NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 27 giugno 2019

L'anticristo che è in noi: Benedetto Croce tra progresso e “fine dei tempi”


di Aldo A. Mola

Benedetto Croce: il rifiuto dello “Stato etico” 
In  “Declino e tramonto della civiltà occidentale” (Ed. Rubbettino) Giuseppe Bedeschi ripercorre l'angoscia del filosofo e storico Benedetto Croce all'indomani della seconda guerra mondiale, manifestata in saggi intrisi di profonda amarezza, al confine con lo scoramento. “Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale – scrisse Croce in “La fine della civiltà” – si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei tempi attuarsi, della civiltà, o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea”. In “L'Anticristo che è in noi” stigmatizzò il “distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione”. Erano gli “Adelphi della Dissoluzione” indagati da Maurizio Blondet?
Croce era stato profondamente colpito dall'impiego delle bombe termo-nucleari da parte degli Stati Uniti d'America per piegare il Giappone: quasi duello simbolico tra l'ordigno accecante e annientatore e l'impero del Sol Levante, il Satana prodotto dall'uomo e il divino della Tradizione. Luce che si fa Tenebre, come in tutte le visioni dualistiche, e contrapposizione tra il Bene e il Male. Croce era ormai lontanissimo dal pensiero del gigantesco ma sempre più deprecato Hegel, che aveva condotto  a “questo ideale di morte che ora si chiama 'totalitarismo' 'partito unico' e 'obbedienza al partito' frutto della esaltazione dello Stato”, che si fa “comandatore della vita morale” coniugandosi “coi più terribili tra i barbarici idoli primitivi, Moloch, Kemosh, Baal, Jahve, dai quali è provenuto il 'numinoso' che l'idea dello Stato etico serba e che ai tempi nostri ha rivestito forme molteplici, forme diverse ed opposte, ma tutte con un che di sacro”.

La Guerra: fatalità?
Nelle meditazioni di Croce si intrecciavano pulsioni contrastanti. Nel 1914 era stato fra quanti vennero colti di soprassalto dalla conflagrazione europea. Gli pareva impossibile che da una lunga rigogliosa epoca di pace e di progresso in tutti i campi del sapere e della vita civile si precipitasse in un conflitto generale feroce, disumano, negatore dei principi ispiratori della “civiltà”. Fatalità? Imprevidenza? Miopia? Eppure proprio lui pochi anni prima aveva irriso i postulati da due secoli professati dalla massoneria. Il pacifismo, l'umanitarismo, la fratellanza a suo avviso erano formule ingenue, “cultura” ottima per commercianti e maestrucoli di scuola, giacché, egli sentenziava riecheggiando Eraclito, la storia è sequenza di guerre. L'altro caposcuola del liberalismo italiano, il liberista Luigi Einaudi, a sua volta elogiò “la bellezza della lotta” proprio quando questa stava per giungere al culmine dello scontro fra opposti massimalismi: la sinistra rivoluzionaria (più a parole che nella capacità e nel dominio dei mobili di guerra) e il capitalismo dal cuore indurito nel corso della grande guerra.
Il 24 ottobre 1922 Croce non si era perso lo spettacolo di Benito Mussolini che, orante e imprecante nel teatro San Carlo di Napoli, preannunciò la mobilitazione per agguantare il potere: la mai effettuata “marcia su Roma”. Senatore del regno e ministro della Pubblica istruzione nel V governo Giolitti (1920-1921), votò a favore del governo Mussolini non solo nei suoi primi vagiti (improntati dal liberismo di Alberto De Stefani) ma anche dopo l'“affaire Matteotti”, quando approvò il bilancio dell'Interno. Non vedeva alcuna alternativa al governo in carica, anche perché chi avrebbe dovuto opporglisi (a qualunque costo e anche a rischio della vita, come insegnò Giolitti)  aveva disertato l'Aula e si era arroccato nella posizione politicamente più improduttiva e perdente: l'“Aventino”. Opposizione anti-sistema ma nel sistema accampata e cresciuta da oltre trent'anni, la compagine di repubblicani, radical-democratici e socialisti si attendeva che a risolvere la crisi (di governo, non dello Stato) intervenisse Vittorio Emanuele III. Già a fine ottobre 1922 il Re si era trovato pressoché solo a dipanare l'imbrogliatissima matassa della politichetta governativa perché il presidente del Consiglio, Luigi Facta, non convocò il Parlamento e si smarrì negli intricati viottoli di trattative sottobanco con amici e nemici (incluso lo sprezzante Gabriele d'Annunzio) nell'illusione di succedere a se stesso appagando Mussolini con un ministero di seconda fila.
Se quelli erano i “Maestri di color che sanno” bene si comprende il disorientamento (o riorientamento) della generalità dei cittadini cosiddetti “comuni”, desiderosi solo di ordine pubblico, quiete personale e di un salario o stipendio sufficiente per campare dopo gli anni della lunga e dura prova bellica (680.000 morti e più di un milione di feriti e mutilati), della fame e della guerra civile strisciante.

