NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 8 novembre 2020

Capitolo IV Primo Carnera e le scarpe del soldato austriaco.



di Emilio Del Bel Belluz

La maestra, voleva molto bene a Carnera, conosceva anche la sua famiglia, perché viveva in paese da anni. Una maestra è come una grande mamma che deve provvedere ai suoi scolari e ogni allievo è come se fosse suo figlio. Anna non dimenticava mai le difficoltà che ci potevano essere in quel paese. Dalla sua finestra spesso osservava la gente che andava al lavoro, i vecchi che stavano all’osteria, e le piaceva che le persone che passavano davanti alla sua casa si fermassero per darle un saluto e, magari, per scambiare una parola.

Quando era più giovane le piaceva passeggiare e raggiungeva la chiesa, per pregare davanti alla statua della Madonna, a cui era molto devota. Nei momenti di preghiera ritrovava la forza che solo la fede poteva dare. Dopo avere pregato, andava al cimitero, per far visita ad alcuni suoi allievi che erano morti prematuramente. Come una mamma sostava davanti alle loro tombe. Alcuni anni prima accompagnava una donna che aveva perso il marito, e che aveva vissuto una crisi esistenziale; le faceva compagnia e la invitava nella sua casa. Quella donna con la perdita del marito era ridotta in povertà, e la maestra, pertanto, l’aveva ospitata nella sua casa, assieme ai suoi figli. L’amore per il prossimo la faceva sentire bene e in pace con sé stessa.

Il 2 Novembre 1918 le truppe di occupazione tedesche e austriache si ritirarono, e lo fecero di notte. Finalmente l’Italia era riuscita a ricompattarsi dopo Caporetto e il merito era dei nostri valorosi soldati e del loro sovrano Vittorio Emanuele III, che li aveva sempre incoraggiati. Il 4 novembre il paese era in festa, le campane della chiesa suonavano a distesa, la gente si precipitava in strada per festeggiare la fine della guerra. Un conflitto che aveva portato molte ferite all’Italia.

Alcuni soldati di Sequals non fecero più ritorno alle loro case, la morte l’avevano trovata nei campi di battaglia. Quante ferite continuavano a sanguinare, e quanto dolore aveva provocato questa guerra. Gli uomini del paese avevano scritto la loro storia e ora bisognava ricordarli. Il giorno in cui il nemico si ritirò, la maestra volle che tutti i ragazzi recitassero una preghiera per ringraziare il buon Dio che finalmente la guerra era finita.

Ogni alunno voleva esprimere le proprie emozioni in questo giorno indimenticabile, ma il primo pensiero fu rivolto ai ragazzi che avevano perduto il padre combattendo, e nella classe il volto dei figli degli eroi si fece triste. La vecchia maestra disse che nessuno avrebbe potuto dimenticare il sacrificio di quei soldati. Primo Carnera fu incaricato di portare la bandiera sabauda, quella del re, perché la maestra voleva andare in strada con loro per condividere con la gente del paese questo momento. Primo che era il più grande venne posto davanti a tutti e gli altri si incamminarono dietro, verso il municipio. Le persone incontrate erano felici, finalmente tutto era finito.

A Sequals arrivarono i soldati italiani. In paese le bandiere erano state esposte sui terrazzi di alcune case. Il prete del paese benediva i soldati che arrivavano, e qualcuno offriva loro del vino e del cibo. Le donne più giovani salutavano i soldati, quelle che non avrebbero più rivisto i loro mariti, piangevano, accompagnate dai figli.

La maestra volle salire fino alla chiesa con i suoi scolari, una visita al buon Dio per ringraziarlo e pregarlo per i caduti. Quel giorno di festa nessuno lo avrebbe scordato. Qualche settimana dopo ritornò a casa il padre di Carnera, era rimasto al fronte per quattro anni, e finalmente poteva riabbracciare i figli e la moglie che non vedeva dall’inizio della guerra. Nella casa di Carnera venne preparata una grande polenta, con della carne, e un dolce casereccio. Dopo anni d’assenza potevano di nuovo ritrovarsi. Il padre di Primo era tornato con i suoi vestiti da soldato, e con uno zaino che conteneva degli oggetti militari. Il suo volto era invecchiato, gli anni di guerra lo avevano cambiato, non aveva più il sorriso di quando era partito.

