NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 23 gennaio 2019

Il “Diciannovismo”: tutti contro tutti la sciagura dell’Italia

da "il Giornale del Piemonte 13/1/2019"
di Aldo A.mola


Le “ingerenze straniere" di cent'anni fa. Il presidente USA Wilson.
 Il 23 aprile 1919 il presidente degli Stati Uniti d’America, Thomas Woodrow Wilson, si rivolse direttamente agli italiani sulla questione che stava avvelenando il Congresso per la pace in corso a Parigi: la sorte di Fiume. Pubblicata in un quotidiano francese e subito rimbalzata in Italia, la dichiarazione passò alla storia come "messaggio" e/o persino “appello" Wilson arrivava da una famiglia di predicatori. Combattuta la dislessia con la stenografia e afflitto da gravi problemi di salute, come Franklin D. Roosevelt e altri presidenti degli USA (e non solo), appartenne alla serie dei "malati che governarono il mondo" Profeta all’estero più che in patria, ove venne sconfitto e sconfessato. In preda a un raptus imperialistico, il governo italiano pretendeva la città di Fiume in aggiunta all'applicazione integrale dell’accordo di Londra del 26 aprile 1915, cioè il confine dal Brennero al Quarnaro. Ma anche il neonato Stato serbo-croato-sloveno voleva Fiume con la Dalmazia  e il confine a ovest di Trieste e di Gorizia. A suo avviso l'Italia non meritava niente. Belgrado contava sul sostegno della Francia: non solo l’irruento Georges Clemenceau, "il tigre” ma anche il gran maestro onorario della Gran Loggia Paul Peigné, un generale che propugnò le "Revendications nationales" serbe, in linea con la autodeterminazione delle nazionalità "frantumate o oppresse" dagli Imperi Centrali (Germania e Austria- Ungheria) ormai sconfitti.
Il Messaggio di Wilson fu una ingerenza clamorosa negli affari interni dell’Italia, che aveva visitato suscitandovi l’entusiasmo delle solitamente stupide folle, orchestrate dA giornali e da élite che si credevano furbe. Ma egli era abituato a ben altre ''interferenze" Con le tempie circonfuse del Premio Nobel per la pace (Enrico Tiozzo documenta quante altre sciocchezze vennero deliberate tra Oslo e Stoccolma) aveva alle spalle micidiali missioni militari nel Messico e nell'America Centrale, mentre gli europei erano intenti ad annientarsi a vicenda. Per protesta contro il missionario d’oltre Atlantico la delegazione italiana abbandonò Parigi. Il 25 aprile l’anglofilo e anglofono Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d’Italia e già sindaco di Roma, esecrò Wilson in un Manifesto agli italiani perché negava “il ricongiungimento all’Italia di Fiume e di quei territori sulla costa orientale dell’Adriatico (la Dalmazia) che le spettano per antiche imprescrittibili ragioni di diritto nazionale riconsacrato dal recente sacrificio di innumerevoli suoi figli e dalla inflessibile volontà di quelle popolazioni”. Retorica arcaica. Per certificarne la veridicità vi era un solo modo: indirvi referendum tra gli abitanti, ma a Roma non sarebbe convenuto affatto, perché le sue pretese sarebbero state sconfessate alle urne dalla popolazione delle terre pretese. Infatti anche l’annessione del Trentino e della Venezia Giulia avvenne per effetto del Trattato di pace di Saint-Germain, senza alcun plebiscito.
Wilson, invero, invocò l'amicizia tra statunitensi e italiani e persino la loro consanguineità, ma ribadì che, assegnata Trieste all’Italia, Fiume era e rimaneva il porto degli Stati gravitanti verso l’Adriatico: Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia. Alcuni chiacchieroni usi a confondere la Storia con le macchie sulle lenzuola, insinuarono che a convincersene fosse stato aiutato da fascinose dame jugoslave: argomento riecheggiante la Fiaba secondo la quale a promuovere l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II contro l’impero d’Austria nel 1858-1859 sarebbe stata la usurata contessa di Castiglione anziché, come di fatto fu, la decisione dell’imperatore di mostrare all’Europa che la Francia non era più quella costretta all’armistizio di Fontainebleau e poi sconfitta a Waterloo nel 1814-1815 ma una grande potenza che, mentre vinceva gli asburgici a Magenta e a Solferino, entrava in Hanoi e protendeva le sue mire verso il Siam (non per caso oggi si chiede con forza la traslazione della sua salma dall’abbazia di Famborough, vicino a Londra, agli Invalidi o nella chiesa di Sant’Agostino, a Parigi).
Malgrado l’assenza dell’Italia, i congressisti proseguirono i lavori con l’approvazione dello statuto della Lega delle Nazioni (18 aprile), la spartizione dell’impero ottomano e la convocazione coatta dei tedeschi "ad audiendum verbum”. Il 7 maggio Orlando e Sonnino tornarono silenti sulle rive della Senna. Il 2 maggio nel lacunoso "Diario” Sonnino ammise: "non resta che rassegnarsi alle imposizioni di Wilson, attenuate in parte, se possibile, dalle proposte degli alleati”: i quali, invece, erano d’accordo con il presidente degli
USA, perché avevano sì accettato l’Italia come “associata” nella guerra ma non ne erano affatto amici.

