(b.m.) – La 12^ battaglia
dell'Isonzo o “Battaglia di Caporetto”, conclusasi con la ritirata al Piave che
terminò il 9 novembre 1917, assunse quasi la fisionomia di una guerra perduta. Non
poteva non avere ripercussione sugli Alleati, sui cui ricadeva parte di
responsabilità dell'insuccesso italiano, avendo loro sempre considerato il
fronte italiano secondario e di conseguenza rifiutato l’invio di truppe in
l'Italia. Inoltre, prima dell'offensiva austro-tedesca, avevano ritirato
perfino alcune batterie date prima in rinforzo.
Di qui il 6 novembre a
Rapallo si incontrarono gli alleati per unificare l'indirizzo delle operazioni
sui vari fronti, costituire un comitato di guerra interalleato e trattare gli
aiuti da inviare in Italia. Presenti per l'Italia Orlando- Presidente del
Consiglio, Sonnino- Ministro degli Esteri, Alfieri, Bissolati e il S.Ca.SM-
Gen. Porro; per l'Inghilterra Lloyd George e i generali Smults, Robertson-
Ca.SM Imperiale e Wilson; per la Francia Painlevé, Franklin, Bouillon,
l'ambasciatore Barrère e il Gen. Foch.
Purtroppo né i Politici né
il Gen. Porro seppero delineare esattamente la situazione delle forze italiane
onde sostenere l’idoneità della linea difensiva del Piave (i Generali Robertson
e Foch, ancora sfiduciati, propendevano per il ripiegamento sull’Adige, perfino
sul Mincio/Po) e dare loro sicuri elementi di giudizio per decidere sull’invio
in Italia di alcune divisioni. Eloquente la testimonianza dello stesso Lloyd
George, che, come risaputo, è sempre stato favorevole - fin dalle riunioni di
Roma della primavera e dell’estate del 1917 - a portare tutti gli sforzi
dell'Intesa sul fronte italiano per far fuori definitivamente l’Austria. Egli
narra come, a Rapallo, Robertson e Foch avessero ancora grandi dubbi sulla
convenienza di portare aiuti all’Italia e come lui stesso avesse avuto un'
"impressione negativa" dalla esposizione della nostra situazione
militare fatta dal Gen. Porro. Pertanto i Capi di governo e gli SM alleati
ritennero necessario conferire con il Re. Fu indetto quindi per il giorno 8 il
convegno di Peschiera.
A Rapallo fu esclusivamente
decisa la costituzione di un Consiglio Supremo di guerra, composto dal primo
ministro e da altri membri del Governo di ciascuna delle grandi potenze
occidentali belligeranti e l'esonero del generale Cadorna da capo di Stato
Maggiore dell'Esercito italiano. Niente più.
A Peschiera Vittorio
Emanuele III parlò con calma, chiarezza ed equilibrio, senza esagerare, né
nell'ottimismo né nel pessimismo. Illustrò ai convenuti le condizioni
dell'esercito italiano, spiegò con grande lucidezza le cause dell'insuccesso
riconducendone alle giuste proporzioni le conseguenze e precisando il carattere
di esso; affermò con commossa parola le virtù militari del suo esercito, ne
escluse la dissoluzione, ne confermò i propositi di resistenza e di rivincita;
difese la linea difensiva sul Piave scelta da Cadorna e dichiarò che per il
momento la sua difesa sarebbe stata fatta solo dagli Italiani e, per ultimo,
espresse con tanto calore la propria fede nel risveglio della coscienza
nazionale da parte di tutti, tanto che gli ascoltatori tutti ne furono assai
impressionati e convinti. Lloyd George, nelle sue memorie riporta: "Io
sono stato molto impressionato dalla calma e dalla forza che egli dimostrò in
un'occasione come quella, in cui il suo Paese e il suo trono erano in pericolo.
Egli non tradì alcun segno di timore o di depressione. Pareva ansioso solamente
di cancellare in noi l'impressione che il suo esercito fosse fuggito…” e poi
ancora “…dissipò tutte le debolezze, troncò tutte le titubanze.” Prosegue “…
S.M. il Re, non chiese aiuto, chiese soltanto fiducia. Riuscì anche a
sdrammatizzare il momento citando un vecchio proverbio popolare: alla guerra si
va con un bastone per darle ed un sacco per prenderle, disse !” Ad un certo
punto, riporta il verbale del convegno, Lloyd George e Painlevé riconobbero in
quel piccolo italiano un uomo dalla testa quadra e dai nervi saldi a cui
potevano affidare le loro preziose divisioni; chiamarono sir William Robertson
e Foch e impartirono le necessarie istruzioni.
