di Aldo A.mola
Le “ingerenze straniere" di cent'anni fa. Il presidente USA Wilson.
Il 23 aprile 1919 il presidente degli Stati Uniti
d’America, Thomas Woodrow Wilson, si rivolse direttamente agli italiani sulla
questione che stava avvelenando il Congresso per la pace in corso a Parigi: la
sorte di Fiume. Pubblicata in un quotidiano francese e subito rimbalzata in
Italia, la dichiarazione passò alla storia come "messaggio" e/o persino
“appello" Wilson arrivava da una famiglia di predicatori. Combattuta la dislessia con la stenografia e afflitto
da gravi problemi di salute, come Franklin D. Roosevelt e altri presidenti degli USA (e
non solo), appartenne alla serie dei "malati che governarono il
mondo" Profeta all’estero più che in patria, ove venne sconfitto e sconfessato.
In preda a un raptus imperialistico, il governo italiano pretendeva la città di
Fiume in aggiunta all'applicazione integrale dell’accordo di Londra del 26 aprile
1915, cioè il confine dal Brennero al Quarnaro. Ma anche il neonato Stato
serbo-croato-sloveno voleva Fiume con la Dalmazia e il confine a ovest di Trieste e di Gorizia.
A suo avviso l'Italia non meritava niente. Belgrado contava sul sostegno della
Francia: non solo l’irruento Georges Clemenceau, "il tigre” ma anche il
gran maestro onorario della Gran Loggia Paul Peigné, un generale che propugnò
le "Revendications nationales" serbe, in linea con la autodeterminazione
delle nazionalità "frantumate o oppresse" dagli Imperi Centrali
(Germania e Austria- Ungheria) ormai sconfitti.
Il Messaggio di Wilson fu una ingerenza
clamorosa negli affari interni dell’Italia, che aveva visitato suscitandovi
l’entusiasmo delle solitamente stupide folle, orchestrate dA giornali e da
élite che si credevano furbe. Ma egli era abituato a ben altre ''interferenze"
Con le tempie circonfuse del Premio Nobel per la pace (Enrico Tiozzo documenta quante altre sciocchezze vennero deliberate
tra Oslo e Stoccolma) aveva alle spalle micidiali missioni militari nel Messico e nell'America
Centrale, mentre gli europei erano intenti ad annientarsi a vicenda. Per
protesta contro il missionario d’oltre Atlantico la delegazione italiana
abbandonò Parigi. Il 25 aprile l’anglofilo e anglofono Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d’Italia e
già sindaco di Roma, esecrò Wilson in un Manifesto agli italiani perché negava
“il ricongiungimento all’Italia di Fiume e di quei territori sulla costa orientale
dell’Adriatico (la Dalmazia) che le spettano per antiche imprescrittibili
ragioni di diritto nazionale riconsacrato dal recente sacrificio di innumerevoli
suoi figli e dalla inflessibile volontà di quelle popolazioni”. Retorica
arcaica. Per certificarne la veridicità vi era un solo modo: indirvi referendum
tra gli abitanti, ma a Roma non sarebbe convenuto affatto, perché le sue pretese
sarebbero state sconfessate alle urne dalla popolazione delle terre pretese.
Infatti anche l’annessione del Trentino e della Venezia Giulia avvenne per
effetto del Trattato di pace di Saint-Germain, senza alcun plebiscito.
Wilson, invero, invocò l'amicizia tra
statunitensi e italiani e persino la loro consanguineità, ma ribadì che, assegnata Trieste all’Italia, Fiume era e rimaneva il porto degli Stati
gravitanti verso l’Adriatico: Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia. Alcuni
chiacchieroni usi a confondere la Storia con le macchie sulle lenzuola,
insinuarono che a convincersene fosse stato aiutato da fascinose dame jugoslave:
argomento riecheggiante la Fiaba secondo la quale a promuovere l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio
Emanuele II contro l’impero d’Austria nel 1858-1859 sarebbe stata la usurata
contessa di Castiglione anziché, come di fatto fu, la decisione dell’imperatore
di mostrare all’Europa che la Francia non era più quella costretta
all’armistizio di Fontainebleau e poi sconfitta a Waterloo nel 1814-1815 ma una
grande potenza che, mentre vinceva gli asburgici a Magenta e a Solferino, entrava in Hanoi e protendeva le sue mire verso il Siam (non per
caso oggi si chiede con forza la traslazione della sua salma dall’abbazia di
Famborough, vicino a Londra, agli Invalidi o nella chiesa di Sant’Agostino, a Parigi).
