Dopo la traslazione delle salme in Italia La traslazione delle salme dei sovrani a Vicoforte (Cn) Alle 7.30 del 15 dicembre 2017 il feretro della Regina Elena di Savoia fu estumulato in forma privata dal cimitero Saint Lazare di Montpellier, la città ove la sovrana morì il 28 novembre 1952 e venne imumata. La famiglia fu rappresentata dall’avvocato sanremasco Luca Fucini, munito di apposita delega. Al rito (ripreso dalle reti televisive France 2 e Montpellier Actualité) presenziò il sindaco della città, Philippe Saurel, che concorse con l’avv. Fucini a comporre la cassa di zinco contenente la salma in custodia di legno, sulla quale fu apposta la targa “Reine Elena di Savoia, 1873- 1952”, mentre l’originaria recava “Elena di Savoia, 1873-1952”. Trasferito su furgone via Nimes-Modane e debitamente scortato dal confine franco-italiano, alle 19 il feretro giunse a Vicoforte, ove fu accolto dal conte Federico Radicati di Primeglio, dall’agosto precedente Delegato della Casa di Savoia per tutti gli atti necessari a estumulazione, traslazione e ritumulazione delle salme della Regina e di Vittorio Emanuele III, e da uno storico, in veste di consulente. Liberato dalla custodia, il feretro fu deposto nell’avello appositamente approntato e coperto da arca recante la scritta “Elena di Savoia, Regina d’Italia, 1873-1952”, alla sinistra dell’altare della Cappella di San Bernardo del Santuario-Basilica, presenti i predetti, il Rettore, monsignor Bartolomeo Bessone, Vicario della diocesi di Mondovì, il sindaco di Vicoforte, Valter Roattino, e l’architetto Claudio Bertano, autore del progetto monumentale. La deposizione fu curata dall’Impresa Onoranze funebri di Flavio Tallone (Centallo), con assistenza dell’Impresa di Stefano Grassini (Busca) che, in tempi strettissimi e massima discrezione, approntò le tombe dei sovrani, ornate di marmi (bardiglio, nero Belgio, verde Levanto e giallo Provenza), in perfetta armonia con la Cappella, con approvazione della Sovrintendenza competente per territorio. Informata dell’avvenuta traslazione, alle 17.45 la Principessa Maria Gabriella di Savoia la annunciò con una nota ripresa dall’agenzia Ansa (sede di Parigi) poco prima che essa fosse comunicata dal sindaco di Montpellier nella conferenza stampa da lui convocata per le 18. Diffusa dai media, la notizia fece supporre che fosse imminente la traslazione della salma di Vittorio Emanuele III. In effetti, presente il conte Radicati, tempestivamente recatovisi dal Piemonte, la sera del 16 dicembre il feretro contenente la salma del Refu rimosso dall’altare della chiesa di Santa Caterina in Alessandria d’Egitto (ove era stato murato il 31 dicembre 1947, con la scritta “Vittorio Emanuele di Savoia, 1869-1947”). La mattina del 17 esso venne trasferito con volo militare all’aeroporto di Levaldigi (Cuneo), donde proseguì per Vicoforte a cura della citata Impresa Tallone. Accompagnato dal conte Radicati, vi giunse alle 12. Accolto dal Rettore del Santuario, dal consulente, dal sindaco di Vicoforte e dal prefetto vicario di Cuneo, Maria Antonietta Bambagiotti, con gli onori disposti dal cavaliere melitense Maurizio Bettoja il feretro fu deposto alla destra dell’altare della Cappella ove riposano le spoglie di Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630 e fondatore del Santuario quale Mausoleo della Casa, monumento nazionale dal 1881. Ai lati del feretro del Re(la cui arca reca la scritta “Vittorio Emanuele III, Red’Italia, 1869-1947”) si disposero quattro carabinieri e un caporale della fanfara della Brigata Alpina “Taurinense”, che suonò il Silenzio mentre il feretro scendeva nell’avello. Su entrambe le arche è incisa la Stella d’Italia. Di tutto fu redatto verbale firmato dal Rettore, dal consulente e dal sindaco. Le due sepolture sono documentate da videoripresa privata. Alla tumulazione della Regina Elena il consulente osservò che per allietarsi dell’evento non occorre essere monarchici; basta sentirsi italiani. Alla deposizione del feretro del Re. Aggiunse che Vittorio Emanuele III era morto tre giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione