di Emilio Del Bel
Belluz
La maestra, voleva
molto bene a Carnera, conosceva anche la sua famiglia, perché viveva in paese
da anni. Una maestra è come una grande mamma che deve provvedere ai suoi
scolari e ogni allievo è come se fosse suo figlio. Anna non dimenticava mai le
difficoltà che ci potevano essere in quel paese. Dalla sua finestra spesso
osservava la gente che andava al lavoro, i vecchi che stavano all’osteria, e le
piaceva che le persone che passavano davanti alla sua casa si fermassero per
darle un saluto e, magari, per scambiare una parola.
Quando era più
giovane le piaceva passeggiare e raggiungeva la chiesa, per pregare davanti
alla statua della Madonna, a cui era molto devota. Nei momenti di preghiera
ritrovava la forza che solo la fede poteva dare. Dopo avere pregato, andava al
cimitero, per far visita ad alcuni suoi allievi che erano morti prematuramente.
Come una mamma sostava davanti alle loro tombe. Alcuni anni prima accompagnava
una donna che aveva perso il marito, e che aveva vissuto una crisi
esistenziale; le faceva compagnia e la invitava nella sua casa. Quella donna
con la perdita del marito era ridotta in povertà, e la maestra, pertanto,
l’aveva ospitata nella sua casa, assieme ai suoi figli. L’amore per il prossimo
la faceva sentire bene e in pace con sé stessa.
Il 2 Novembre 1918
le truppe di occupazione tedesche e austriache si ritirarono, e lo fecero di
notte. Finalmente l’Italia era riuscita a ricompattarsi dopo Caporetto e il
merito era dei nostri valorosi soldati e del loro sovrano Vittorio Emanuele
III, che li aveva sempre incoraggiati. Il 4 novembre il paese era in festa, le
campane della chiesa suonavano a distesa, la gente si precipitava in strada per
festeggiare la fine della guerra. Un conflitto che aveva portato molte ferite
all’Italia.
Alcuni soldati di
Sequals non fecero più ritorno alle loro case, la morte l’avevano trovata nei
campi di battaglia. Quante ferite continuavano a sanguinare, e quanto dolore
aveva provocato questa guerra. Gli uomini del paese avevano scritto la loro
storia e ora bisognava ricordarli. Il giorno in cui il nemico si ritirò, la
maestra volle che tutti i ragazzi recitassero una preghiera per ringraziare il
buon Dio che finalmente la guerra era finita.
Ogni alunno voleva
esprimere le proprie emozioni in questo giorno indimenticabile, ma il primo
pensiero fu rivolto ai ragazzi che avevano perduto il padre combattendo, e
nella classe il volto dei figli degli eroi si fece triste. La vecchia maestra
disse che nessuno avrebbe potuto dimenticare il sacrificio di quei soldati.
Primo Carnera fu incaricato di portare la bandiera sabauda, quella del re,
perché la maestra voleva andare in strada con loro per condividere con la gente
del paese questo momento. Primo che era il più grande venne posto davanti a
tutti e gli altri si incamminarono dietro, verso il municipio. Le persone
incontrate erano felici, finalmente tutto era finito.
A Sequals
arrivarono i soldati italiani. In paese le bandiere erano state esposte sui
terrazzi di alcune case. Il prete del paese benediva i soldati che arrivavano,
e qualcuno offriva loro del vino e del cibo. Le donne più giovani salutavano i
soldati, quelle che non avrebbero più rivisto i loro mariti, piangevano,
accompagnate dai figli.
La maestra volle
salire fino alla chiesa con i suoi scolari, una visita al buon Dio per
ringraziarlo e pregarlo per i caduti. Quel giorno di festa nessuno lo avrebbe
scordato. Qualche settimana dopo ritornò a casa il padre di Carnera, era
rimasto al fronte per quattro anni, e finalmente poteva riabbracciare i figli e
la moglie che non vedeva dall’inizio della guerra. Nella casa di Carnera venne
preparata una grande polenta, con della carne, e un dolce casereccio. Dopo anni
d’assenza potevano di nuovo ritrovarsi. Il padre di Primo era tornato con i
suoi vestiti da soldato, e con uno zaino che conteneva degli oggetti militari.
Il suo volto era invecchiato, gli anni di guerra lo avevano cambiato, non aveva
più il sorriso di quando era partito.