Il gioco dei quattro cantoni in assenza di Europa
Quel precedente di cent’anni addietro aiuta a valutare la pochezza delle odierne scorribande di “capi" e "capitani" italiani in cerca di “alleati” in partiti e movimenti in altri Stati dell’Unione Europea. E' il gioco dei quattro cantoni. Ti cerco, ti tocco... E poi? Oltralpe incontrano accoglienze gelide e talvolta (è il caso dei Gilè gialli francesi a Luigi Di Maio) vengono considerate inammissibili interferenze in affari interni, perché il livello di integrazione politica rimane molto basso. Per molti aspetti, invero, gli affannosi Guerin Meschini d’oggi giorno non costituiscono nulla di nuovo rispetto a quanto praticato molto prima dell’assetto faticosamente raggiunto dall’Unione con il Trattato di Lisbona.

Al tempo del bipolarismo planetario, vale a dire dalla Guerra Fredda al crollo dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (1946-1990), era scontato che i partiti dei singoli Paesi cercassero legittimazione da parte dei rispettivi alleati preponderanti. Ma quelli erano partiti dalla lunga storia: anzi, come nel caso del Partito comunista italiano, a lungo erano stati sezione italiana della Terza Internazionale, un tentacolo di un polipo con la testa a Mosca. Anche dopo lo scioglimento del Komintern, i partiti comunisti “occidentali” partecipavano ai congressi della Magna Mater Frugorum, il Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). I loro delegati vi pronunciavano discorsi, condividevano propositi e ne tornavano con direttive. Accanto al fiancheggiamento "alla luce del sole" ve n’era un altro, occulto, talvolta con un piede e mezzo nell’illegalità, a copertura di reati continuazione degli schieramenti operanti nella seconda guerra mondiale.
Gli Alleati (USA e Gran Bretagna) e URSS avevano lottato insieme contro Germania, Italia, Giappone e loro satelliti, ma con obiettivi ultimi del tutto divaricati. Il "sistema” sovietico aveva mutato l’abito ma non il il fine.
Negli stessi decenni postbellici i partiti "occidentali” non comunisti dei Paesi europei non furono altrettanto intrinseci dell’unico vero garante della loro libertà, cioè gli Stati Uniti d’America, perché gli USA non erano (come non sono) un regime di partito unico, volto all’asservimento ideologico e pratico delle dirigenze dei paesi amici o vassalli. Per rimanere al caso dell’Italia, socialdemocratici, repubblicani ispirati da Randolfo Pacciardi, liberali e democristiani non ebbero referenti diretti nei congressi dei Democratici e dei Repubblicani d’oltre Atlantico, le cui dinamiche spesso rimasero impenetrabili per chi le osservava con gli occhiali italocentrici. Il vero discrimine era costituito dall’invito ad assistere all’insediamento dei Presidenti che via via si susseguirono alla Casa Bianca. Rimane emblematico il caso di Lido Celli, invitato alla Casa Bianca sia da Carter che da Reagan. 

