Benedetto
Croce: il rifiuto dello “Stato etico”
In “Declino e tramonto della civiltà
occidentale” (Ed. Rubbettino) Giuseppe Bedeschi ripercorre l'angoscia del
filosofo e storico Benedetto Croce all'indomani della seconda guerra mondiale,
manifestata in saggi intrisi di profonda amarezza, al confine con lo
scoramento. “Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale – scrisse
Croce in “La fine della civiltà” – si è fatta viva dappertutto la stringente
inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei tempi attuarsi,
della civiltà, o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e
del suo simbolo, della civiltà europea”. In “L'Anticristo che è in noi”
stigmatizzò il “distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di
non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di
questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed
essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione”.
Erano gli “Adelphi della Dissoluzione” indagati da Maurizio Blondet?
Croce
era stato profondamente colpito dall'impiego delle bombe termo-nucleari da
parte degli Stati Uniti d'America per piegare il Giappone: quasi duello
simbolico tra l'ordigno accecante e annientatore e l'impero del Sol Levante, il
Satana prodotto dall'uomo e il divino della Tradizione. Luce che si fa Tenebre,
come in tutte le visioni dualistiche, e contrapposizione tra il Bene e il Male.
Croce era ormai lontanissimo dal pensiero del gigantesco ma sempre più
deprecato Hegel, che aveva condotto a
“questo ideale di morte che ora si chiama 'totalitarismo' 'partito unico' e
'obbedienza al partito' frutto della esaltazione dello Stato”, che si fa
“comandatore della vita morale” coniugandosi “coi più terribili tra i barbarici
idoli primitivi, Moloch, Kemosh, Baal, Jahve, dai quali è provenuto il
'numinoso' che l'idea dello Stato etico serba e che ai tempi nostri ha
rivestito forme molteplici, forme diverse ed opposte, ma tutte con un che di
sacro”.
La
Guerra: fatalità?
Nelle
meditazioni di Croce si intrecciavano pulsioni contrastanti. Nel 1914 era stato
fra quanti vennero colti di soprassalto dalla conflagrazione europea. Gli
pareva impossibile che da una lunga rigogliosa epoca di pace e di progresso in
tutti i campi del sapere e della vita civile si precipitasse in un conflitto
generale feroce, disumano, negatore dei principi ispiratori della “civiltà”.
Fatalità? Imprevidenza? Miopia? Eppure proprio lui pochi anni prima aveva
irriso i postulati da due secoli professati dalla massoneria. Il pacifismo,
l'umanitarismo, la fratellanza a suo avviso erano formule ingenue, “cultura”
ottima per commercianti e maestrucoli di scuola, giacché, egli sentenziava
riecheggiando Eraclito, la storia è sequenza di guerre. L'altro caposcuola del
liberalismo italiano, il liberista Luigi Einaudi, a sua volta elogiò “la
bellezza della lotta” proprio quando questa stava per giungere al culmine dello
scontro fra opposti massimalismi: la sinistra rivoluzionaria (più a parole che
nella capacità e nel dominio dei mobili di guerra) e il capitalismo dal cuore
indurito nel corso della grande guerra.
Il
24 ottobre 1922 Croce non si era perso lo spettacolo di Benito Mussolini che,
orante e imprecante nel teatro San Carlo di Napoli, preannunciò la
mobilitazione per agguantare il potere: la mai effettuata “marcia su Roma”.
Senatore del regno e ministro della Pubblica istruzione nel V governo Giolitti
(1920-1921), votò a favore del governo Mussolini non solo nei suoi primi vagiti
(improntati dal liberismo di Alberto De Stefani) ma anche dopo l'“affaire
Matteotti”, quando approvò il bilancio dell'Interno. Non vedeva alcuna
alternativa al governo in carica, anche perché chi avrebbe dovuto opporglisi (a
qualunque costo e anche a rischio della vita, come insegnò Giolitti) aveva disertato l'Aula e si era arroccato
nella posizione politicamente più improduttiva e perdente: l'“Aventino”.
Opposizione anti-sistema ma nel sistema accampata e cresciuta da oltre
trent'anni, la compagine di repubblicani, radical-democratici e socialisti si
attendeva che a risolvere la crisi (di governo, non dello Stato) intervenisse
Vittorio Emanuele III. Già a fine ottobre 1922 il Re si era trovato pressoché
solo a dipanare l'imbrogliatissima matassa della politichetta governativa
perché il presidente del Consiglio, Luigi Facta, non convocò il Parlamento e si
smarrì negli intricati viottoli di trattative sottobanco con amici e nemici
(incluso lo sprezzante Gabriele d'Annunzio) nell'illusione di succedere a se
stesso appagando Mussolini con un ministero di seconda fila.
Se
quelli erano i “Maestri di color che sanno” bene si comprende il disorientamento
(o riorientamento) della generalità dei cittadini cosiddetti “comuni”,
desiderosi solo di ordine pubblico, quiete personale e di un salario o
stipendio sufficiente per campare dopo gli anni della lunga e dura prova
bellica (680.000 morti e più di un milione di feriti e mutilati), della fame e
della guerra civile strisciante.