Malgrado l’assenza dell’Italia, i
congressisti proseguirono i lavori con l’approvazione dello statuto della Lega
delle Nazioni (18 aprile), la spartizione dell’impero ottomano e la convocazione
coatta dei tedeschi "ad audiendum verbum”. Il 7 maggio Orlando e Sonnino
tornarono silenti sulle rive della Senna. Il 2 maggio nel lacunoso "Diario”
Sonnino ammise: "non resta che rassegnarsi alle imposizioni di Wilson,
attenuate in parte, se possibile, dalle proposte degli alleati”: i quali,
invece, erano d’accordo con il presidente degli
USA, perché avevano sì accettato l’Italia come “associata” nella guerra ma non ne erano affatto amici.
USA, perché avevano sì accettato l’Italia come “associata” nella guerra ma non ne erano affatto amici.
Il gioco dei quattro cantoni in assenza di Europa
Quel precedente di cent’anni addietro
aiuta a valutare la pochezza delle odierne scorribande di “capi" e
"capitani" italiani in cerca di “alleati” in partiti e movimenti in
altri Stati dell’Unione Europea. E' il gioco dei quattro cantoni. Ti cerco, ti
tocco... E poi? Oltralpe incontrano accoglienze gelide e talvolta (è il caso dei
Gilè gialli francesi a Luigi Di Maio) vengono considerate inammissibili
interferenze in affari interni, perché il livello di integrazione politica
rimane molto basso. Per molti aspetti, invero, gli affannosi Guerin Meschini d’oggi giorno non costituiscono nulla di nuovo rispetto a quanto praticato molto prima
dell’assetto faticosamente raggiunto dall’Unione con il Trattato di Lisbona.
Al tempo del bipolarismo planetario, vale a dire dalla Guerra Fredda al crollo dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (1946-1990), era scontato che i partiti dei singoli Paesi cercassero legittimazione da parte dei rispettivi alleati preponderanti. Ma quelli erano partiti dalla lunga storia: anzi, come nel caso del Partito comunista italiano, a lungo erano stati sezione italiana della Terza Internazionale, un tentacolo di un polipo con la testa a Mosca. Anche dopo lo scioglimento del Komintern, i partiti comunisti “occidentali” partecipavano ai congressi della Magna Mater Frugorum, il Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). I loro delegati vi pronunciavano discorsi, condividevano propositi e ne tornavano con direttive. Accanto al fiancheggiamento "alla luce del sole" ve n’era un altro, occulto, talvolta con un piede e mezzo nell’illegalità, a copertura di reati continuazione degli schieramenti operanti nella seconda guerra mondiale.
Gli Alleati (USA e Gran Bretagna) e URSS avevano lottato insieme contro Germania, Italia, Giappone e loro satelliti, ma con obiettivi ultimi del tutto divaricati. Il "sistema” sovietico aveva mutato l’abito ma non il il fine.
Negli stessi decenni postbellici i partiti
"occidentali” non comunisti dei Paesi europei non furono altrettanto intrinseci dell’unico vero garante della loro libertà, cioè gli Stati Uniti
d’America, perché gli USA non erano (come non sono) un regime di partito unico,
volto all’asservimento ideologico e pratico delle dirigenze dei paesi amici o
vassalli. Per rimanere al caso dell’Italia, socialdemocratici, repubblicani ispirati
da Randolfo Pacciardi, liberali e democristiani non ebbero referenti diretti nei
congressi dei Democratici e dei Repubblicani d’oltre Atlantico, le cui dinamiche spesso rimasero impenetrabili per chi le osservava
con gli occhiali italocentrici. Il vero discrimine era costituito dall’invito
ad assistere all’insediamento dei Presidenti che via via si susseguirono alla
Casa Bianca. Rimane emblematico il caso di Lido Celli, invitato alla Casa Bianca
sia da Carter che da Reagan.