Il caos istituzionale: capipartito o ministri? Lo Stato dov'è?
Lo sconcerto della caccia al partito amico Oltralpe da parte di quelli italiani sta nella asimmetria fra le loro aspirazioni e la configurazione dei poteri istituzionali. È paradossale che un vicepresiderite del consiglio (Salvini) visiti un Capo di Stato, quasi ne fosse egli stesso presidente, a caccia di un’alleanza elettorale e che un altro vicepresidente (Di Maio) offra aiuto a un movimento che da mesi organizza manifestazioni caotiche contro il presidente di un Paese amico senza valutare le motivate ritorsioni non contro il suo movimento ma contro 10 stesso Stato italiano e i suoi cittadini. La condotta di Luigi Di Maio, del suo socio Davide Casaleggio e del ministro Toninelli al Quai d’Orsay offre occasione per rinfacciarci la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940.
Oltralpe ancora una volta gli italiani si mostrano inaffidabili, voltagabbana e persino aizzatori di rivolte di piazza, il cui retroterra molti italioti disconoscono per colpevole  ignoranza. I Gilè gialli sono i discendenti diretti dei francesi che ad Aigues Mortes ammazzarono a colpi di vanga decine di terrazzani italiani che lavoravano per un magro salario e che negli Anni Sessanta sabotavano l’esportazione di vini e agrumi dall’Italia. E’ la "Francia profonda” simile all'"Italia profonda" vogliosa di sprofondare nel baratro della decrescita felice: l’autoerotismo di un Paese per secoli succubo di dominazioni straniere.

L’Europa che ancora non c'è
Questo accade perché l’Europa odierna non si è ancora ripresa dalla fine della Guerra Fredda in cui si cullò per decenni. Ha assistito da spettatrice allo spostamento verso est del sistema
difensivo verso la Federazione russa e non ha varato alcuna politica davvero unitaria di Stato: estera, militare,
economica, nei confronti della decolonizzazione e delle guerre condotte di cui è stata essa stessa protagonista diretta o indiretta nel Vicino, nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale, con la promozione sconsiderata delle immaginarie “primavere arabe” nell’illusione che a cambiare il mondo bastassero un po’ di messaggi sui cellulari. Al
momento l’Europa ancora non c'è. È nelle sue smagliature che certi capitani di ventura paiono condottieri
e persino Statisti. Quando l'integrazione effettiva dei Paesi dell’Unione farà seri progressi sarà normale che tornino a esistere partiti continentali, al momento assenti: un grosso guaio proprio alla vigilia del rinnovo del Parlamento europeo con quell’elezione diretta che dovrebbe dargli forza decisoria ma potrebbe invece condannarlo alla paralisi.
Siamo a un nuovo "diciannovismo'! Cent’anni dopo, non esiste una accezione condivisa del termine.
Per alcuni esso indica la fase aurorale del movimento fascista, che si propose come 
un nuovo "sol dell’avvenire". Per altri esprime l’inquietudine dominante l’Europa in cerca di pace. A distanza di un secolo esso sintetizza l’incapacità delle Potenze vincitrici di voltar pagina con gli spiriti bellicosi dominanti sino al tardo autunno dell’anno precedente. Più che di vittorie militari gli armistizi del novembre 1918 erano stati frutto del collasso degli Imperi Centrali. La dissoluzione dell’Austria Ungheria e la deflagrazione dell’Impero di Germania sconvolsero tutti i piani di vittoria coltivati per anni dall’Intesa. Con l’uscita di scena dell’impero russo, risultò evidente l’assenza di un progetto politico-militare condiviso almeno da Francia e Gran Bretagna, le uniche due potenze dell’Intesa ancora in lotta, ed emerse la divaricazione tre queste e l’Italia, che non era propriamente "alleata” ma "associata" Perciò il governo di Roma non venne messo al corrente degli accordi via via elaborati da Parigi e da Londra sulle future sorti future dell’impero turco-ottomano.
Secondo il congresso massonico di Parigi del 28-30 giugno 1917 la pace andava fondata su quattro pilastri: la restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, la ricostituzione della Boemia (scomparsa nel 1620 con la vittoria del Sacro romano imperatore sui Boemi nella battaglia della Montagna Bianca: una guerra politica e religiosa), la rinascita della Polonia (ove anche i tedeschi aveva ventilato la nascita di un "regno" vassallo) e i plebisciti delle popolazioni per definire i confini delle terre misti lingue. Non accadde allora, non esiste oggi. Né in Europa né altrove. Di lì la crema catalana...

