NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 28 ottobre 2018

Il ruolo di Vittorio Emanuele III, il Re Soldato, nella “Grande Guerra”

Il parere del Gen. Luigi Ghezzi

(b.m.) – La 12^ battaglia dell'Isonzo o “Battaglia di Caporetto”, conclusasi con la ritirata al Piave che terminò il 9 novembre 1917, assunse quasi la fisionomia di una guerra perduta. Non poteva non avere ripercussione sugli Alleati, sui cui ricadeva parte di responsabilità dell'insuccesso italiano, avendo loro sempre considerato il fronte italiano secondario e di conseguenza rifiutato l’invio di truppe in l'Italia. Inoltre, prima dell'offensiva austro-tedesca, avevano ritirato perfino alcune batterie date prima in rinforzo.

Di qui il 6 novembre a Rapallo si incontrarono gli alleati per unificare l'indirizzo delle operazioni sui vari fronti, costituire un comitato di guerra interalleato e trattare gli aiuti da inviare in Italia. Presenti per l'Italia Orlando- Presidente del Consiglio, Sonnino- Ministro degli Esteri, Alfieri, Bissolati e il S.Ca.SM- Gen. Porro; per l'Inghilterra Lloyd George e i generali Smults, Robertson- Ca.SM Imperiale e Wilson; per la Francia Painlevé, Franklin, Bouillon, l'ambasciatore Barrère e il Gen. Foch.

Purtroppo né i Politici né il Gen. Porro seppero delineare esattamente la situazione delle forze italiane onde sostenere l’idoneità della linea difensiva del Piave (i Generali Robertson e Foch, ancora sfiduciati, propendevano per il ripiegamento sull’Adige, perfino sul Mincio/Po) e dare loro sicuri elementi di giudizio per decidere sull’invio in Italia di alcune divisioni. Eloquente la testimonianza dello stesso Lloyd George, che, come risaputo, è sempre stato favorevole - fin dalle riunioni di Roma della primavera e dell’estate del 1917 - a portare tutti gli sforzi dell'Intesa sul fronte italiano per far fuori definitivamente l’Austria. Egli narra come, a Rapallo, Robertson e Foch avessero ancora grandi dubbi sulla convenienza di portare aiuti all’Italia e come lui stesso avesse avuto un' "impressione negativa" dalla esposizione della nostra situazione militare fatta dal Gen. Porro. Pertanto i Capi di governo e gli SM alleati ritennero necessario conferire con il Re. Fu indetto quindi per il giorno 8 il convegno di Peschiera.

A Rapallo fu esclusivamente decisa la costituzione di un Consiglio Supremo di guerra, composto dal primo ministro e da altri membri del Governo di ciascuna delle grandi potenze occidentali belligeranti e l'esonero del generale Cadorna da capo di Stato Maggiore dell'Esercito italiano. Niente più.

A Peschiera Vittorio Emanuele III parlò con calma, chiarezza ed equilibrio, senza esagerare, né nell'ottimismo né nel pessimismo. Illustrò ai convenuti le condizioni dell'esercito italiano, spiegò con grande lucidezza le cause dell'insuccesso riconducendone alle giuste proporzioni le conseguenze e precisando il carattere di esso; affermò con commossa parola le virtù militari del suo esercito, ne escluse la dissoluzione, ne confermò i propositi di resistenza e di rivincita; difese la linea difensiva sul Piave scelta da Cadorna e dichiarò che per il momento la sua difesa sarebbe stata fatta solo dagli Italiani e, per ultimo, espresse con tanto calore la propria fede nel risveglio della coscienza nazionale da parte di tutti, tanto che gli ascoltatori tutti ne furono assai impressionati e convinti. Lloyd George, nelle sue memorie riporta: "Io sono stato molto impressionato dalla calma e dalla forza che egli dimostrò in un'occasione come quella, in cui il suo Paese e il suo trono erano in pericolo. Egli non tradì alcun segno di timore o di depressione. Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l'impressione che il suo esercito fosse fuggito…” e poi ancora “…dissipò tutte le debolezze, troncò tutte le titubanze.” Prosegue “… S.M. il Re, non chiese aiuto, chiese soltanto fiducia. Riuscì anche a sdrammatizzare il momento citando un vecchio proverbio popolare: alla guerra si va con un bastone per darle ed un sacco per prenderle, disse !” Ad un certo punto, riporta il verbale del convegno, Lloyd George e Painlevé riconobbero in quel piccolo italiano un uomo dalla testa quadra e dai nervi saldi a cui potevano affidare le loro preziose divisioni; chiamarono sir William Robertson e Foch e impartirono le necessarie istruzioni.