Il caos istituzionale: capipartito o ministri? Lo Stato dov'è?
Lo sconcerto della caccia al partito amico
Oltralpe da parte di quelli italiani sta nella asimmetria fra le loro aspirazioni e la configurazione dei poteri istituzionali. È paradossale che un
vicepresiderite del consiglio (Salvini) visiti un Capo di Stato, quasi ne fosse
egli stesso presidente, a caccia di un’alleanza elettorale e che un altro
vicepresidente (Di Maio) offra aiuto a un movimento che da mesi organizza
manifestazioni caotiche contro il presidente di un Paese amico senza valutare le motivate ritorsioni non
contro il suo movimento ma contro 10 stesso Stato italiano e i suoi cittadini.
La condotta di Luigi Di Maio, del suo socio Davide Casaleggio e del ministro Toninelli al Quai d’Orsay offre occasione per
rinfacciarci la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940.
Oltralpe ancora una volta gli italiani si mostrano inaffidabili, voltagabbana e
persino aizzatori di rivolte di piazza, il cui retroterra molti italioti disconoscono
per colpevole ignoranza. I Gilè gialli
sono i discendenti diretti dei francesi che ad Aigues Mortes ammazzarono a
colpi di vanga decine di terrazzani italiani che lavoravano per un magro salario e che negli Anni Sessanta sabotavano l’esportazione di vini e
agrumi dall’Italia. E’ la "Francia profonda” simile all'"Italia profonda"
vogliosa di sprofondare nel baratro della decrescita felice: l’autoerotismo di
un Paese per secoli succubo di dominazioni straniere.
L’Europa che ancora non c'è
Questo accade perché l’Europa odierna non
si è ancora ripresa dalla fine della Guerra Fredda in cui si cullò per decenni.
Ha assistito da spettatrice allo spostamento verso est del sistema
difensivo verso la Federazione russa e non ha varato alcuna politica davvero unitaria di Stato: estera, militare,
economica, nei confronti della decolonizzazione e delle guerre condotte di cui è stata essa stessa protagonista diretta o indiretta nel Vicino, nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale, con la promozione sconsiderata delle immaginarie “primavere arabe” nell’illusione che a cambiare il mondo bastassero un po’ di messaggi sui cellulari. Al
momento l’Europa ancora non c'è. È nelle sue smagliature che certi capitani di ventura paiono condottieri
e persino Statisti. Quando l'integrazione effettiva dei Paesi dell’Unione farà seri progressi sarà normale che tornino a esistere partiti continentali, al momento assenti: un grosso guaio proprio alla vigilia del rinnovo del Parlamento europeo con quell’elezione diretta che dovrebbe dargli forza decisoria ma potrebbe invece condannarlo alla paralisi.
difensivo verso la Federazione russa e non ha varato alcuna politica davvero unitaria di Stato: estera, militare,
economica, nei confronti della decolonizzazione e delle guerre condotte di cui è stata essa stessa protagonista diretta o indiretta nel Vicino, nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale, con la promozione sconsiderata delle immaginarie “primavere arabe” nell’illusione che a cambiare il mondo bastassero un po’ di messaggi sui cellulari. Al
momento l’Europa ancora non c'è. È nelle sue smagliature che certi capitani di ventura paiono condottieri
e persino Statisti. Quando l'integrazione effettiva dei Paesi dell’Unione farà seri progressi sarà normale che tornino a esistere partiti continentali, al momento assenti: un grosso guaio proprio alla vigilia del rinnovo del Parlamento europeo con quell’elezione diretta che dovrebbe dargli forza decisoria ma potrebbe invece condannarlo alla paralisi.
Siamo a un nuovo "diciannovismo'! Cent’anni
dopo, non esiste una accezione condivisa del termine.