E in Italia il caos
Mentre a Parigi le aspirazioni italiane al dominio sull’Adriatico cozzavano con ostacoli crescenti, il Paese era squassato da crisi sempre più gravi e incalzanti: anzitutto le ripercussioni dell’enorme indebitamento dello Stato (schizzato a 14 miliardi di lire dell’epoca), la svalutazione della moneta, il divario tra costo della vita e stagnazione di salari e stipendi, la carenza di rifornimenti alimentari mentre l’epidemia detta “spagnola" divampava, favorita anche dalla denutrizione, la conversione della produzione bellica in civile, la smobilitazione dell’esercito, a danno soprattutto di ufficiali, sottufficiali e corpi di élite, come gli Arditi, meno facili da restituire alla vita ordinaria...
Il governo Orlando venne messo in minoranza e si dimise pochi giorni prima della firma del Trattato di pace a Versailles (28 giugno). Il nuovo ministero fu presieduto da Francesco Saverio Nitti che, inviso a Inghilterra e Francia, annaspò. Mentre i giornali badavano ossessivamente al Congresso di Parigi, lo scenario politico in terno mutò profondamente. Il 18 gennaio don Luigi Sturzo fondò il Partito popolare italiano, primo partito "dei cattolici" Esso segnò la svolta. Dopo quindici anni di collaborazione tra moderati, i cattolici vennero schierati contro i liberali. In gran parte erano contro la Monarchia, contro lo Stato sorto dal Risorgimento.
Egemonizzati da Giacinto Menotti Serrati, al congresso di Bologna i socialisti si schierarono a favore della Terza internazionale varata a Mosca da Lenin, Trotzky e Stalin. A loro volta erano contro lo Stato, contro la Monarchia. Su quanto avveniva in Russia i socialisti avevano sempre avuto informazioni approssimative. Nel gustoso saggio "I fantastici 4 vs Lenin. Una missione della
massoneria italiana nella Russia del 1917” (ed. Odoya) Riccardo Mandelli ha narrato le comiche vicissitudini di Innocenzo Cappa, Arturo Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo mandati dal governo Boselli-Sonnino in Russia, con la benedizione del ministro dell’Interno, Orlando, per accattivare all’Italia le simpatie dei rivoluzionari. Nessuno dei quattro capiva il russo. Tennero fluenti discorsi e furono applauditi come eseguissero romanze di opere liriche.
Raimondo venne soprannominato Titta Ruffo, il celebre cantante cognato di Giacomo Matteotti. Il massone Ferdinando Martini nel Diario annotò: "In che lingua hanno parlato al popolo? In italiano? E chi li ha capiti? E come, senza capire, applaudirono? Che se han parlato alla colonia italiana, tanto valeva che rimanessero a Roma..."
Nitti inconcludente e Mussolini inesistente Il 23 marzo Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento. Nulla a che vedere con il fascismo del 1921, del 1922, del 1929... eccetera. Era un punto su una lavagna della storia. Nitti mise a segno due catastrofi in pochi mesi. In agosto pubblicò il 2° volume dell’"Inchiesta su Caporetto" l’opera più distruttiva dell’immagine dell’esercito mai pubblicata in Italia. I militari che avevano fermato l’avanzata austro-germanica nell'ottobre-dicembre del  1917 e avevano sconfitto l’Impero asburgico a Vittorio Veneto ne uscirono malissimo. Poi varò la nuova legge che ripartì i seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti nelle circoscrizioni elettorali, a tutto vantaggio dei partiti “di massa" popolari e socialisti e ai danni di costituzionali e democratici. Dalle lettere confidenziali consta che neppure Giolitti previde appieno le conseguenze nefaste di quella riforma. Il 12 ottobre pronunziò a Dronero il discorso che nel 1950 Palmiro Togliatti valutò come il più avanzato della borghesia, ma dalle elezioni uscì battuto.
E il Re? All’inaugurazione della legislatura i socialisti uscirono dall’Aula di Montecitorio, appena restaurata, cantando l’Internazionale e irridendo al Sovrano.
Era il diciannovismo. Il primo dei quattro anni di caos che il 31 ottobre 1922 vennero chiusi con il governo di unità costituzionale presieduto da Benito Mussolini. Il quale nelle elezioni del 16 novembre 1919 capeggio una lista comprendente il protonazionalista Filippo Tommaso Marinetti, il libero pensatore Guido Podrecca e Arturo Toscanini, maestro di musica (sic!) e ottenne un risultato miserabile: nessun seggio alla Camera. La Storia, però, era ancora tutta da scrivere. Anzi, da fare. Con la ricerca di alleanze all’estero e pesanti ingerenze straniere, come sempre accade quando i governi sono deboli. In quel momento Mussolini era solo un puntino sulla lavagna...

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