Terminato il convegno gli Alleati si ritirano per andare a pranzo altrove. Vittorio Emanuele resta nello stanzone dell’incontro nella palazzina. Con lui restano al freddo - la stufa da tempo ha finito la legna - Orlando e Sonnino; assieme mangiano in silenzio con l’aiutante di campo del Re - il Marchese Solaro del Borgo - ciò che lo stesso Vittorio Emanuele si era portato appresso nel paniere, come ogni giorno durante le sue visite al fronte: delle fettine di carne fredda e delle uova sode. Dopo mangiato, Orlando sottopose al Re il testo per un messaggio alla Nazione.Egli prese il foglio e, per il buio che era nella stanza, si avvicinò alla finestra per leggere. Fuori pioveva a dirotto. Convenne subito, che il testo era troppo drammatico e pessimista. Aveva un esordio troppo allarmistico. Bisognava ridimensionare Caporetto.

Il Re di suo pugno modificò il testo, iniziando il proclama col dire “…il nemico favorito da uno straordinario concorso di circostanze…ecc. ecc.” e terminando, appellandosi alla concordia di tutti, combattenti e non combattenti:“Italiani, cittadini e soldati ! Siate un Esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d'Italia suoni così nelle trincee come in ogni più remoto lembo della Patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo che lavora. Al nemico, che ancor più che sulla vittoria militare conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siamo pronti a dar tutto, per la vittoria e per l'onore d'Italia!”

A merito del Re va anche la scelta di Diaz al posto di Cadorna.  Alcuni zelanti dello Stato Maggiore sostenevano che Diaz, era una “nullità”. D’accordo, non era che un comandante di un Corpo d'Armata; aveva, sì, diretto un dipartimento del Comando Supremo, ma non si era distinto per azioni particolarmente brillanti o clamorose; il Re lo scelse però non per meriti particolari, ma per le sue doti umane. Indubbiamente, quel Re silenzioso, che si aggirava nei campi di battaglia, Diaz lo aveva conosciuto per quelle doti, che non avevano nulla a che vedere con i piani di battaglia. E dato che il "marmittone" reale, "re soldato per caso", era un attento (e molto introverso) osservatoresapeva che i soldati avevano di che motivare la loro ostilità verso Cadorna. Davanti ad un esercito non professionista ma di massa e di analfabeti, i Comandanti più che farsi capire da chi non poteva capire, dovevano loro, che erano in grado di comprendere,cercare di capire. Era più importante la questione "psicologica" che non quella "militare". Diaz non era un   genio della strategia! Non importava gran che: i piani di battaglia li fanno i giovani tenenti colonnelli di stato maggiore freschi di studio e di entusiasmi. Il nuovo comandante doveva occuparsi di ben altro, del "morale" dei soldati.

Diaz infatti non era per niente un ripiego! ha 56 anni, è di poche parole e di sentimenti liberali, non è ossessionato dalla politica. Al contrario di Cadorna ed altri, è tra i meno pessimisti: non si sottrae alle responsabilità, sa fare autocritica ed ha ben chiaro cosa occorra fare. Condivide con il Sovrano la fiducia nel soldato italiano e da questo è ricambiato nella considerazione. Egli, da tempo, ha capito che le spallate frontali non portano a nulla. L’operato tedesco messo in atto a Caporetto l’ha definitivamente convinto che occorre cambiare metodo: basta con la difesa di linea! la difesa va organizzata per capisaldi in profondità e le artiglierie (vds. l’articolo sul n. 4/2013: 15 giugno- Festa dell’Artiglieria) dovranno essere alla bisogna direttamente “collegate” con tali capisaldi, per il fuoco di aderenza: sbarramento e arresto, in difensiva; appoggio, in offensiva.

 Per risollevare il morale e l’efficienza dei combattenti effettua rotazioni più frequenti tra reparti in linea e quelli a riposo nelle retrovie. Viene altresì migliorato il rancio e le licenze sono concesse più facilmente; vengono distribuiti manuali di tattica ai minori livelli per professionalizzare gli ufficiali subalterni, specie quelli di complemento, al nuovo modo di combattere. Non disdegna iniziative non prettamente militari quali la propaganda e il“buon umore”. Promuove infatti la stampa di giornali nelle trincee: sono giornali dai nomi divertenti, che servono a raccontare aneddoti, notizie curiose, …servono a pubblicare caricature, a prendere in giro il disagio e la paura stessa, a sdrammatizzare insomma la situazione.