della Repubblica, da cittadino italiano all’estero, nella pienezza dei suoi diritti di ex capo dello Stato e delle Forze Armate. I suoi antefatti La tumulazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Vicoforte fu il punto di arrivo di un lungo percorso. Il 19 marzo 2011, 150° della proclamazione del regno d’Italia, il Santuario venne indi250 Autore viduato quale sede idonea ad accogliere le salme del Ree della Regina in una seduta della Associazione senatori del regno tenuta al Palazzo della Provincia di Roma con la partecipazione e l’approvazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia, suo componente. Il 22 aprile 2013, sentiti il consiglio di amministrazione del Santuario e il suo rettore, Mons. Bessone, il vescovo di Mondovi, Luciano Pacomio, accolse l’istanza rivoltagli dalla Principessa e dal presidente della predetta associazione di accogliere le salme a Vicoforte. Dopo lunghi preliminari, il 10 maggio 2017 il principe Vittorio Emanuele di Savoia e la principessa Maria Gabriella a nome di tutti discendenti dei sovrani scrissero al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, auspicando che il Centenario della conclusione della Grande Guerra offrisse motivo per traslare in Italia e congiungere le salme del “Re Soldato” e della sua Consorte. Vennero di seguito attivate le complesse procedure previste dalla deliberazione della Giunta Regionale del Piemonte 8 maggio 2012, n. 27-3831 per il rilascio di autorizzazioni concernenti l’individuazione di siti idonei a sede di tumulazione in località differenti da cimitero ex art. 105 D.P.R. 19 ottobre 1990, n. 285 e art. 12 L.R. 31 ottobre 2007,n.202. In parallelo fu approntato e proposto alla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria, Asti e Cuneo il progetto di intervento nella Cappella di San Bernardo all’interno della Basilica di Vicoforte per la realizzazione di monumenti/arche funerarie in marmo “per sepolture dei resti di due persone meritevoli di speciali onoranze”. Acquisiti ope legis tutti i pareri richiesti, ebbero luogo estumulazione, traslazione e ritumulazione, come sopra sinteticamente ricordato. Al termine della duplice sepoltura di Vittorio Emanuele III il conte Radicati precisò ai moltissimi “media” presenti che tutto era avvenuto nelle forme proprie di una cerimonia privata, quindi con la massima discrezione. Altro verrà documentato a tempo debito. Nella dichiarazione rilasciata all’Ansa di Parigi, come poi in interviste a “La Stampa”, al “Corriere della Sera” e ad altri “media”, a nome della Famiglia la Principessa Maria Gabriella di Savoia ha ringraziato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per aver “fattivamente propiziato” il ricongiungimento delle salme dei nonni in patria, “per ricomporre la storia d’Italia” e ha giudicato il Santuario di Vicoforte, imponente e suggestivo, propizio al raccoglimento e alla meditazione, sito ideale e “vero Mausoleo di Casa Savoia”. Il 18 dicembre Vittorio Emanuele principe di Napoli, con i famigliari e ampio seguito, ha reso omaggio alle tombe, auspicando la collocazione al Pantheon, come altri fecero, lamentando che la Titolo corrente 251 traslazione fosse avvenuta in forma occulta, quasi frutto di complotto. Qualcuno insinuò persino un oscuro baratto tra intervento del Capo dello Stato e carte sull’esito del referendum del 2-3 giugno 1946. Dal canto loro, il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, hanno motivato il concorso pubblico alla traslazione come “gesto umanitario”. Alla rivisitazione del lungo regno di Vittorio Emanuele III Da tempo Vittorio Emanuele III è ai margini della ricerca di storici italiani. Non sono mancati lavori settoriali, in specie con riferimento alla Grande Guerra1. La sua biografia organica più recente è però quella del francese Frédéric Le Moal (2015)2, tradotta in Italia nel 2016. Il suo profilo storico rimane dunque in tanta parte da esplorare. Giova ripercorrere sinteticamente le tappe principali del suo lungo regno, che può essere utilmente scandito in diverse fasi: il primo quindicennio (1900-1914), dalla conflagrazione europea alla Vittoria del 1918, la lunga crisi del regime liberale e l’avvento del governo di partito unico (1919-1938), l’alleanza con la Germania di Hitler (1938-1943), comprendente l’emanazione delle leggi anti-ebraiche e l’inizio della ricostruzione, tra il 25 luglio/8 settembre 1943 e, l’istituzione della Luogotenenza, conferita al figlio, Umberto di Piemonte, con effetto dal 5 giugno 1944, e l’abdicazione del 9 maggio 1946, altrettanti segmenti discontinui, segnati da cesure profonde e drammatiche, sia per la sua persona e per la Casa, sia per il Paese e l’assetto costituzionale dello Stato, a tacere degli eventi militari, politici e sociali. Trasferitosi in Egitto, ove fu regalmente accolto da ReFarouk, un giorno il sovrano confidò al suo aiutante di campo, generale Paolo Puntoni, che i Savoia non avevano avuto molta fortuna. Il primo regnante del suo ramo, Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Redi Sardegna, aveva promulgato lo Statuto, riconosciuto libertà e uguaglianza di diritti per tutti i regnicoli, impugnato la “bandiera tricolore italiana” nella guerra del 1848-1849 con1 A. UNGARI, La guerra del Re. Monarchia , sistema politico e Forze armate nella Grande Guerra, Milano, Luni, 2018. 2 F. LE MOAL, Victor-Emmanuel III. Un roi face au fascisme, Pais, Perrin, 2015. L’opera è stata tradotta da Pasquale Faccia per le edizoni LEG (Vittorio Emanuele III, Gorizia, 2016). Frutto di lunghe ricerche negli archivi francesi e nell’Archivio Segreto Vaticano e dello studio di memorialistica, saggi altrui e dei Documenti diplomatici italiani (notoriamente lacunosi), l’opera presenta qui e là di passi curiosi. Vi si legge, per es., che nel 1945 la guerra terminò “nel furore dell’Apocalisse (…) Mussolini viene fucilato durante la fuga, prima di essere impiccato in piazzale Loreto a Milano” (p. 409). 252 Autore tro il potentissimo impero d’Austria. Sconfitto nella “brumal Novara” il 23 marzo 1849, aveva abdicato e pochi mesi dopo era morto in esilio, a Oporto, col nome di conte di Barge, piccolo comune prealpino del Cuneese. Suo padre, Umberto, era stato assassinato a Monza il 29 luglio 1900. Solo suo nonno, Vittorio Emanuele II, era stato celebrato “Padre della Patria”, ma aveva conosciuto più amarezze che gioie, il “brut fardèl” del potere. Molto prima di dar vita al regno d’Italia, era stato scomunicato da Pio IX come tutto il suo governo e quanti avevano votato leggi che oggi anche i papi e il clero cattolico giudicano di mero buon senso. Ma quelli erano i tempi. I sacerdoti che amministrarono il viatico della buona morte a Camillo Cavour e a suo nonno furono severamente puniti. Poi era toccato a lui, Reborghese per gli uni, socialista per altri, “Re Soldato” nella Grande Guerra, “re fascista” secondo molti polemisti e anche secondo storici che proposero il “ventennio mussoliniano” quale diarchia, non mera dittatura, ma ritennero che il Reavesse svolto un ruolo marginale rispetto al duce del fascismo e “capo del governo”. Vittorio Emanuele III morì col titolo di conte di Pollenzo, una borgata nella valle del Tanaro ricordata per la vittoria di Stilicone sui Visigoti di Alarico (402 d. Cr.). Fautore dell’Istituto Internazionale per l’Agricoltura (Roma, 1908), per decenni vi aveva curato personalmente poderi sperimentali avviativi sin dai tempi di Carlo Alberto. Alla morte (Ginevra, 18 marzo 1983) anche suo figlio, Umberto II, sovrano leale e rassegnato, a sua era volta all’estero, col titolo di conte di Sarre. Il 13 giugno 1946 aveva lasciato l’Italia (non la Patria, tenne a precisare) protestando contro il “gesto rivoluzionario” del governo che attribuì al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, le funzioni di Capo dello Stato prima che fossero noti in via definitiva i risultati del referendum sulla forma dello Stato. In vigore dal 1° gennaio 1948, proprio durante i funerali del “Re Soldato”, la Costituzione della Repubblica interdisse a lui e ai discendenti maschi il rientro e il soggiorno in Italia. Iniziò il suo esilio infinito, sofferto sino al 18 marzo 