All'opposizione del regime, non contro lo Stato
Con il Manifesto degli intellettuali antifascisti (replica prolissa a quello, parimenti “accademico” dei fascisti, redatto da Giovanni Gentile e sottoscritto anche da futuri avversari del regime) Croce assunse la guida dell'opposizione a un partito che pretendeva di soggiogare il governo e a un governo che si ergeva a Stato, insomma al “regime”, capitanato dal “duce”. Negli anni difficili, dal Concordato tra l'Italia e la Santa Sede, proposto all'opinione pubblica come gratificante e pacificante “Conciliazione”, sino alla guerra contro l'Etiopia, scandita da abilissime operazioni mescolanti patriottismo e fascismo (per esempio l'“offerta dell'oro alla Patria”, cui anche Croce aderì), come la generalità dei politici anti o a-fascisti il filosofo imbevuto del pensiero di Giambattista Vico non colse subito la deriva di Mussolini verso la fatale alleanza con Hitler. Neppure le leggi razziali del 1938 suscitarono la manifestazione pubblica di opposizione netta. A differenza di Einaudi, non partecipò al loro voto in Senato, ove si contarono 10 astensioni su 160 presenti e circa 400 patres. Di anno in anno, di mese in mese l'Europa, e con essa l'Italia, passò dalla Conferenza di Monaco (settembre 1938, quando Hitler ottenne formalmente l'annessione dei Sudeti, politicamente ancor più emblematica di quella dell'Austria) al patto Ribbentrop-Molotov (ovvero tra la Germania di Hitler e l'Unione sovietica di Stalin) e alla nuova conflagrazione europea, poi volta in seconda guerra mondiale (settembre 1939).
Pochi ebbero chiaro che il nuovo conflitto era la prosecuzione del precedente e che l'Italia, giunta ultima e malvolentieri accolta tra le “grandi potenze”, rischiava di retrocedere. Nell'introduzione al volume di Vanna Vailati “1943-1944. La storia nascosta” (Torino, G.C.C., 1986), tra i “Documenti inglesi segreti che non sono mai stati pubblicati” il generale Luigi Mondini ricorda il progetto “allucinante” messo a punto dal Foreign Office e dal War Office britannici che prevedeva la spartizione dell'Italia, “dandone un pezzo a ciascuno degli Alleati, grandi e piccini. Alla Grecia venivano date le Puglie e gran parte del Sud; agli Jugoslavi una fetta che dall'Istria arrivava a Milano; ai francesi l'isola d'Elba, la Liguria, il Piemonte fino a Milano; agli inglesi la Sardegna, la Sicilia, la Calabria. Gli americani avrebbero occupato Roma, che sarebbe stata affidata al Papa”. La spartizione della flotta e delle colonie avrebbe imbonito l'Unione sovietica. L'Italia, insomma, avrebbe avuto la sorte della Germania, suddivisa, come Berlino stessa, nei modi ben noti: una tragedia che si prolungò sino al poco rievocato 1989 e il cui ricordo basta a spiegare i tremori non solo di Angela Merkel ma di chiunque conservi memoria della storia di ieri.

Vittorio Emanuele III, il traghettatore
L'obiettivo dell'Italia fu di uscire comunque dal conflitto, come rievoca Luigi Federzoni nel “Diario inedito, 1943-1944” (ed. Pontecorboli). Fra traversie complesse e in tempi oggettivamente rapidi (poche convulse settimane, tra ostacoli che parevano insormontabili: a cominciare dalla diffidenza dei nemici, ostili e divisi) a condurre in porto la trattativa fu il governo del Re. Con il trasferimento da Roma a Brindisi (9-11 settembre) esso salvaguardò la continuità dello Stato, rafforzata dalla dichiarazione di guerra contro la Germania (13 ottobre 1943), pilastro della “ricostruzione”. Fosse o meno gradito, Vittorio Emanuele III fu a tutti gli effetti l'interlocutore dei vincitori. Svolse il ruolo insostituibile di traghettatore dell'Italia dalla rovina alla sopravvivenza. Come nel citato Diario scrisse Federzoni il 24 dicembre 1943, “la monarchia non è una persona: è un sistema”. L'Italia si era salvata “sia pur tardi e alla meglio, o alla peggio, se si vuole; ma si è salvata perché aveva ancora un Re. Comprendono oggi tutto questo i così detti uomini d'ordine? Per molti segni ne dubito. In non pochi di essi prevale una specie di rancore contro Vittorio Emanuele III. È il solito personalismo, la solita incapacità di pensare obiettivamente, vizio incorreggibile di molte donne e di troppi Italiani che fanno politica”. Avrebbero accettato anche la repubblica. “Somigliano a chi si gettasse dal tetto, con l'intenzione di fermarsi al piano sottostante...”. Anziché abbattere la monarchia occorreva semmai rafforzarla, perché era il bastione contro lo Stato totalitario. Bisognava perciò tenerla al sicuro dai “monarchisti”, dalla folla di quanti pretendevano che il re fosse a loro individuale immagine e somiglianza.