Terminato il convegno gli
Alleati si ritirano per andare a pranzo altrove. Vittorio Emanuele resta nello
stanzone dell’incontro nella palazzina. Con lui restano al freddo - la stufa da
tempo ha finito la legna - Orlando e Sonnino; assieme mangiano in silenzio con
l’aiutante di campo del Re - il Marchese Solaro del Borgo - ciò che lo stesso
Vittorio Emanuele si era portato appresso nel paniere, come ogni giorno durante
le sue visite al fronte: delle fettine di carne fredda e delle uova sode. Dopo
mangiato, Orlando sottopose al Re il testo per un messaggio alla Nazione.Egli
prese il foglio e, per il buio che era nella stanza, si avvicinò alla finestra
per leggere. Fuori pioveva a dirotto. Convenne subito, che il testo era troppo
drammatico e pessimista. Aveva un esordio troppo allarmistico.
Bisognava ridimensionare Caporetto.
Il Re di suo pugno modificò
il testo, iniziando il proclama col dire “…il nemico favorito da uno
straordinario concorso di circostanze…ecc. ecc.” e terminando, appellandosi
alla concordia di tutti, combattenti e non combattenti:“Italiani, cittadini e
soldati ! Siate un Esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è
tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede
incrollabile nei destini d'Italia suoni così nelle trincee come in ogni più
remoto lembo della Patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo
che lavora. Al nemico, che ancor più che sulla vittoria militare conta sul
dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una
sola coscienza, con una voce sola: tutti siamo pronti a dar tutto, per la
vittoria e per l'onore d'Italia!”
A merito del Re va anche la
scelta di Diaz al posto di Cadorna.
Alcuni zelanti dello Stato Maggiore sostenevano che Diaz, era una
“nullità”. D’accordo, non era che un comandante di un Corpo d'Armata; aveva,
sì, diretto un dipartimento del Comando Supremo, ma non si era distinto per
azioni particolarmente brillanti o clamorose; il Re lo scelse però non per
meriti particolari, ma per le sue doti umane. Indubbiamente, quel Re
silenzioso, che si aggirava nei campi di battaglia, Diaz lo aveva conosciuto
per quelle doti, che non avevano nulla a che vedere con i piani di battaglia. E
dato che il "marmittone" reale, "re soldato per caso", era
un attento (e molto introverso) osservatoresapeva che i soldati avevano di che
motivare la loro ostilità verso Cadorna. Davanti ad un esercito non
professionista ma di massa e di analfabeti, i Comandanti più che farsi capire
da chi non poteva capire, dovevano loro, che erano in grado di
comprendere,cercare di capire. Era più importante la questione
"psicologica" che non quella "militare". Diaz non era
un genio della strategia! Non importava
gran che: i piani di battaglia li fanno i giovani tenenti colonnelli di stato
maggiore freschi di studio e di entusiasmi. Il nuovo comandante doveva
occuparsi di ben altro, del "morale" dei soldati.
Diaz infatti non era per
niente un ripiego! ha 56 anni, è di poche parole e di sentimenti liberali, non
è ossessionato dalla politica. Al contrario di Cadorna ed altri, è tra i meno
pessimisti: non si sottrae alle responsabilità, sa fare autocritica ed ha ben
chiaro cosa occorra fare. Condivide con il Sovrano la fiducia nel soldato
italiano e da questo è ricambiato nella considerazione. Egli, da tempo, ha
capito che le spallate frontali non portano a nulla. L’operato tedesco messo in
atto a Caporetto l’ha definitivamente convinto che occorre cambiare metodo:
basta con la difesa di linea! la difesa va organizzata per capisaldi in
profondità e le artiglierie (vds. l’articolo sul n. 4/2013: 15 giugno- Festa
dell’Artiglieria) dovranno essere alla bisogna direttamente “collegate” con
tali capisaldi, per il fuoco di aderenza: sbarramento e arresto, in difensiva;
appoggio, in offensiva.
Per risollevare il morale e l’efficienza dei
combattenti effettua rotazioni più frequenti tra reparti in linea e quelli a
riposo nelle retrovie. Viene altresì migliorato il rancio e le licenze sono
concesse più facilmente; vengono distribuiti manuali di tattica ai minori
livelli per professionalizzare gli ufficiali subalterni, specie quelli di
complemento, al nuovo modo di combattere. Non disdegna iniziative non
prettamente militari quali la propaganda e il“buon umore”. Promuove infatti la
stampa di giornali nelle trincee: sono giornali dai nomi divertenti, che
servono a raccontare aneddoti, notizie curiose, …servono a pubblicare
caricature, a prendere in giro il disagio e la paura stessa, a sdrammatizzare
insomma la situazione.