Per alcuni esso indica la fase aurorale del movimento fascista, che si propose come un nuovo "sol dell’avvenire". Per altri esprime l’inquietudine dominante l’Europa in cerca di pace. A distanza di un secolo esso sintetizza l’incapacità delle Potenze vincitrici di voltar pagina con gli spiriti bellicosi dominanti sino al tardo autunno dell’anno precedente. Più che di vittorie militari gli armistizi del novembre 1918 erano stati frutto del collasso degli Imperi Centrali. La dissoluzione dell’Austria Ungheria e la deflagrazione dell’Impero di Germania sconvolsero tutti i piani di vittoria coltivati per anni dall’Intesa. Con l’uscita di scena dell’impero russo, risultò evidente l’assenza di un progetto politico-militare condiviso almeno da Francia e Gran Bretagna, le uniche due potenze dell’Intesa ancora in lotta, ed emerse la divaricazione tre queste e l’Italia, che non era propriamente "alleata” ma "associata" Perciò il governo di Roma non venne messo al corrente degli accordi via via elaborati da Parigi e da Londra sulle future sorti future dell’impero turco-ottomano.
Per alcuni esso indica la fase aurorale del movimento fascista, che si propose come un nuovo "sol dell’avvenire". Per altri esprime l’inquietudine dominante l’Europa in cerca di pace. A distanza di un secolo esso sintetizza l’incapacità delle Potenze vincitrici di voltar pagina con gli spiriti bellicosi dominanti sino al tardo autunno dell’anno precedente. Più che di vittorie militari gli armistizi del novembre 1918 erano stati frutto del collasso degli Imperi Centrali. La dissoluzione dell’Austria Ungheria e la deflagrazione dell’Impero di Germania sconvolsero tutti i piani di vittoria coltivati per anni dall’Intesa. Con l’uscita di scena dell’impero russo, risultò evidente l’assenza di un progetto politico-militare condiviso almeno da Francia e Gran Bretagna, le uniche due potenze dell’Intesa ancora in lotta, ed emerse la divaricazione tre queste e l’Italia, che non era propriamente "alleata” ma "associata" Perciò il governo di Roma non venne messo al corrente degli accordi via via elaborati da Parigi e da Londra sulle future sorti future dell’impero turco-ottomano.
Secondo il congresso massonico di Parigi
del 28-30 giugno 1917 la pace andava fondata su quattro pilastri: la
restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, la ricostituzione della
Boemia (scomparsa nel 1620 con la vittoria del Sacro romano imperatore sui Boemi nella battaglia della Montagna Bianca: una guerra politica e religiosa), la rinascita della
Polonia (ove anche i tedeschi aveva ventilato la nascita di un "regno"
vassallo) e i plebisciti delle popolazioni per definire i confini delle terre
misti lingue. Non accadde allora, non esiste oggi. Né in Europa né altrove. Di
lì la crema catalana...
E in Italia il caos
Mentre a Parigi le aspirazioni italiane al
dominio sull’Adriatico cozzavano con ostacoli crescenti, il Paese era squassato da crisi sempre più gravi e incalzanti: anzitutto le
ripercussioni dell’enorme indebitamento dello Stato (schizzato a 14 miliardi di lire dell’epoca), la svalutazione della
moneta, il divario tra costo della vita e stagnazione di salari e stipendi, la carenza di rifornimenti alimentari
mentre l’epidemia detta “spagnola" divampava, favorita anche dalla
denutrizione, la conversione della produzione bellica in civile, la
smobilitazione dell’esercito, a danno soprattutto di ufficiali, sottufficiali e
corpi di élite, come gli Arditi, meno facili da restituire alla vita
ordinaria...
Il governo Orlando venne messo in
minoranza e si dimise pochi giorni prima della firma del Trattato di pace a Versailles (28 giugno). Il nuovo ministero fu presieduto da Francesco Saverio
Nitti che, inviso a Inghilterra e Francia, annaspò. Mentre i giornali badavano ossessivamente al Congresso di
Parigi, lo scenario politico in terno mutò profondamente. Il 18 gennaio don Luigi Sturzo fondò il Partito
popolare italiano, primo partito "dei cattolici" Esso segnò la svolta. Dopo
quindici anni di collaborazione tra moderati, i cattolici vennero schierati contro i liberali.
In gran parte erano contro la Monarchia, contro lo Stato sorto dal Risorgimento.
