di Salvatore Sfrecola
La maggior parte dello scetticismo verso la manovra non è sul provvedimento
in sé quanto sull’effettiva capacità della pubblica amministrazione di metterlo in
pratica
Non è detto chiaramente,
ma la ragione di molte delle critiche e delle riserve espresse, anche nelle
sedi istituzionali, Banca d’Italia, Corte dei conti e Ufficio parlamentare di
bilancio, nei confronti della manovra delineata nella nota di aggiornamento al
Def sta nel dubbio che quanto previsto in funzione di sviluppo e crescita possa
essere realizzato. Dagli investimenti pubblici, resi incerti nel tempo dalla
farraginosità delle regole del Codice degli appalti al reddito di cittadinanza,
misura diretta a contrastare la povertà ma sospetta di essere incontrollabile, nel senso che i
soliti «furbetti» potrebbero usufruirne continuando a fare del lavoro in nero. Tutto questo per sfiducia nella pubblica amministrazione che ha
dimostrato finora di costituire un fardello intollerabile peri cittadini e le imprese, assolutamente incapace di contribuire alla efficiente e rapida
realizzazione delle politiche pubbliche, cioè di programmi di governo.
Esempi preoccupanti di inefficienza se ne potrebbero fare molti. Si pensi ai tempi che accompagnano ogni nuova iniziativa imprenditoriale che passa attraverso lunghe e spesso inutili pratiche tra uffici diversi dello Stato, delle regioni e dei comuni, alla nota incapacità delle amministrazioni di dare attuazione a progetti finanziati dall’Unione europea, con dispendio di risorse che potrebbero favorire lo sviluppo di alcune aree del Paese.
Esempi preoccupanti di inefficienza se ne potrebbero fare molti. Si pensi ai tempi che accompagnano ogni nuova iniziativa imprenditoriale che passa attraverso lunghe e spesso inutili pratiche tra uffici diversi dello Stato, delle regioni e dei comuni, alla nota incapacità delle amministrazioni di dare attuazione a progetti finanziati dall’Unione europea, con dispendio di risorse che potrebbero favorire lo sviluppo di alcune aree del Paese.
Un esempio eclatante di inefficienza è
dato, poi, dalla rilevante evasione fiscale. Oltre 100 miliardi l’anno sottratti al fisco sono
una misura intollerabile in qualunque paese civile. Con molte responsabilità.
Del Parlamento e del governo, che non riescono a mettere in campo norme che facilitino l’adempimento del dovere fiscale da parte di cittadini e imprese. Ma anche dell’apparato, l’Agenzia delle entrate, che non ha attuato, pur dovendovi provvedere dal 2011, l’anagrafe bancaria che avrebbe dovuto realizzare le liste selettive dei contribuenti maggiormente a rischio di evasione. La Corte dei conti ha denunciato tale inadempimento, espressamente posto in capo al direttore dell’Agenzia delle entrate, finora senza conseguenze. Nel silenzio assoluto del ministro dell’Economia e delle finanze,
Pier Carlo Padoan, che pure ha l’alta vigilanza sulle agenzie fiscali. Una situazione che richiede un intervento della Procura regionale del Lazio
perché in questo inadempimento, prolungato nel tempo, c’è sicuramente danno erariale.
È fondata questa sfiducia nella
possibilità che la manovra delineata nel Def riesca a perseguire gli obiettivi
in dicati? A leggere bene la premessa alla nota di aggiornamento il governo si
è dato carico dell’esigenza che la strumentazione delle pubbliche amministrazioni
sia adeguata alle esigenze delineate dalla manovra di finanza pubblica. Che vuol dire ripartizione funzionale delle competenze tra i vari livelli di
governo, al centro, nelle regioni e nei comuni.
Con revisione delle attribuzioni delle varie strutture ministeriali, delle leggi e dei regolamenti che disciplinano le procedure che dovranno essere snelle, semplici e concluse in tempi che consentano di realizzare i risultati previsti.
Perché il tempo è un costo per le amministrazioni, per le persone e per le imprese.
Il governo, dicevo, si è dato carico del
tema, tanto che allaquarta pagina della presentazione della nota di aggiornamento si legge che
«intendemettere in campo una serie diazioni ad ampio raggio volte ad espandere, accelerare e rendere più efficiente la spesa per investimenti pubblici, migliorando la capacità delle pubbliche
amministrazioni di preparare, valutare gestire piani e progetti». In particolare
questo impegno «dovrà coinvolgere non solo tutti i livelli delle
amministrazioni pubbliche, ma anche le società partecipate o titolari di concessioni
pubbliche che hanno, in numerosi casi, beneficiato di un regime di bassi canoni
ed elevate tariffe, rinviando i programmi di investimento previsti nei piani economici
e finanziari. Gli opportuni cambiamenti organizzativi e regolatori saranno prontamente
introdotti onde rimuovere gli ostacoli che hanno frenato le opere pubbliche
assicurando, al contempo, con i livelli di investimento da parte delle società concessionarie,
nonché un riequilibrio del regime dei canoni».
Sono credibili queste promesse, di là
delle buone intenzioni? Questo è il dubbio di alcune delle istituzioni che si sono
pronunciate in questi giorni. Per il semplice motivo che già in passato impegni
analoghi erano stati presi dai governi i quali hanno spesso enfatizzato
modeste, incomplete e insufficienti riforme della pubblica amministrazione,
come l’ultima, assolutamente inutile, che prende il nome dall’ex ministro
Marianna Madia. Occorre, lo diciamo da tempo su questo giornale, un grande
progetto di riforma da realizzare avendo presente un quadro generale e completo
ma con interventi immediati che dimostrino che si intende andare in quella
direzione e che si hanno le idee chiare.
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