IL « 13 GIUGNO »
Il 13 giugno 1946
Umberto 11, Re d'Italia, lasciava il Trono e la Patria per l'esilio.
Il 13 giugno Egli
concludeva il Suo proclama agli Italiani con queste parole - che sono e
rimarranno nella storia del più alto sacrificio - per il dovere verso la Patria
comune, per l'impegno verso la Patria comune: « Con l'animo colmo di dolore ma
con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei
doveri, io lascio la mia Patria. Si considerino sciolti dal giuramento di
fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e
che vi hanno tenuto fede attraverso durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a
quanti sono caduti nel nome d'Italia ed il mio saluto a tutti gli italiani.
Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me
come sul più devoto dei suoi figli. Viva l'Italia! ».
Questo proclama -
che ebbe due stesure - consacrò il più alto sacrificio, il più alto dovere, il più
alto impegno.
Il più alto
sacrificio: lasciare la Patria.
Il più alto
dovere: non creare per la Patria comune, insorgendo, l'irrimediabile: contro
quella che pure si considerava una ingiustizia storica, nelle premesse lontane
e recenti e nell'oscura risultanza del giugno.
Il più alto
impegno: « Qualunque sorte attenda il Paese, esso potrà contare sul più devoto
dei suoi figli ».
Il Sovrano
lasciando il Regno e la Patria scioglieva dal « giuramento di fedeltà al
Re, non da quello verso la Patria ». Ciò significava che doveva continuare lo
Stato.
Esule il Re,
rimanevano in Italia gli Italiani che conservavano fedeltà alla Monarchia e «
tutti coloro il cui animo si ribella alla ingiustizia ».
A quelli ed a
questi Umberto richiamava, nel Suo proclama, il Suo esempio - di sacrificio, di
dovere, di impegno - aggiungendo l'esortazione a voler evitare l'acuirsi di
dissensi che avrebbero minacciato l'unità del Paese, frutto della fede e del
sacrificio dei nostri padri e avrebbero potuto rendere più gravi le condizioni
del trattato di pace.
Ma se l'appello
del 13 giugno imponeva l'accettazione di fatto per i doveri immediati, tutto
quanto si era verificato dai drammatici eventi del 25 luglio 1943, dell'8
settembre, del Regno del Sud, lungo le tappe preparatrici della « Liberazione
», traverso la cosiddetta (1) tregua istituzionale e la tregenda delle accuse a
Vittorio Emanuele III, sino al 2 giugno e immediatamente di poi, non rimaneva
senza eco e senza rilievo nel proclama di Umberto.
Egli, il 13
giugno, nell'atto di abbandonare la Patria e il Trono dei Suoi Avi, proclamava,
dinanzi alla Storia, per gli Italiani, tenuti alle immediate osservanze civili:
« Nell'assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io
dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso,
sulla forma istituzionale dello Stato. Eguale affermazione ho fatto subito dopo
il 2 giugno sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema
di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione
dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione dei dati
provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema, di fronte alla sua riserva di
pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il
numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non
risoluta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancor ieri, ho ripetuto che
era mio diritto e mio dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse
conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la
maggioranza voluta. Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al
potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un
gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale ed arbitrario poteri che
non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di
sangue o di subire la violenza ».
Il 18 giugno 1946
- a cinque giorni dalla partenza del Re la Corte di Cassazione in Camera di Consiglio
(Pagano primo Presidente, Colagrosso
estensore,Pilotti P.M.: conclusioni difformi) emetteva ordinanza, richiamando
la competenza del Supremo Collegio a sensi del D.LIt. 23 aprile 1946 n. 219
art. 19 e interpretando « il computo della maggioranza « avuto riguardo alle
schede bianche e nulle » in relazione al D.L.Lt. 16 marzo 1946 n. 98 art. 2.
L'ordinanza della
Corte Suprema disattendeva la requisitoria del Procuratore Generale che aveva
per oggetto i ricorsi circa il modo « di effettuare il computo della
maggioranza degli elettori votanti in favore della Repubblica o della Monarchia
», assumendo i ricorrenti che nei conteggi ufficiali per determinare la
maggioranza (a favore della Repubblica) si era tenuto conto soltanto dei voti validi:
« mentre, secondo la dizione dell'art. 2 del D. Legislativo Luogotenenziale 16
marzo 1946 n. 98, occorre riferirsi al numero dei votanti, ivi inclusi cioè
anche coloro che hanno votato scheda bianca o nulla ». Disattesa la
requisitoria del Procuratore Generale Massimo Pilotti la Corte di Cassazione «
sentite le conclusioni del Procuratore Generale » (nemmeno si riconosceva
espressamente che esse erano contrarie alla decisione adottata dalla Corte
Suprema) « ha emesso giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste, i
reclami concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum »...
e « ritenuto che per maggioranza degli elettori votanti, di cui parla l'art. 2
del D. Legislativo Lt. 16 marzo 1946 deve intendersi maggioranza degli elettori
che hanno espresso voti validi, dà atto che i voti validi complessivi a favore
della Repubblica sono 12.717.923 e quelli a favore della Monarchia sono
10.719.284 e che pertanto la maggioranza degli elettori votanti si è
pronunciata a favore della Repubblica; dà atto che i voti nulli sono
complessivamente in numero di 1.498.136 ». La cronaca prendeva atto, a sua
volta, del rito dimesso col quale la Corte Suprema aveva, a Re partito, comunicato le risultanze ed interpretazioni di cui sopra.
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