1983, quando morì a Ginevra. Per sepolcro volle l’Abbazia di Altacomba, in Savoia, culla della dinastia. Nella citata biografia Le Moal domanda perché il giudizio su Vittorio Emanuele III rimanga ancora lontano dalla pacatezza storiografica. Malgrado debolezze, errori ed omissioni, egli osserva che “Vittorio Emanuele III merita qualche cosa di più di un processo senza fine”. Forse la sepoltura nella chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d’Egitto ha concorso a renderlo più lontano dal Paese, immeritevole di memoria a tutto tondo, sempre più sbiadito, anzi, e schiacciato da polemiche interminabili. Però la traslaTitolo corrente 253 zione a Vicoforte nel 70° della morte potrebbe forse riaprire il confronto critico sulla sua figura, che è tutt’uno con mezzo secolo della storia d’Italia, non per apologia cortigiana (il Rela schivò sempre da vivo) né per tardive quanto superflue postume “assoluzioni”, di cui la storiografia non sente alcun bisogno. Il primo quindicennio del “re borghese” Vittorio Emanuele III regnò quarantasei anni. Non aveva alcuna premura di salire al trono. Accettò la corona perché suo padre, Umberto I, fu assassinato da un complotto internazionale che utilizzò un anarchico per innescare in Italia il corto circuito reazione-rivoluzione. Calcò la corona perché non volle si pensasse che un Savoia è vile. Rispose alle attese del Paese che chiedeva pace interna e sicurezza ai confini. Nel 1911 le feste del Cinquantenario del regno evidenziarono gli enormi progressi compiuti dal Paese in ogni settore della vita pubblica e privata. Per molti aspetti l’Italia era all’avanguardia culturale e civile nel mondo. Cresciuto nel culto della storia e formato alla disciplina nel Collegio Militare della “Nunziatella”, il trentunenne principe di Napoli ascese al trono per dovere verso l’Italia, divenuta regno appena quarant’anni prima e riconosciuta dalla Comunità internazionale solo nel 1867. Sposato nel 1896 con Elena Petrovic-Niegos, principessa di Montenegro, e ancora senza figli, da giovane il sovrano Emanuele III dette esempio del freddo coraggio che fu tratto distintivo della sua persona. Erudito, dotato di memoria formidabile, sempre padrone di sé sino ad apparire glaciale, cercò subito il consiglio di uomini saggi e indipendenti. Il senatore Pasquale Villari, antico massone, da lui sollecitato a parlare con la franchezza che si deve al re, gli consigliò di “cacciare a pedate i cortigiani” e di fare di testa sua. Identici suggerimenti gli dettero le più apprezzate personalità consultate. La Monarchia si fondava sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto, patto irrevocabile tra il sovrano e la nazione. Il Renon era superiore alle leggi: controfirmava norme e decreti approvati dall’esecutivo e dal legislativo. Il regno era e rimase un “genus mixtum”, Monarchia rappresentativa vincolata dall’articolo 5 dello Statuto che riservava al Reil comando delle forze armate (senza chiarire chi dovesse davvero capitanarle in guerra) e il dominio sulla politica estera (stipula dei trattati non comportanti oneri: una finzione, giacché ogni patto o accordo ne genera sempre), incluse la dichiarazione e la proclamazione della guerra. Triangolo scaleno a tutto vantaggio d e tacitamente corretto in Monarchia “parlamentare”, anche se nei momenti cruciali le decisioni ultime furono assunte dal Ree dal suo governo (ovvero dai ministri più influenti). Le Camere ratificarono. In sintonia col giovane re, il governo, presieduto dal democratico Giuseppe Zanardelli e con Giovanni Giolitti all’Interno, il 14 novembre 1901 fissò le “materie da sottoporsi al Consiglio dei Ministri”. Da quel momento spettò all’esecutivo indicare chi avrebbe occupato cariche apicali; ma l’esercizio del potere rimase incardinato sulla persona del sovrano. Vittorio Emanuele III ebbe chiaro il quadro: era il primo funzionario della Corona. Perciò abitò a Villa Savoia, lontano dal Quirinale, ove andava come un impiegato all’ufficio. Vi svolgeva le “pratiche” e se ne tornava agli studi e agli affetti domestici. Dedicava il giovedì e la domenica