Da soldato aveva combattuto e sofferto, ma ora bisognava ricominciare da capo. La mamma di Primo era felice, finalmente avrebbero condiviso i pasti tutti assieme, come pure alla domenica si sarebbero recati in chiesa tutti riuniti, come ai vecchi tempi. La mamma di Primo era molto devota alla Madonna e aveva sempre pregato, affinché il marito facesse ritorno a casa. La Madonna l’aveva aiutata, molte donne del paese non erano state così fortunate. I giorni che seguirono furono i più lieti, a scuola la maestra volle che ogni allievo facesse un tema raccontando la gioia che aveva provato. La maestra, pur essendo avanti con gli anni, in quei giorni sembrava ringiovanita. Il mese di dicembre del 1918 fu molto freddo.

L’Italia poteva pensare alla sua ricostruzione. I ragazzi amavano andare a giocare vicino alla chiesa, e il freddo non li spaventava. Un giorno Primo assieme ai suoi amici decise di andare a fare una passeggiata nel bosco. Molti alberi erano stati tagliati dal nemico invasore. I giovani avevano trovato alcuni elmetti che erano stati abbandonati dai militari nella ritirata. Primo ne prese uno, aveva un foro, e pensò che il soldato che lo possedeva, fosse morto. Nel bosco vollero andare a bere dell’acqua che scorreva in un piccolo torrente, e notarono, subito, che da un albero penzolava un soldato austriaco. Carnera lo scorse per primo, si era impiccato perché colto dalla disperazione o, forse, era un disertore. La prima cosa che Carnera notò furono le scarpe, non ne aveva mai posseduto un paio e con un gesto automatico gliele sfilò al morto.

Le provò subito e disse ai suoi compagni che al soldato non servivano per andare in paradiso. Quelle furono le prime vere scarpe di Carnera. I giovani ritornarono in paese, andarono ad avvertire il curato che nel bosco c’era un soldato che penzolava da un albero, e che bisognava dargli sepoltura. Il parroco, seppure anziano, assieme al sacrestano e alcuni uomini del paese con un carro trascinato da un cavallo andarono a recuperare il soldato nemico.

La guerra era finita, ma il dolore persisteva nell’animo dei molti soldati che stavano tornando a casa. In paese si sparse la notizia che era stato trovato un soldato impiccato. Il prete e il sindaco del paese dettero disposizione che venisse celebrato il suo funerale, e la Chiesa avrebbe provveduto a far sì che il soldato avesse una sepoltura cristiana. Addosso al morto furono trovati dei documenti, in questo modo si venne a conoscenza del nome e del grado. Ai suoi funerali partecipò molta gente del paese, anche quel soldato era stato una vittima della guerra. Il prete durante la messa volle parlare di pace e di considerare il soldato austriaco come un fratello. Aveva anche lui dei parenti che in qualche modo sarebbero stati avvertiti della sua morte, e, magari, un giorno avrebbero potuto venirlo a salutare. Le parole del parroco commossero un po’ tutti; vi partecipò anche Primo, assieme ai suoi compagni di scuola. Il ragazzo indossava le scarpe che aveva tolto al morto, e aveva l’impressione che tutti lo osservassero.

La funzione religiosa si concluse con dei canti solenni. La bara fu portata a spalle da quattro militari del regio esercito, e il soldato nemico venne sepolto assieme a due soldati italiani. In quella tomba non mancarono mai dei fiori. Questo episodio commosse anche Primo e ne parlò a scuola, la maestra volle avere una descrizione precisa su come si svolse il funerale. Nel mese di dicembre ricorre la festività del S. Natale che per tanti è molto significativa, in quanto nasce il Salvatore del mondo e questo fu anche per la famiglia di Primo. La maestra aveva voluto fare un grande presepe in classe, aveva pure chiesto a Primo e agli altri allievi di riparare qualche statuina che si era danneggiata, perché il presepe rappresentava la Sacra Famiglia che era d’esempio a tutte le famiglie. Primo si era incaricato di organizzare la giornata del restauro. Ogni allievo doveva provvedere a portare qualcosa che sarebbe servito. La maestra volle che tutta la classe fosse coinvolta. Quel presepe era lo spirito della rinascita, della gioia. Il giorno dei lavori la signora maestra volle che Lucia preparasse delle ciambelle e una torta.

