'Assemblea di fare le leggi che al governo (ed ai giudici) spetta poi sempre osservare (Stato di diritto), ed il governo sia direttamente investito e revocato dal Capo dello Stato.

Il parlamentarismo era già divenuto ancién regime con l'inizio del secolo, prima che degenerasse, dopo l'ultima guerra, in partitocrazia. Vittorio Emanuele III, l'aveva capito, in periodi in cui i governi d'élite dovevano cedere il passo a spasmodiche esigenze di partecipazione attiva delle masse, affidando il potere a Benito Mussolini. Sono passati settant'anni e non si riesce a prender posizione contro lo stesso sistema non solo vetusto ma incancrenito perché degenerato (quando mai i governi si sono formati liberamente in fronte al Parlamento, piuttosto che nelle segreterie dei partiti e — anni '70 — previo placet dei sindacati?)

Morale: l'Italia di adesso non è sicuramente quella che avrebbe voluto Umberto e coloro che all'epoca votarono per Umberto. E non è neanche quella che vollero quanti in buona fede votarono Repubblica.

È certamente il frutto, colpevolmente od incolpevolmente ottenuto, a seconda dei casi, di quanti cominciarono con lo scrivere che questa è «una Repubblica democratica fondata sul lavoro».

Ogni retorica è obbrobriosa, ma quella degli ipocriti di più. Certamente, quel progetto fu fallimentare.

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