All'opposizione
del regime, non contro lo Stato
Con
il Manifesto degli intellettuali antifascisti (replica prolissa a quello,
parimenti “accademico” dei fascisti, redatto da Giovanni Gentile e sottoscritto
anche da futuri avversari del regime) Croce assunse la guida dell'opposizione a
un partito che pretendeva di soggiogare il governo e a un governo che si ergeva
a Stato, insomma al “regime”, capitanato dal “duce”. Negli anni difficili, dal
Concordato tra l'Italia e la Santa Sede, proposto all'opinione pubblica come
gratificante e pacificante “Conciliazione”, sino alla guerra contro l'Etiopia,
scandita da abilissime operazioni mescolanti patriottismo e fascismo (per
esempio l'“offerta dell'oro alla Patria”, cui anche Croce aderì), come la
generalità dei politici anti o a-fascisti il filosofo imbevuto del pensiero di
Giambattista Vico non colse subito la deriva di Mussolini verso la fatale
alleanza con Hitler. Neppure le leggi razziali del 1938 suscitarono la
manifestazione pubblica di opposizione netta. A differenza di Einaudi, non
partecipò al loro voto in Senato, ove si contarono 10 astensioni su 160
presenti e circa 400 patres. Di anno in anno, di mese in mese l'Europa, e con essa
l'Italia, passò dalla Conferenza di Monaco (settembre 1938, quando Hitler
ottenne formalmente l'annessione dei Sudeti, politicamente ancor più
emblematica di quella dell'Austria) al patto Ribbentrop-Molotov (ovvero tra la
Germania di Hitler e l'Unione sovietica di Stalin) e alla nuova conflagrazione
europea, poi volta in seconda guerra mondiale (settembre 1939).
Pochi
ebbero chiaro che il nuovo conflitto era la prosecuzione del precedente e che
l'Italia, giunta ultima e malvolentieri accolta tra le “grandi potenze”,
rischiava di retrocedere. Nell'introduzione al volume di Vanna Vailati
“1943-1944. La storia nascosta” (Torino, G.C.C., 1986), tra i “Documenti
inglesi segreti che non sono mai stati pubblicati” il generale Luigi Mondini
ricorda il progetto “allucinante” messo a punto dal Foreign Office e dal War
Office britannici che prevedeva la spartizione dell'Italia, “dandone un pezzo a
ciascuno degli Alleati, grandi e piccini. Alla Grecia venivano date le Puglie e
gran parte del Sud; agli Jugoslavi una fetta che dall'Istria arrivava a Milano;
ai francesi l'isola d'Elba, la Liguria, il Piemonte fino a Milano; agli inglesi
la Sardegna, la Sicilia, la Calabria. Gli americani avrebbero occupato Roma,
che sarebbe stata affidata al Papa”. La spartizione della flotta e delle
colonie avrebbe imbonito l'Unione sovietica. L'Italia, insomma, avrebbe avuto
la sorte della Germania, suddivisa, come Berlino stessa, nei modi ben noti: una
tragedia che si prolungò sino al poco rievocato 1989 e il cui ricordo basta a
spiegare i tremori non solo di Angela Merkel ma di chiunque conservi memoria
della storia di ieri.
Vittorio
Emanuele III, il traghettatore
L'obiettivo
dell'Italia fu di uscire comunque dal conflitto, come rievoca Luigi Federzoni
nel “Diario inedito, 1943-1944” (ed. Pontecorboli). Fra traversie complesse e
in tempi oggettivamente rapidi (poche convulse settimane, tra ostacoli che
parevano insormontabili: a cominciare dalla diffidenza dei nemici, ostili e
divisi) a condurre in porto la trattativa fu il governo del Re. Con il
trasferimento da Roma a Brindisi (9-11 settembre) esso salvaguardò la
continuità dello Stato, rafforzata dalla dichiarazione di guerra contro la
Germania (13 ottobre 1943), pilastro della “ricostruzione”. Fosse o meno
gradito, Vittorio Emanuele III fu a tutti gli effetti l'interlocutore dei
vincitori. Svolse il ruolo insostituibile di traghettatore dell'Italia dalla
rovina alla sopravvivenza. Come nel citato Diario scrisse Federzoni il 24
dicembre 1943, “la monarchia non è una persona: è un sistema”. L'Italia si era
salvata “sia pur tardi e alla meglio, o alla peggio, se si vuole; ma si è
salvata perché aveva ancora un Re. Comprendono oggi tutto questo i così detti
uomini d'ordine? Per molti segni ne dubito. In non pochi di essi prevale una
specie di rancore contro Vittorio Emanuele III. È il solito personalismo, la
solita incapacità di pensare obiettivamente, vizio incorreggibile di molte
donne e di troppi Italiani che fanno politica”. Avrebbero accettato anche la
repubblica. “Somigliano a chi si gettasse dal tetto, con l'intenzione di
fermarsi al piano sottostante...”. Anziché abbattere la monarchia occorreva
semmai rafforzarla, perché era il bastione contro lo Stato totalitario.