Il rancore di Croce contro il Re
Tra gli “uomini d'ordine” che intrapresero una sorta di battaglia personale contro Vittorio Emanuele III spiccò Benedetto Croce, che il 28 novembre 1943 pronunciò nel chiostro di San Marcellino dell'Università di Napoli un discorso nel quale chiese pubblicamente l'abdicazione del re “illico et immediate”. Il 6 dicembre ne prospettò ruvidamente l'esilio: “Non v'è dubbio che da un regolare processo non potrebbe uscire se non la condanna del re, violatore dello Statuto e alleato del fascismo nel danno e nell'onta apportata al popolo italiano. Condannato, insisteremmo che fosse lasciato libero e allontanato dall'Italia”. Identici concetti ribadì nelle settimane seguenti e in specie il 28 gennaio 1944 nel congresso dei comitati di liberazione nazionale a Bari: “Il re non è in grado di formare un ministero, perché gli uomini che hanno esperienza e reputazione si rifiutano di giurare a lui fedeltà e temono da lui, e dalla gente che lo circonda, insidie”. Dissociazione di responsabilità... Non bastasse, il 3 maggio deplorò pubblicamente l'“intervista” subdolamente carpita al Principe di Piemonte, Umberto, e pubblicata dal “Times”. Luogotenente del Regno, questi aveva osservato che nel giugno 1940 nessuno si era opposto alla dichiarazione di guerra. Croce obiettò che opporsi o chiedere la convocazione delle Camere sarebbe stato da folli o da imbecilli (sic): autoassoluzione di un “popolo” che aveva riempito le piazze osannando. Pur essendo storico di vaglia, non si domandò se quel “documento” rispondesse pienamente al pensiero del Principe o fosse frutto di manipolazione.
Nel “Saluto all'Italia liberata” (5 giugno 1944) il filosofo aggiunse che gli italiani erano ora liberati anche dalla “ardua e penosa questione della persona del re” e forti di un “ministero democratico, formato dai rappresentanti di tutti i partiti...”.
La realtà si rivelò subito molto diversa da come l'aveva immaginata. Nel primo numero di “Rinascita”, la rivista del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti sparò a palle incatenate contro Benedetto Croce, liquidandolo quale silenzioso connivente del regime. Il filosofo non prese più parte dalle sedute del Consiglio dei ministri.

Il progresso e il suo contrario
Sarebbe soverchiamente lungo ed esula dall'economia di un articolo per questo Solstizio d'Estate ripercorrere gli ideali, le passioni e talvolta gli umori che danno vigore agli scritti crociani tra l'amaro risveglio dell'estate 1944 e il 1946, quando, con lo spettro dello stalinismo, gli si parò dinnanzi l'incubo della fine della civiltà europea. Non gli fu facile ammettere che a difenderla fosse un politico pragmatico come Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e accettato, il presidente degli Stati Uniti d'America che non aveva esitato a far sganciare due bombe atomiche sul Giappone e che non avrebbe esitato a cannoneggiare Tito se i comunisti jugoslavi avessero superato la linea fissata per la loro non apprezzata avanzata verso occidente.
Le meditazioni di Croce non furono comunque improntate solo al cupo pessimismo dell'“Anticristo che è in noi”, classificato quale “tendenza dell'anima”. “L'uomo - egli osservò – accetta la morte e la desidera al termine della vita operosa, ma non mai si rassegna al pensiero della fine della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse...”.  Gli pareva però che anche il “progresso” fosse poco più che uno “stato d'animo”, più pulsione emotiva che ideale o persino Idea. Se poi convenne che “la storia è sempre storia di progressi”, confutò però l'interpretazione della storia quale “corso predeterminato”, spiegabile con una causa univoca e affermò che essa è comunque sempre opera umana, quasi un “la storia siamo noi”: conclusione che non richiede speciale formazione filosofica e che serpeggia nell'animo di ciascuna persona, più o meno consapevole di sé.
Non approdò mai alla serenità di chi vive nella leopardiana consapevolezza che “tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”, che i barbari barbari sono e il loro avvento non è redenzione ma rovina e che felicità suprema per la persona saggia è di non morire tra efferate torture ma, semmai, di finire porgendo il pugnale al consorte come la matrona Arria Maggiore al marito con la mesta esortazione: “Paete, non dolet”. Quelli erano Stoici. Mai avrebbero scritto “perché non possiamo non dirci cristiani”. Erano Pagani. Un altro mondo, non corroso dall'idea di progresso: capace di gustare la bellezza della vita nella serena contemplazione della morte.
Aldo A. Mola 


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