Da soldato aveva
combattuto e sofferto, ma ora bisognava ricominciare da capo. La mamma di Primo
era felice, finalmente avrebbero condiviso i pasti tutti assieme, come pure
alla domenica si sarebbero recati in chiesa tutti riuniti, come ai vecchi
tempi. La mamma di Primo era molto devota alla Madonna e aveva sempre pregato,
affinché il marito facesse ritorno a casa. La Madonna l’aveva aiutata, molte
donne del paese non erano state così fortunate. I giorni che seguirono furono i
più lieti, a scuola la maestra volle che ogni allievo facesse un tema
raccontando la gioia che aveva provato. La maestra, pur essendo avanti con gli
anni, in quei giorni sembrava ringiovanita. Il mese di dicembre del 1918 fu
molto freddo.
L’Italia poteva
pensare alla sua ricostruzione. I ragazzi amavano andare a giocare vicino alla
chiesa, e il freddo non li spaventava. Un giorno Primo assieme ai suoi amici
decise di andare a fare una passeggiata nel bosco. Molti alberi erano stati
tagliati dal nemico invasore. I giovani avevano trovato alcuni elmetti che
erano stati abbandonati dai militari nella ritirata. Primo ne prese uno, aveva
un foro, e pensò che il soldato che lo possedeva, fosse morto. Nel bosco
vollero andare a bere dell’acqua che scorreva in un piccolo torrente, e
notarono, subito, che da un albero penzolava un soldato austriaco. Carnera lo
scorse per primo, si era impiccato perché colto dalla disperazione o, forse, era
un disertore. La prima cosa che Carnera notò furono le scarpe, non ne aveva mai
posseduto un paio e con un gesto automatico gliele sfilò al morto.
Le provò subito e
disse ai suoi compagni che al soldato non servivano per andare in paradiso.
Quelle furono le prime vere scarpe di Carnera. I giovani ritornarono in paese, andarono
ad avvertire il curato che nel bosco c’era un soldato che penzolava da un
albero, e che bisognava dargli sepoltura. Il parroco, seppure anziano, assieme
al sacrestano e alcuni uomini del paese con un carro trascinato da un cavallo
andarono a recuperare il soldato nemico.
La guerra era
finita, ma il dolore persisteva nell’animo dei molti soldati che stavano
tornando a casa. In paese si sparse la notizia che era stato trovato un soldato
impiccato. Il prete e il sindaco del paese dettero disposizione che venisse
celebrato il suo funerale, e la Chiesa avrebbe provveduto a far sì che il
soldato avesse una sepoltura cristiana. Addosso al morto furono trovati dei
documenti, in questo modo si venne a conoscenza del nome e del grado. Ai suoi
funerali partecipò molta gente del paese, anche quel soldato era stato una
vittima della guerra. Il prete durante la messa volle parlare di pace e di
considerare il soldato austriaco come un fratello. Aveva anche lui dei parenti
che in qualche modo sarebbero stati avvertiti della sua morte, e, magari, un
giorno avrebbero potuto venirlo a salutare. Le parole del parroco commossero un
po’ tutti; vi partecipò anche Primo, assieme ai suoi compagni di scuola. Il
ragazzo indossava le scarpe che aveva tolto al morto, e aveva l’impressione che
tutti lo osservassero.
La funzione
religiosa si concluse con dei canti solenni. La bara fu portata a spalle da
quattro militari del regio esercito, e il soldato nemico venne sepolto assieme
a due soldati italiani. In quella tomba non mancarono mai dei fiori. Questo
episodio commosse anche Primo e ne parlò a scuola, la maestra volle avere una
descrizione precisa su come si svolse il funerale. Nel mese di dicembre ricorre
la festività del S. Natale che per tanti è molto significativa, in quanto nasce
il Salvatore del mondo e questo fu anche per la famiglia di Primo. La maestra
aveva voluto fare un grande presepe in classe, aveva pure chiesto a Primo e
agli altri allievi di riparare qualche statuina che si era danneggiata, perché
il presepe rappresentava la Sacra Famiglia che era d’esempio a tutte le
famiglie. Primo si era incaricato di organizzare la giornata del restauro. Ogni
allievo doveva provvedere a portare qualcosa che sarebbe servito. La maestra
volle che tutta la classe fosse coinvolta. Quel presepe era lo spirito della
rinascita, della gioia. Il giorno dei lavori la signora maestra volle che Lucia
preparasse delle ciambelle e una torta.