alla famiglia, la Regina Elena e i figli (Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e Maria). Bersaglio di numerosi attentati (molti progettati, alcuni giunti quasi a segno: nel 1912 e, peggio, nel 1928 quando scampò per pochi minuti alla strage di Milano, ove si era recato per inaugurare la Fiera Campionaria: un crimine dalla matrice tuttora oscura, costato oltre venti morti e sessanta feriti gravi), il Reaffrontò in prima persona i momenti più critici della vita pubblica, non per ambizione di potere personale ma, ripetutamente, per debolezza del governo e inconcludenza del parlamento. I passaggi più discussi del suo regno: l’ascesa di Mussolini… A Vittorio Emanuele III sono addebitate “colpe” che non sono affatto sue. Tra le molte, ricordiamo le più ricorrenti: l’“avvento del fascismo” e del “regime di partito unico” dopo l’assassinio di Matteotti (1924), che aprì la strada alla “dittatura”; le “leggi razziali” (1938); la stipula dell’armistizio annunciato l’8 settembre 1943 e la “fuga di Pescara”. In un polemico opuscolo del 1946, Luigi Salvatorelli (che però poi si corresse) accusò Vittorio Emanuele III di tre “colpi di Stato”: l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra nel maggio 1915; l’incarico a Mussolini nell’ottobre 1922; e il 25 luglio 1943, quando impose le dimissioni al duce del fascismo e lo sostituì col maresciallo Pietro Badoglio. Senza pretese di completezza, in vista di approfondimento critico e quale contributo al dibattito si possono avanzare alcune sintetiche considerazioni sulle principali accuse mossegli. Se l’ingresso dell’Italia nella guerra europea rimane oggetto di valutazioni contrastanti sul metodo e sul merito, riproposte in coincidenza con il Centenario della Grande Guerra, è innegabile che essa spazzò via gli imperi russo, turco-ottomano, austro-ungarico e gerTitolo corrente 255 manico. L’Italia rimase la Monarchia più forte e autorevole del continente europeo, con aggravio della sua responsabilità nella comunità internazionale. Lo si constatò nella stipula dei cinque trattati di pace (Versailles, Saint-Germain, Neuilly, Trianon e Sèvres), e in seno alla Società delle Nazioni. Nell’ottobre 1922 si aggrovigliarono antichi e nuovi nodi della storia d’Italia: la debolezza dello Stato dinnanzi alla tracotanza dei partiti, l’impossibilità di formare un governo stabile per la legge elettorale (la proporzionale”, voluta da socialisti e dal partito popolare di don Luigi Sturzo), che frantumò la Camera dei deputati in quattordici gruppi e gruppetti, la richiesta perentoria di ordine pubblico e di un drastico taglio degli sperperi di denaro pubblico anche per rispetto dell’enorme costo umano sopportato nella Grande Guerra. Tra il 1918 e il 1922 si susseguirono sei governi inconcludenti. Anche Giolitti nel giugno 1921 rassegnò le dimissioni del suo quinto e ultimo ministero. A metà ottobre del 1922 il Rechiese ruvidamente al presidente del Consiglio, Luigi Facta, di convocare le Camere. Facta non lo fece. Trattava sottobanco con tutti, a cominciare da Mussolini e d’Annunzio. Altrettanto facevano altri maggiorenti dell’area costituzionale. Per disinnescare la minaccia della “marcia su Roma” (militarmente inconsistente) e riportare la crisi extraparlamentare nei binari istituzionali, il Revarò il governo di coalizione nazionale insediato il 31 ottobre. Presieduto da Benito Mussolini, questo comprese fascisti, nazionalisti, liberali, demosociali ed esponenti del partito popolare italiano, come il futuro presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, sottosegretario all’Industria, il cui titolare fu il giolittiano conte Teofilo Rossi di Montelera. A nome dei popolari Alcide De Gasperi approvò il nuovo governo, che ebbe 306 voti a favore, 117 contrari alla Camera, 184 si e 19 no al Senato (ove i fascisti erano solo due su circa quattrocento). È dunque arduo sostenere che sia stato il Rea volere il fascismo al potere. Giolitti osservò che il Parlamento non aveva assicurato un governo al paese e il paese se l’era dato da sé. Dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), per protesta contro Mussolini, tacciato quale mandante politico del delitto3, socialisti, repubblicani, popolari e ‘democratici’ seguaci di Giovanni Amendola disertarono l’Aula. Una delegazione delle opposizioni si fece ricevere dal re. Vittorio Emanuele III fece capire che non toccava a lui ma alle Camere risolvere la crisi. Era un sovrano costituzionale. Se nell’ottobre 3 E. TIOZZO, Matteotti senza aureola, II, Il delitto, Foggia, Bastogi, 2016. 