Lucia, in poco tempo, e con pochi denari aveva fatto dei miracoli e il profumo dei dolci si espanse in tutta la scuola. La sera era scesa, e illuminati con un lume lavorarono fino al compimento del restauro. Il presepe fu ultimato e sistemato all’ingresso della scuola. La gioia degli allievi fu completata dalle ottime fette di torta e dalle ciambelle che Lucia aveva preparato. Fu una vera e propria festa per quei ragazzi che cercavano di dimenticare la guerra. Il giorno dopo venne anche il parroco a vedere come erano venuti i restauri, e si complimentò con i giovani. Il parroco regalò a ciascun allievo un’ immagine della Natività che aveva appena ricevuto da una benefattrice. Questo Natale fu diverso dal precedente, non eravamo più invasi, ma finalmente liberi. Nella notte di Natale tutta la popolazione di recò alla Santa Messa di Mezzanotte e venne posto nel presepe il Bambinello. Nessuno avrebbe mai dimenticato quei momenti di letizia e di pace

. Dopo le vacanze natalizie la maestra riprese le lezioni, appariva riposata. Raccontò che aveva passato la giornata del Natale in casa con Lucia, che per lei era diventata come una figlia. La scuola era il luogo dove s’insegnava agli studenti ad affrontare il futuro. Alla fine del ciclo scolastico ogni allievo avrebbe proseguito con qualche attività lavorativa: come falegname, muratore, mosaicista, ma qualcuno sarebbe dovuto andare a lavorare all’estero. Anche il padre di Primo, a malavoglia, dovette andarsene via da casa. La consolazione della moglie e dei figli era che non andava in guerra e che presto sarebbe tornato. La fame dopo la fine della guerra si era fatta sentire, tanti chiedevano aiuto al prete e questi, non potendo fare miracoli, bussava alla porta di quelli che avevano qualcosa di più. In una predica ripeté più volte che nella vita bisognava lottare, non fermarsi mai, ma rimanere nella retta via, quella che ci conduce alla salvezza.

 A scuola la maestra aveva continuato a fare lezione, e i ragazzi si impegnavano molto, in quell’anno avrebbero avuto gli esami. La cosa non preoccupava Primo, perché confidò ad un suo amico che avrebbe voluto ripetere l’anno, perché in questo modo avrebbe imparato altre nozioni. La lettura del libro Cuore era continuata, e ci si soffermava per delle considerazioni dopo ogni capitolo. Nel giorno in cui si era parlato dell’Unità d’Italia, lessero il capitolo che raccontava del funerale di Vittorio Emanuele II.      
Toccò a Primo di leggere il racconto: “ Quattro anni sono, in questo giorno, alle due, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, morto dopo ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in sette Stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato solo, indipendente e libero; dopo un regno di ventinove anni, ch’ egli aveva fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei pericoli, con la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto la pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni parte d’ Italia, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria di un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove l’aspettava la tomba. In questo momento dodici corazzieri levavano il feretro dal carro. In questo momento l’Italia dava l’ultimo addio al suo Re morto, al suo vecchio Re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu un momento grande e solenne. Lo sguardo, l’anima di tutti trepidava tra il feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell’esercito d’Italia portate da ottanta ufficiali, schierati al suo passaggio; poiché l’Italia era là, in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifici, i nostri più tremendi dolori. Il feretro, portato dai corazzieri, passò, e allora si chinarono tutti insieme, in atto di saluto, le bandiere dei nuovi reggimenti, le vecchie lacere bandiere di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Novara, di Crimea, di Palestro, di San Martino, di Castelfidardo, ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme:- Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l’Italia. - Dopo di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e Re Vittorio entrò nella gloria immortale della tomba.”


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