Egemonizzati da Giacinto Menotti Serrati,
al congresso di Bologna i socialisti si schierarono a favore della Terza
internazionale varata a Mosca da Lenin, Trotzky e Stalin. A loro volta erano contro lo Stato, contro la Monarchia. Su quanto avveniva in Russia i socialisti
avevano sempre avuto informazioni approssimative. Nel gustoso saggio "I fantastici
4 vs Lenin. Una missione della
massoneria italiana nella Russia del 1917” (ed. Odoya) Riccardo Mandelli ha narrato le comiche vicissitudini di Innocenzo Cappa, Arturo Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo mandati dal governo Boselli-Sonnino in Russia, con la benedizione del ministro dell’Interno, Orlando, per accattivare all’Italia le simpatie dei rivoluzionari. Nessuno dei quattro capiva il russo. Tennero fluenti discorsi e furono applauditi come eseguissero romanze di opere liriche.
Raimondo venne soprannominato Titta Ruffo, il celebre cantante cognato di Giacomo Matteotti. Il massone Ferdinando Martini nel Diario annotò: "In che lingua hanno parlato al popolo? In italiano? E chi li ha capiti? E come, senza capire, applaudirono? Che se han parlato alla colonia italiana, tanto valeva che rimanessero a Roma..."
massoneria italiana nella Russia del 1917” (ed. Odoya) Riccardo Mandelli ha narrato le comiche vicissitudini di Innocenzo Cappa, Arturo Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo mandati dal governo Boselli-Sonnino in Russia, con la benedizione del ministro dell’Interno, Orlando, per accattivare all’Italia le simpatie dei rivoluzionari. Nessuno dei quattro capiva il russo. Tennero fluenti discorsi e furono applauditi come eseguissero romanze di opere liriche.
Raimondo venne soprannominato Titta Ruffo, il celebre cantante cognato di Giacomo Matteotti. Il massone Ferdinando Martini nel Diario annotò: "In che lingua hanno parlato al popolo? In italiano? E chi li ha capiti? E come, senza capire, applaudirono? Che se han parlato alla colonia italiana, tanto valeva che rimanessero a Roma..."
Nitti inconcludente e Mussolini
inesistente Il 23 marzo Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento.
Nulla a che vedere con il fascismo del 1921, del 1922, del 1929... eccetera.
Era un punto su una lavagna della storia. Nitti mise a segno due catastrofi in
pochi mesi. In agosto pubblicò il 2° volume dell’"Inchiesta su
Caporetto" l’opera più distruttiva dell’immagine dell’esercito mai
pubblicata in Italia. I militari che avevano fermato l’avanzata austro-germanica nell'ottobre-dicembre
del 1917 e avevano sconfitto l’Impero
asburgico a Vittorio Veneto ne uscirono malissimo. Poi varò la nuova legge che
ripartì i seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti nelle circoscrizioni elettorali, a tutto vantaggio
dei partiti “di massa" popolari e socialisti e ai danni di costituzionali e democratici. Dalle lettere confidenziali consta
che neppure Giolitti previde appieno le conseguenze nefaste di quella riforma.
Il 12 ottobre pronunziò a Dronero il discorso che nel 1950 Palmiro Togliatti
valutò come il più avanzato della borghesia, ma dalle elezioni uscì battuto.
E il Re? All’inaugurazione della
legislatura i socialisti uscirono dall’Aula di Montecitorio, appena restaurata, cantando l’Internazionale e irridendo al Sovrano.
Era il diciannovismo. Il primo dei quattro
anni di caos che il 31 ottobre 1922 vennero chiusi con il governo di unità
costituzionale presieduto da Benito Mussolini. Il quale nelle elezioni del 16
novembre 1919 capeggio una lista comprendente il protonazionalista Filippo
Tommaso Marinetti, il libero pensatore Guido Podrecca e Arturo Toscanini, maestro
di musica (sic!) e ottenne un risultato miserabile: nessun seggio alla Camera.
La Storia, però, era ancora tutta da scrivere. Anzi, da fare. Con la ricerca di
alleanze all’estero e pesanti ingerenze straniere, come sempre accade quando i
governi sono deboli. In quel momento Mussolini era solo un puntino sulla
lavagna...
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