Lucia, in poco
tempo, e con pochi denari aveva fatto dei miracoli e il profumo dei dolci si
espanse in tutta la scuola. La sera era scesa, e illuminati con un lume
lavorarono fino al compimento del restauro. Il presepe fu ultimato e sistemato
all’ingresso della scuola. La gioia degli allievi fu completata dalle ottime
fette di torta e dalle ciambelle che Lucia aveva preparato. Fu una vera e
propria festa per quei ragazzi che cercavano di dimenticare la guerra. Il
giorno dopo venne anche il parroco a vedere come erano venuti i restauri, e si
complimentò con i giovani. Il parroco regalò a ciascun allievo un’ immagine
della Natività che aveva appena ricevuto da una benefattrice. Questo Natale fu
diverso dal precedente, non eravamo più invasi, ma finalmente liberi. Nella
notte di Natale tutta la popolazione di recò alla Santa Messa di Mezzanotte e
venne posto nel presepe il Bambinello. Nessuno avrebbe mai dimenticato quei
momenti di letizia e di pace
. Dopo le vacanze
natalizie la maestra riprese le lezioni, appariva riposata. Raccontò che aveva
passato la giornata del Natale in casa con Lucia, che per lei era diventata
come una figlia. La scuola era il luogo dove s’insegnava agli studenti ad
affrontare il futuro. Alla fine del ciclo scolastico ogni allievo avrebbe
proseguito con qualche attività lavorativa: come falegname, muratore,
mosaicista, ma qualcuno sarebbe dovuto andare a lavorare all’estero. Anche il
padre di Primo, a malavoglia, dovette andarsene via da casa. La consolazione
della moglie e dei figli era che non andava in guerra e che presto sarebbe
tornato. La fame dopo la fine della guerra si era fatta sentire, tanti chiedevano
aiuto al prete e questi, non potendo fare miracoli, bussava alla porta di
quelli che avevano qualcosa di più. In una predica ripeté più volte che nella
vita bisognava lottare, non fermarsi mai, ma rimanere nella retta via, quella
che ci conduce alla salvezza.
A scuola la maestra aveva continuato a fare
lezione, e i ragazzi si impegnavano molto, in quell’anno avrebbero avuto gli
esami. La cosa non preoccupava Primo, perché confidò ad un suo amico che
avrebbe voluto ripetere l’anno, perché in questo modo avrebbe imparato altre
nozioni. La lettura del libro Cuore era continuata, e
ci si soffermava per delle considerazioni dopo ogni capitolo. Nel giorno in cui
si era parlato dell’Unità d’Italia, lessero il capitolo che raccontava del
funerale di Vittorio Emanuele II.
Toccò a Primo di leggere il racconto: “ Quattro anni sono, in
questo giorno, alle due, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre
che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, morto dopo
ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in
sette Stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato
solo, indipendente e libero; dopo un regno di ventinove anni, ch’ egli aveva
fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei
pericoli, con la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. Giungeva
il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto la pioggia di
fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni
parte d’ Italia, preceduto da una legione di generali e da una folla di
ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di
bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la
potenza e la gloria di un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove
l’aspettava la tomba. In questo momento dodici corazzieri levavano il feretro
dal carro. In questo momento l’Italia dava l’ultimo addio al suo Re morto, al
suo vecchio Re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al
padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu
un momento grande e solenne. Lo sguardo, l’anima di tutti trepidava tra il
feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell’esercito d’Italia
portate da ottanta ufficiali, schierati al suo passaggio; poiché l’Italia era
là, in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i
torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifici, i
nostri più tremendi dolori. Il feretro, portato dai corazzieri, passò, e allora
si chinarono tutti insieme, in atto di saluto, le bandiere dei nuovi
reggimenti, le vecchie lacere bandiere di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia,
di Novara, di Crimea, di Palestro, di San Martino, di Castelfidardo, ottanta
veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa e quello strepito
sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille
voci umane che dicessero tutte insieme:- Addio, buon re, prode re, leale re! Tu
vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l’Italia. - Dopo
di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e Re Vittorio
entrò nella gloria immortale della tomba.”
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