Bisognava perciò tenerla al sicuro dai “monarchisti”, dalla folla di quanti
pretendevano che il re fosse a loro individuale immagine e somiglianza.
Il
rancore di Croce contro il Re
Tra
gli “uomini d'ordine” che intrapresero una sorta di battaglia personale contro
Vittorio Emanuele III spiccò Benedetto Croce, che il 28 novembre 1943 pronunciò
nel chiostro di San Marcellino dell'Università di Napoli un discorso nel quale
chiese pubblicamente l'abdicazione del re “illico et immediate”. Il 6 dicembre
ne prospettò ruvidamente l'esilio: “Non v'è dubbio che da un regolare processo
non potrebbe uscire se non la condanna del re, violatore dello Statuto e
alleato del fascismo nel danno e nell'onta apportata al popolo italiano.
Condannato, insisteremmo che fosse lasciato libero e allontanato dall'Italia”.
Identici concetti ribadì nelle settimane seguenti e in specie il 28 gennaio
1944 nel congresso dei comitati di liberazione nazionale a Bari: “Il re non è
in grado di formare un ministero, perché gli uomini che hanno esperienza e
reputazione si rifiutano di giurare a lui fedeltà e temono da lui, e dalla
gente che lo circonda, insidie”. Dissociazione di responsabilità... Non
bastasse, il 3 maggio deplorò pubblicamente l'“intervista” subdolamente carpita
al Principe di Piemonte, Umberto, e pubblicata dal “Times”. Luogotenente del
Regno, questi aveva osservato che nel giugno 1940 nessuno si era opposto alla
dichiarazione di guerra. Croce obiettò che opporsi o chiedere la convocazione
delle Camere sarebbe stato da folli o da imbecilli (sic): autoassoluzione di un
“popolo” che aveva riempito le piazze osannando. Pur essendo storico di vaglia,
non si domandò se quel “documento” rispondesse pienamente al pensiero del
Principe o fosse frutto di manipolazione.
Nel
“Saluto all'Italia liberata” (5 giugno 1944) il filosofo aggiunse che gli
italiani erano ora liberati anche dalla “ardua e penosa questione della persona
del re” e forti di un “ministero democratico, formato dai rappresentanti di
tutti i partiti...”.
La
realtà si rivelò subito molto diversa da come l'aveva immaginata. Nel primo
numero di “Rinascita”, la rivista del Partito comunista italiano, Palmiro
Togliatti sparò a palle incatenate contro Benedetto Croce, liquidandolo quale
silenzioso connivente del regime. Il filosofo non prese più parte dalle sedute
del Consiglio dei ministri.
Il
progresso e il suo contrario
Sarebbe
soverchiamente lungo ed esula dall'economia di un articolo per questo Solstizio
d'Estate ripercorrere gli ideali, le passioni e talvolta gli umori che danno
vigore agli scritti crociani tra l'amaro risveglio dell'estate 1944 e il 1946,
quando, con lo spettro dello stalinismo, gli si parò dinnanzi l'incubo della
fine della civiltà europea. Non gli fu facile ammettere che a difenderla fosse
un politico pragmatico come Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e
accettato, il presidente degli Stati Uniti d'America che non aveva esitato a
far sganciare due bombe atomiche sul Giappone e che non avrebbe esitato a
cannoneggiare Tito se i comunisti jugoslavi avessero superato la linea fissata
per la loro non apprezzata avanzata verso occidente.
Le
meditazioni di Croce non furono comunque improntate solo al cupo pessimismo
dell'“Anticristo che è in noi”, classificato quale “tendenza dell'anima”.
“L'uomo - egli osservò – accetta la morte e la desidera al termine della vita
operosa, ma non mai si rassegna al pensiero della fine della civiltà nella
quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli
vorrebbe che quel mondo continuasse...”.
Gli pareva però che anche il “progresso” fosse poco più che uno “stato
d'animo”, più pulsione emotiva che ideale o persino Idea. Se poi convenne che
“la storia è sempre storia di progressi”, confutò però l'interpretazione della
storia quale “corso predeterminato”, spiegabile con una causa univoca e affermò
che essa è comunque sempre opera umana, quasi un “la storia siamo noi”:
conclusione che non richiede speciale formazione filosofica e che serpeggia
nell'animo di ciascuna persona, più o meno consapevole di sé.
Non
approdò mai alla serenità di chi vive nella leopardiana consapevolezza che
“tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”, che i barbari barbari sono e il
loro avvento non è redenzione ma rovina e che felicità suprema per la persona
saggia è di non morire tra efferate torture ma, semmai, di finire porgendo il pugnale
al consorte come la matrona Arria Maggiore al marito con la mesta esortazione:
“Paete, non dolet”. Quelli erano Stoici. Mai avrebbero scritto “perché non
possiamo non dirci cristiani”. Erano Pagani. Un altro mondo, non corroso
dall'idea di progresso: capace di gustare la bellezza della vita nella serena
contemplazione della morte.
Aldo
A. Mola
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