In 12 mesi di comando, cioè
fino alla battaglia di Vittorio Veneto, Diaz non esporrà mai le forze in
offensive di grandi dimensioni senza la certezza del successo. Sa bene infatti
che la brillante vittoria sul Piave del 15 giugno non ha potuto avere seguito
per deficienza di forze e di mezzi, come altrettanto bene sa che gli Austriaci,
sotto la guida e con il concorso degli alleati germanici, si sono ben presto
ripresi dalla demoralizzante sconfitta, hanno ricostituito le unità con forze
numericamente superiori alle nostre e sono saldamente organizzati in posizioni
fortissime. Bisogna aspettare il momento favorevole per giocare il tutto per
tutto. Resistette quindi alle insistenze del Presidente del Consiglio Orlando
che era impaziente di attaccare, temendo la fine della guerra senza una chiara
vittoria italiana (in un esasperato telegramma questo gli affermava di
"preferire all'inazione la sconfitta", e si ventilò pure la
possibilità della sua sostituzione con il generale Giardino). Diaz può farlo,
può resistere alle pressioni dei politici perché il Re ha fiducia in lui.
La situazione si sblocca nel
settembre: sul fronte occidentale i Francesi, con la controffensiva di fine di
luglio, avevano messo in seria crisi i tedeschi; sul fronte balcanico il
vittorioso attacco di metà settembre dell'esercito alleato d'Oriente, che
inquadrava anche la nostra 35^ divisione, porterà a fine mese la Bulgaria a concludere
l’armistizio. Una vasta breccia si era aperta sul fianco dell'impero
austro-ungarico per cui il nemico per chiuderla aveva dovuto distrarre forze
dal nostro fronte e rinunciare alla soverchiante superiorità numerica fino
allora conservata. Questo era il momento tanto atteso. Diaz fu sicuro di
trovarsi di fronte soltanto la Monarchia danubiana, con un esercito ridotto
piuttosto male. Gli eventi erano dunque maturi, e Diaz agì. Il 25 settembre,
quattro giorni prima della conclusione dell'armistizio bulgaro, venivano dati
gli ordini per il rapido concentramento delle forze, delle artiglierie e dei
mezzi tecnici nel settore d'attacco prescelto, non più sull'altopiano, ma in
corrispondenza del Medio Piave: Vittorio Veneto doveva esser la prima tappa
dell'avanzata in cui avremmo gettato tutte le nostre anime. Pochi giorni dopo,
il 12 ottobre il Comando Supremo forniva le istruzioni necessarie a tutti i
reparti e il 24 ottobre iniziava l'ultima battaglia contro l'Austria: la
vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto.
Idee chiare Vittorio
Emanuele III anche sulla mancata nomina del Duca d’Aosta a Capo di Stato
Maggiore in sostituzione di Cadorna, al posto di Diaz, come avrebbero preferito
gli Alleati, che stimavano molto Emanuele Filiberto per l’ottima condotta della
Terza Armata. Rilevatrice la testimonianza di Bissolati che, nel suo diario di
guerra, riferisce che il Re gli confidò di non voler esporre in alcun modo il
prestigio del cugino e che in caso disperato Egli avrebbe abdicato per sé e il
figlio. Il Duca eral'uomo adatto a salvare la dinastia e a stipulare una pace
separata.
I fatti diedero ragione
delle scelte del Re, a volte anche sofferte.
In merito va ricordato che
Vittorio Emanuele III, Comandante Supremo delle Forze Armate, possedeva una
solida cultura militare per esercitare quella funzione. Fin da fanciullo
infatti aveva avuto una accurata preparazione militare alla Nunziatella, che
aveva poi ampliato sotto la guida dell’autoritario colonnello “filo-Prussiano”
Osio, Ufficiale di Stato Maggiore intelligente, di vasta cultura e di
indiscussa professionalità. Il Re quindi professionalmente avrebbe potuto
interferire a ragion veduta sulla condotta delle operazioni, ma, nel rispetto
dello Statuto, mai lo ha fatto. Ancora una volta ne dà testimonianza Lloyd
George a Peschiera dove si rammaricava con il Re che egli non avesse
partecipato alle citate riunioni di Roma del ’17, quando lui propose la
necessità di concentrare gli sforzi sul fronte italiano per far fuori subito
l’Austria. A questo punto il verbale
riferisce che il Re d'Italia osservò che "... non aveva sempre
l'opportunità di vedere effettuate le sue idee".E questa è un ulteriore
prova dei limiti costituzionali che il Re imponeva perfino alle sue opinioni.
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