256 Autore 1922 erano appena 37, dopo le elezioni del 6 aprile, i deputati iscritti al Partito nazionale fascista erano 227 su 535. L’ottantatreenne Giolitti puntò a formare una nuova maggioranza in Aula, ma rimase quasi solo e non condivise l’astensione dall’Aula adottata dai socialisti (a differenza dei comunisti che rimasero alla Camera), dai popolari, dai democratici capitanati da Giovanni Amendola e dai repubblicani. Mussolini rimase al governo non per superiorità propria ma per gli errori delle opposizioni, come argomentato da Renzo De Felice, Roberto Vivarelli e altri. Dall’indurimento del regime, generato dalle leggi “fascistissime” (a925-1827) e dopo il Concordato tra lo Stato e la Chiesa (11 febbraiuo 1929) per larga parte dell’antifascismo le sorti del duce furono accomunate a quelle della Monarchia : “simul stabunt, simul cadent…”. … e le leggi razziali Nel 1938 il governo Mussolini contava tredici anni di successi: il ripristino dell’ordine pubblico (a prezzo delle libertà politiche), il risanamento della lira, il Concordato (avversato da una minoranza esigua di colti), una notevole efficienza dei servizi, potenziati, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, il riordino della Banca d’Italia, l’impresa di Etiopia, che i contemporanei vissero in modo diverso da come fu giudicata dopo la seconda guerra mondiale e la catastrofe di tutti gli imperi coloniali. Mussolini e il Partito nazionale fascista orchestrato da Achille Starace erano al culmine del consenso. Nondimeno il Reera più che mai “isolato”. La Camera dei deputati era formata da candidati designati dal Gran Consiglio del Fascismo (sin dal 1928 elevato a organo dello Stato: una sorta di “terza Camera”) e votati in blocco dagli elettori. La Camera era dunque prona al capo del governo. Altrettanto valeva per molti senatori. Lo si vide proprio nell’approvazione delle leggi “per la difesa della stirpe”. I patres in carica erano oltre 400. In aula andarono in 160; i voti contrari (segreti) furono dieci (tra i quali sicuramente Luigi Einaudi ed Emilio De Bono). La legge passò dunque col favore di un terzo dei senatori in carica, tra i quali si contavano tredici ebrei che, dopo l’approvazione delle famigerate leggi, rimasero indisturbati al loro posto, come ha documentato Aldo Pezzana in Gli uomini del Re(Bastogi, 2001). Alla Camera si registrò l’unanimità dei 360 deputati presenti sui 400 in carica. Italo Balbo, dichiaratamente avverso, risultò “assente ingiustificato”. Le “leggi razziali”, dunque, furono non già volute ma subite da Vittorio Emanuele III, consapevole della loro grave ricaduta negativa all’interno e Titolo corrente 257 all’estero, ma impossibilitato a rifiutarne la firma. Riluttante ma senza alcuna alternativa costituzionale le promulgò perché erano state deliberate dalle Camere che, piaccia o meno, rappresentavano gli italiani. Non era stato il Rea mettere il Paese sulla china arrivata sino a quel punto. Non si levò alcuna voce di netta opposizione né di ferma condanna: non da parte di ‘liberali’, né dalla Chiesa cattolica. Avrebbe dovuto abdicare? Se lo avesse fatto, la responsabilità sarebbe gravata sul trentaquattrenne Umberto di Piemonte, il cui erede, Vittorio Emanuele principe di Napoli, aveva appena un anno. Se a sua volta anche Umberto avesse abdicato per non sottoscrivere le “leggi della vergogna” (come efficacemente ha scritto Valerio Di Porto), il Paese sarebbe finito nel caos, come volevano i fascisti repubblicani, ormai in maggioranza nel partito e nella milizia volontaria di sicurezza nazionale. Va aggiunto che da marzo l’Italia confinava con la