In 12 mesi di comando, cioè fino alla battaglia di Vittorio Veneto, Diaz non esporrà mai le forze in offensive di grandi dimensioni senza la certezza del successo. Sa bene infatti che la brillante vittoria sul Piave del 15 giugno non ha potuto avere seguito per deficienza di forze e di mezzi, come altrettanto bene sa che gli Austriaci, sotto la guida e con il concorso degli alleati germanici, si sono ben presto ripresi dalla demoralizzante sconfitta, hanno ricostituito le unità con forze numericamente superiori alle nostre e sono saldamente organizzati in posizioni fortissime. Bisogna aspettare il momento favorevole per giocare il tutto per tutto. Resistette quindi alle insistenze del Presidente del Consiglio Orlando che era impaziente di attaccare, temendo la fine della guerra senza una chiara vittoria italiana (in un esasperato telegramma questo gli affermava di "preferire all'inazione la sconfitta", e si ventilò pure la possibilità della sua sostituzione con il generale Giardino). Diaz può farlo, può resistere alle pressioni dei politici perché il Re ha fiducia in lui.

La situazione si sblocca nel settembre: sul fronte occidentale i Francesi, con la controffensiva di fine di luglio, avevano messo in seria crisi i tedeschi; sul fronte balcanico il vittorioso attacco di metà settembre dell'esercito alleato d'Oriente, che inquadrava anche la nostra 35^ divisione, porterà a fine mese la Bulgaria a concludere l’armistizio. Una vasta breccia si era aperta sul fianco dell'impero austro-ungarico per cui il nemico per chiuderla aveva dovuto distrarre forze dal nostro fronte e rinunciare alla soverchiante superiorità numerica fino allora conservata. Questo era il momento tanto atteso. Diaz fu sicuro di trovarsi di fronte soltanto la Monarchia danubiana, con un esercito ridotto piuttosto male. Gli eventi erano dunque maturi, e Diaz agì. Il 25 settembre, quattro giorni prima della conclusione dell'armistizio bulgaro, venivano dati gli ordini per il rapido concentramento delle forze, delle artiglierie e dei mezzi tecnici nel settore d'attacco prescelto, non più sull'altopiano, ma in corrispondenza del Medio Piave: Vittorio Veneto doveva esser la prima tappa dell'avanzata in cui avremmo gettato tutte le nostre anime. Pochi giorni dopo, il 12 ottobre il Comando Supremo forniva le istruzioni necessarie a tutti i reparti e il 24 ottobre iniziava l'ultima battaglia contro l'Austria: la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto.

Idee chiare Vittorio Emanuele III anche sulla mancata nomina del Duca d’Aosta a Capo di Stato Maggiore in sostituzione di Cadorna, al posto di Diaz, come avrebbero preferito gli Alleati, che stimavano molto Emanuele Filiberto per l’ottima condotta della Terza Armata. Rilevatrice la testimonianza di Bissolati che, nel suo diario di guerra, riferisce che il Re gli confidò di non voler esporre in alcun modo il prestigio del cugino e che in caso disperato Egli avrebbe abdicato per sé e il figlio. Il Duca eral'uomo adatto a salvare la dinastia e a stipulare una pace separata.

I fatti diedero ragione delle scelte del Re, a volte anche sofferte.

In merito va ricordato che Vittorio Emanuele III, Comandante Supremo delle Forze Armate, possedeva una solida cultura militare per esercitare quella funzione. Fin da fanciullo infatti aveva avuto una accurata preparazione militare alla Nunziatella, che aveva poi ampliato sotto la guida dell’autoritario colonnello “filo-Prussiano” Osio, Ufficiale di Stato Maggiore intelligente, di vasta cultura e di indiscussa professionalità. Il Re quindi professionalmente avrebbe potuto interferire a ragion veduta sulla condotta delle operazioni, ma, nel rispetto dello Statuto, mai lo ha fatto. Ancora una volta ne dà testimonianza Lloyd George a Peschiera dove si rammaricava con il Re che egli non avesse partecipato alle citate riunioni di Roma del ’17, quando lui propose la necessità di concentrare gli sforzi sul fronte italiano per far fuori subito l’Austria.  A questo punto il verbale riferisce che il Re d'Italia osservò che "... non aveva sempre l'opportunità di vedere effettuate le sue idee".E questa è un ulteriore prova dei limiti costituzionali che il Re imponeva perfino alle sue opinioni.

Gen. Luigi Ghezzi

www.cuneooggi.it


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