Germania, che aveva annesso l’Austria:una annessione avallata da plebiscito entusiastico dei suoi abitanti. Nel 1904 Vittorio Emanuele III presenziò alla consacrazione della Sinagoga di Roma. Nel 1939-1942 uno stuolo di ebrei andava a estivare negli alberghi delle valli frequentate dal sovrano e dai Principi perché vi si sentiva più al sicuro. Del resto un Savoia era l’ultimo a poter credere che esistesse una “razza italiana” dal momento che la Casa aveva alle spalle secoli di matrimoni tra francesi, spagnoli, austriaci, sassoni, sino a Elena di Montenegro e a Maria José del Belgio… Vittorio Emanuele III comprese l’obiettivo politico-istituzionale delle leggi razziali volute da Mussolini: isolarlo ulteriormente a vantaggio delle correnti repubblicane, decise a indebolire l’unica Monarchia consistente del continente, mentre in Spagna divampava la guerra civile e in Europa dilagavano regimi nazionalsocialisti e comunisti di massa. L’antisemitismo era la testa d’ariete per abbattere quanto rimaneva della tradizione monarchica e liberale, due volti di una stessa civiltà politica. Il tema è tornato al centro della riflessione con l’opera di Guido Melis La macchina imperfetta (il Mulino, 2018). Il sofferto epilogo del regno Il 25 luglio 1943, dopo il voto del Gran Consiglio del fascismo (non era stato il Rea farne il tutore del Parlamento e il depositario di poteri straordinari) e al termine del drammatico colloquio a Villa Savoia, Vittorio Emanuele III impose a Mussolini le dimissioni da capo del governo. Con somme cautele e ritardi comprensibili date le circostanze militari del momento, il suo successore, Pietro Badoglio, ottenne che gli anglo-ameri258 Autore cani concedessero all’Italia di arrendersi senza condizioni: non armistizio, ma “resa” come imposto da Stalin agli anglo-americani nella Conferenza di Casablanca (14-26 gennaio 1943). A quel punto occorreva salvare la continuità dello Stato, come è stato riconosciuto non solo da storici quali Giovanni Artieri, Francesco Perfetti e da Antonio Spinoza (Vittorio Emanuele III. L’astuzia di un re, Mondadori, 1990) ma anche dal presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Per farlo vi era un unico modo: evitare la cattura della Famiglia Reale (incluso il principe ereditario, Umberto; la principessa di Piemonte trovò tempestivo rifugio in Svizzera per sé e i quattro figli: Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice) e del governo da parte dei germanici, senza mettersi platealmente in braccio ai vincitori, che proposero al Redi accoglierlo su una loro nave (vale a dire sul loro “territorio”). Perciò il governo decise di lasciare Roma (militarmente indifendibile e poi “città aperta”, anche in ossequio a Pio XII, sovrano dello Stato del Vaticano) per la Puglia meridionale (esattamente Brindisi), ove non vi erano né tedeschi né anglo-americani. Anche Sergio Romano, mai prodigo di riconoscimenti ai Savoia, conclude che quel trasferimento fu possibile senza le insinuate ma non mai documentate trattative sottobanco tra Badoglio e Kesselring. Il Re, il Maresciallo Badoglio, il ministro degli Esteri, Raffaele Guariglia, il Comando Supremo, la diplomazia, ecc. ecc. avrebbero potuto fare di più e di meglio nei quarantacinque giorni tra il 25 luglio e l’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943)? È possibile, ma compito della storia è documentare e spiegare gli eventi, non immaginare percorsi diversi dal corso dei fatti. Settantatre anni dopo la vittoria della Repubblica al referendum sulla forma dello Stato (2-3 giugno 1946), la traslazione in Italia delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena potrebbe propiziare la rivisitazione del lungo travagliato regno e nuove risposte ai molti interrogativi ancora aperti sull’ultimo mezzo secolo della Monarchia in Italia, senza dimenticare il monito di Tacito: “Iniquissima haec bellorum conditio est; prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputantur”.
Articolo del Prof. Aldo Mola, Presidente della Consulta dei Senatori del Regno.
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